15 Luglio 2021

“Sono salito dove il cielo è più alto dove ti schianta l’incanto”. Per Lorenzo Scandroglio

Aveva il viso di un Pan tra i ghiacciai, sapeva che se ti è concessa la vetta sei pari agli immortali, era certo della sfera nuziale delle poiane, dell’inno dell’erba, dava il giusto peso alle relazioni tra gli uomini, felici perché transitorie, parziali, avventate. Tutti hanno amato Lorenzo Scandroglio, lui tutti ha amato: l’ultima volta si è fatto vivo, sempre in un perenne altrove dell’uomo, fauno, fatato, fatale creatura in estinzione, il giorno del mio compleanno, regalandomi alcuni “brevissimi racconti di natura e montagna”, da pubblicare su Pangea. Mi aveva invitato nel suo rifugio, al Veglia, dove il male lo ha preso, due settimane fa, emorragia cerebrale, schiantandolo, nonostante il ricovero all’ospedale Maggiore di Novara. Naturalmente, ho detto un tintinnante, bieco, certo che un’amicizia non si commisura nel numero di incontri, di chiacchiere, di inchini. Molti anni fa – nel 2000 – io vivevo l’oro dei vent’anni, mi svezzò alla poetica, più che alla poesia. Andai a trovarlo al Devero, mi intimò di portare Rilke, Le elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo, con il commento di Franco Rella. Divorai Rilke nella tratta Milano-Domodossola; ricordo le stelle, al Devero, vive come bestie, e Lorenzo che mi faceva capire quale sintonia lega i sentieri di monte al verso di Rilke, la tratta delle aquile a Hölderlin. Capii che non si è poeta perché si scrivono poesie – fanghiglia bassoborghese – ma perché poeticamente si vive.

Così, che paradosso, i giornali che con dedizione ricordano Lorenzo, ne esaltano il genio per l’altura, per la montagna, dimenticandosi che la marcia, Lorenzo, l’ha imparata dai versi. Ha pubblicato poco, è vero, ma la quantità è al servizio della merce e Lorenzo era un corpo impastato nel vento, che s’imponeva la verità, la spavalderia. Nel 2003 con l’editore LietoColle aveva pubblicato una raccolta, Lo sprone e il morso, assai considerata; lui, da sconsiderato, fece di tutto per alienarsi dal cenacolo dei poeti in estinzione, mummificati nel livore, rosi dalla ‘carriera’. Lo ricordo, sempre, con una geografia intorno: a Lerici, alla corte del ‘Mangiafuoco’ Angelo Tonelli, un sapiente, in Val Vigezzo, a Torino, mentre il Po, intorbidato dalla sera, cattivo e bronzeo, pareva un boa. Ha accordato la sua capacità giornalistica con la passione per la montagna: è stato caporedattore di “ALP”, ha scalato in Pakistan, ha tradotto John Keay per Neri Pozza (Quando uomini e montagne si incontrano), e collaborato, a sprazzi, per “il Domenicale” diretto dall’amico Angelo Crespi. David Herbert Lawrence – che ha tradotto con genio – era tra i suoi numi: ne amava l’anarchismo, l’eros come disciplina, l’estro dionisiaco; si somigliavano, fisicamente, in modo violento. Nel suo patheon figurano gli scrittori dell’estrema vitalità, del disumano amare: Goethe, Giordano Bruno, Bruce Chatwin, Ernst Jünger. Le sue collaborazioni con i giornali erano autentiche e sporadiche: credeva che la scrittura, in fondo, fosse un tradimento, un atto di codardia; preferiva l’incontro, il ‘bel gesto’, l’occasione che fa poeti, la scalata, la dolce ebbrezza della fatica. Aveva braci negli occhi, sapeva che tutto è temporaneo e va amato proprio per la sua fuga. Su “il Giornale”, tra i tanti articoli, ricordo un’intervista a Derek Walcott, era il 2012, in cui il Nobel per la letteratura gli dice che “nessuna opera d’arte o letteraria e nessun grande scrittore o artista è in grado di rispondere in modo risolutivo alla questione fondamentale della morte, cioè del tempo che passa, che è la sostanza autentica della realtà”.

Sceglieva le storie estreme, le persone avvincenti: sopravvissuto al crollo di una valanga, vergò un reportage narrando quel bianco abisso; ma non è mai miracolato chi vive nel gorgo del miracolo. “Vitalista e camaleontico, ironico e malinconico, amante dell’avventura nella realtà e nello spirito, giocoso e insieme serissimo, tiene insieme con uno stile scabro e concatenato… una materia variabile, che è la sua stessa vita”, scrisse della sua poesia Angelo Tonelli. Di un suo poema, Poesia e vita, conservo questi versi, “Infine sono salito dove il cielo è più alto/ dove ti schianta l’incanto”, che paiono epigrafici.

Esattamente vent’anni fa, insieme, partecipammo a un convegno ideato da Marco Merlin e dalla rivista “Atelier”, che fu la mia casa. Lorenzo Scandroglio scrisse un testo – poi raccolto nel numero 24 di “Atelier”, dicembre 2001 – La caduta verticale della poesia, che è una diagnosi feroce sul “tradimento della bellezza” perpetrato dal nostro tempo. “Il fatto che la poesia sia sopravvissuta al Novecento significa che, per quanto degradata, essa è insopprimibile. Tale deprezzamento non le è peculiare, ma si inserisce in un più generale disagio, in un malessere che penetra nella carne della civiltà occidentale fino ai gesti e al dire quotidiano”, attacca – aveva un’epica, una anabasi tra le dita, Scandroglio. “Il Pensiero Unico del lucro si impone sulla gratuità del poetico e si manifesta nel tentativo di cancellare quelle differenze che danno senso all’amore, al viaggiare, allo stesso esistere”, scrive, tentando “la poesia… come forma privilegiata di conoscenza, non più ai margini, nel regno del decorativo o dell’intrattenimento giullaresco”. Per questo, Scandroglio ha preferito la vita alla burocrazia lirica, il cielo stellato alla scrivania, il rifugio – di per sé, icona dell’inconsistenza, dei legami aurorali poiché santificati dalla fragilità – all’aula degli accademici della poesia. Assegnò una poetica alla sua vita, dunque fu poeta, per questo immortale, immortalato da una generosità perpetua, spiazzante, di chi ti offre tutta l’ospitalità possibile, pronto agli impossibili – eppure, era esigente nella rabbia.

Nel 2019, mi ha regalato un editoriale che sintetizza ancora meglio, se possibile, la sua indole. “Sogno, idea, visione, sono parole rimosse anche da gran parte del vocabolario artistico, cioè rimosse dai vocabolari che eludono la questione della morte. In questo ambito, in questa terra non ancora del tutto dissodata dell’alpinismo, in questa novalis, lo scalatore, assomiglia al poeta. Gli alpinisti sono dei visionari”. Non si permetteva la nostalgia e l’invidia, privilegio degli arrivati, ha sorbito tutti i veleni, riducendoli in miele, aveva il Tabor nella tasca destra e il Monte Analogo sulle spalle, per lui il settimo cielo era un enalotto inutile, l’eden una bieca cartolina. Era già al di là, tra i capelli di un dio. (d.b.)

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