
Bataille e l’ossessione per il buco del c**o: una filosofia erotica (ed eretica) senza risposte
Letterature
Vincenzo Liguori
Se c’è una cifra che accomuna la scrittura di Franco Cordelli, in cinquant’anni di attività letteraria, è – credo – quella della disappartenenza. Anche nel suo nuovo libro, Tao 48 (La Nave di Teseo), che esce sei anni dopo Una sostanza sottile (Einaudi), è possibile individuare un continuo tentativo di sottrarre il soggetto a se stesso, una qualche verità a se stessa. Il narratore, non a caso, è a volte in prima persona, altre volte in terza, in un’oscillazione straniante, ma è sempre Franco Cordelli: sua l’età, suoi i ricordi, gli atti, i pensieri.
Ma è davvero così poi? Ogni autobiografia, si sa, è autofiction, messinscena, invenzione. A maggior ragione con Cordelli, allora, che predilige alle storie i «fac-simile», i «surrogati», le «rimasticature», per sua stessa ammissione. E del resto, esiste oggi in Italia uno scrittore più sperimentale? Uno scrittore, voglio dire, più raffinato e inafferrabile? Tao 48 è un antiromanzo in forma di raccolta di racconti o una raccolta di racconti in forma di antiromanzo. È un libro che racchiude testi scritti nell’arco di quarant’anni, ma restituiti a una sorprendente omogeneità e coerenza, con richiami tematici e strutturali, come fosse stato concepito per intero adesso.
Mandata all’aria la psicologia, le trame, la causalità (tutti relitti ottocenteschi), su cosa si reggono queste narrazioni? Nel descrivere un pensiero, uno stato d’animo, una situazione, Cordelli afferma spesso un concetto e insieme il suo contrario, negando il principio di non contraddizione. Qualche esempio?
«Era il tempo, che gli piaceva – e dunque non gli piaceva»
«Io che non ho figli, ne avevo addirittura tre»
«In questa storia, pensava, non c’è storia»
«Aveva avuto prove serie di cose che lui credeva accadute e non lo erano. Aveva avuto prove serie del contrario»
«Eppure, Shakespeare, che va bene sempre, in quel momento non c’entrava niente (…) Oppure, c’entrava moltissimo»
«L’incredibile era questo: che anche a lui fosse concesso tanto o tanto poco».
Non esiste nulla in questa scrittura che si salvi dalla sua relatività o dalla sua smentita. Il narratore è spesso dominato da una «oscura perplessità», o cerca «di alienarsi nel mondo» (non dal mondo), il mondo con le sue ideologie, le sue illusioni, le sue relazioni, la sua politica – e la rovina di tutto ciò – in oltre mezzo secolo italiano. Come? Ricorrendo all’antitesi, appunto. Lo stesso Tao del titolo allude, nella filosofia cinese – in quel Lao-Tzu che compariva già in Una sostanza sottile – al concetto di movimento, di flusso perenne (nel Libro dei mutamenti si legge: «una volta yin, una volta yang, ecco il tao»), ma anche alla Terapia Anticoagulante Orale a cui si sottopone l’autore-narratore (e dunque, ancora, a qualcosa che facilita la fluidità, che impedisce la formazione dei coaguli). E ricorrendo, inoltre, alla reticenza, alla sottrazione.
A un certo punto, in uno dei racconti più belli («Tre orologi») si fa riferimento a un libro di Viktor Šklovskij, Zoo o lettere non d’amore, scritto nel 1923: un libro in cui una donna vieta all’uomo innamorato di lei di scriverle d’amore, costringendolo a vergare lettere che sono un infinito divagare, un parlare di tutto per non parlar d’amore, ma quella negazione, alla fine, rimanda continuamente al discorso interdetto. Così anche Cordelli scrive racconti in cui «si era accumulato tutto il dicibile, che pure non veniva detto» (Regina Elena): nomina Roma, la sua città (ogni capitolo è intestato a un quartiere o luogo o edificio della capitale), ma per dire piuttosto di un’assenza, di una perdita irrimediabile; parla di spazi, che però rimandano sempre al tempo, un tempo assediante, benché lui stesso affermi che il tempo non esiste o non importa («Non: quando cadrà la freccia? Ma: dove essa cadrà?», scrive in Villa Betania). Cosa sono le memorie d’infanzia e di gioventù, con tutte quelle date che riempiono le pagine, e i ritorni di persone dal passato (le donne, soprattutto, come nello struggente Baiamonti), se non delle figure che sostituiscono altre figure, inenarrabili?
Anche i racconti mancanti nell’indice (ne troviamo numerati 48, ma in realtà ne sono 32), vanno intesi come la «casella vuota» di cui parla Deleuze nella Logica del senso, in combinazione con il «perpetuo spostamento di un pezzo»: qualcosa che manca sempre a qualcos’altro. Lo stesso Tao, in fondo, invita alla sottrazione, al «tagliare via» («tagliare, bisogna sempre e solo tagliare» scrive il narratore). E sottrazione, selezione, è, a ben vedere, anche l’arte del teatro. Quel teatro che, da critico, Cordelli segue da una vita, e che in questi racconti è quasi onnipresente, nella quotidianità, nelle cronache, nelle citazioni, ma anche nei nomi dei personaggi (ancora una volta le donne: Emilia, Costanza, Miranda, Elena, Caterina le ritroviamo continuamente, ciclicamente, in un eterno ritorno, per tutto il libro sempre le stesse e sempre diverse), nomi, tutti, che provengono da Shakespeare (anche Bernardo, Lorenzo). Ma il teatro, scriveva Koltès (drammaturgo da Cordelli amato) è evidentemente il contrario della vita ed è «il solo posto nel quale si ammette subito che la vita è altrove». Così è anche la scrittura di Cordelli, attraverso la specola del teatro: «la percezione di un che di mancante, di una zona opaca, oscura, indicibile» (Barberini).
Cosa resta, allora, se la vita fugge, si nasconde, si fa «indicibile»? Resta giusto la disappartenenza, coincidente con «l’atto del vedere», che non è semplice, perché «è sempre tradotto in una frase, un pensiero, un pensare», e solo permette quel distacco che nel taoismo introduce all’ascesi. In Tre orologi, ad esempio, si racconta del processo per l’omicidio di Marta Russo a La Sapienza (ma ci sono altri due capitoli che rievocano fatti di cronaca nera romana, come gli omicidi efferati di Giovanna Reggiani, in Tor di Quinto, e di Donata Simonetti, in Arco di Travertino): Cordelli ci dice che esiste da un lato «la verità del mondo, l’accadimento; dall’altra il commento». C’è un delitto, dunque, che è la vita, e ci ferisce e ci dissangua, e c’è un processo, un processo senza fine, che commenta e indaga e cerca indizi e prove o raccoglie testimonianze, e vuole risalire alla causa di quel delitto, alla sua origine. Cerca, cioè, di raggiungere la verità attraverso una disanima, una critica della vita. «Quale che sia il suo esito – scrive Cordelli – il processo ristabilisce l’equilibrio del cosmo».
Forse è l’ultima fede residua che uno scrittore può professare, oggi. Ma anche questa è un’affermazione che può rovesciarsi facilmente nel suo contrario.
*In copertina: un’opera di El Lissitsky del 1923