29 Febbraio 2024

“Oscuro è il sangue da cui è nato l’uomo”. I sortilegi letterari di Hermann Broch

Hermann Broch toglieva il respiro. Letteralmente. Succhiava il respiro altrui. Nel suo libro più bello, Il gioco degli occhi, Elias Canetti scrive che “ogni essere respirante, e quindi ogni persona, poteva catturare Broch”. Viveva nell’aura del proprio respiro per aspirare a quello degli altri, Broch. L’ispirazione è sempre qualcosa di aggressivo, che soffoca. Canetti ne era stupefatto. Viennese, erede di una ricca famiglia ebraica impegnata nell’industria tessile, Hermann Broch aveva esordito, ultraquarantenne, con I sonnambuli. Aveva, come si dice, una rispettabilità; che si onorava di deprezzare, di disprezzare. “Per lui ogni incontro era un rischio, perché non sapeva più sottrarvisi”. Era vertiginoso e disgregato, Broch, di una bellezza d’abisso, sbilenca e bianca, come un’ascia. “Mi pareva di vedere in lui un uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze. Sembrava che si ricordasse di un tempo in cui poteva ancora volare”, scrive ancora Canetti. In realtà, Hermann Broch era un vampiro. Era uno che toglieva il respiro. Si innamorava di continuo, attraeva per un sovrappiù di tenebra – o di innocenza. “Il gioco degli occhi” di cui racconta Canetti è quello tra Broch e Anna Mahler, la bellissima figlia di Gustav Mahler e di Alma Schindler: sono occhi carnivori, da belva, quelli; occhi che sbranano. Occhi che fanno incetta di occhi, memorabile predazione di sguardi.

Allo stesso modo, Hermann Broch, per così dire, ha tolto il respiro al romanzo europeo. Lo ha esaurito. Lo ha accecato. Seguace di una tradizione solidissima – che da Goethe arriva a Thomas Mann e Robert Musil –, ha posto il romanzo in un luogo senza ritorno. Abbozzato nel 1935, scritto sotto l’egida nazista, quando “non vedevo più possibilità di pubblicare”, La morte di Virgilio, questa “concentrazione costante, intensissima sull’esperienza della morte”, è il ground zero e il nadir della letteratura europea, “una specie di straordinaria sconfitta”, secondo Ezio Raimondi, “che porta il raccontare oltre le strade correnti”. Quando fu pubblico, nel 1945, a New York, Hermann Broch sapeva di essere uno scrittore espatriato dal tempo, fuori asse, “in un’epoca come la nostra che per la sua nuda rozzezza altro non riesce a sopportare se non ciò che è assolutamente immediato”. I lacerti originari, feti verbali che precedono il capolavoro – i fascicoli del ’38 pubblicati come Il ritorno di Virgilio dalle Edizioni Via del Vento, 2022 – mostrano Virgilio che percepisce, in visione, la fine della civiltà umana:

“Vide Tebe desolata e Gerusalemme spesso distrutta, e vide Roma devastata, una Roma per le cui strade vagavano i lupi che volevano riprendere possesso della loro città, e riconobbe l’impotenza degli dei”.

Broch, sentinella su un mondo moribondo, senza fiato, ha scritto il romanzo infinito e terminale; è il boia del romanzo, ci porta, insieme a Virgilio, “al di là del linguaggio”.

Mentre inaugura la scrittura de La morte di Virgilio, nel 1936, Hermann Broch conclude la prima versione di Die Verzauberung, “Sortilegio”, che rielabora, in modo sonnambulico, divinatorio, allucinato, per tutta la vita. Il lavorio alchemico non lo soddisfa: Sortilegio viene pubblicato nel 1953, Broch era morto da due anni. Tradotto nel 1982 da Rusconi, torna – in quella stessa traduzione, di Eugenia Martinez – per Elliot e Carbonio: secondo Andrea Caterini, è questo il capolavoro di Broch, il romanzo in cui l’autore austriaco ha “raggiunto una misura ideale”. Piuttosto, Sortilegio è l’opposto de La morte di Virgilio. Questo è il non-romanzo dell’ineffabile, dell’ispirazione, dell’altro e dell’oltre, mentre Sortilegio è il romanzo del rito e del sangue, del qui-e-ora, della terra che urla. Ambientato in un villaggio montano, sulle pendici del Kuppron, il libro racconta, attraverso lo sguardo di “un anziano medico di campagna, un uomo già avanti negli anni”, una storia di mistificazione e di ipnosi collettiva che ha per fulcro lo sciamanico Marius Ratti, di origini italiane, in grado di trarre oro dalla cupa montagna. Gli abitanti del villaggio sono rapiti dalla stregoneria ordita da Ratti, che li tenta, li porta a voltare le spalle al mondo per ricondursi al bosco. Il romanzo ha pagine superbe, è fitto di atroci verità:

“Così è fatto l’uomo. Viene dall’oscurità, è diretto verso l’oscurità, oscuro è il sangue da cui è nato, oscura la morte che lo aspetta, ed è murato fra queste due tenebre”.

Se La morte di Virgilio, secondo la concezione alchemica, è l’albedo, il processo di purificazione, romanzo che distilla la parola ultima, nel crudo candore; Sortilegio è l’opera al nero, nigredo, la putrefazione, lavorio di verbo notturno. Costruito frizionando i contrasti, per contrapposizioni – montagna/villaggio; natura/cultura; religione/superstizione; sacro/dissacrato; oro/lavoro; magia/macchina; irrazionale/ragione; terra/cielo – il romanzo ha parti sconcertati, che pretendono dal lettore un sacerdozio:

“Il paganesimo che è nel sangue uccide e il paganesimo che è nella tecnica uccide: ed è uno e lo stesso, perché tutto ciò che è paganesimo, per sussistere, ha bisogno di uccidere. Solo nel centro mediano della nostra esistenza vi è il sacro, è la sacralità della nostra vita”.

Si dice che Sortilegio sia una “chiara parabola della tragedia nazista”: è molto di più. Scritto in forma superiore – secondo la concezione, autenticamente europea e ormai tradita, per cui il romanzo è una macchina conoscitiva, non una formula per distrarsi –, ricorda che l’uomo è un essere rituale, che la terra si irrita se non è dissetata di sangue. Il punto centrale, mi pare, è la differenza tra sortilegio e liturgia. La liturgia prepara la camera per l’arrivo di Dio, attraverso la ripetizione di gesti di canonizzata esattezza: ciò che accade è sempre lo stesso, mai il medesimo. Il sortilegio è un modo per divinare il destino e imbambolare la sorte ai propri desideri: non ci si apposta nel patto, si tenta l’oro; non si obbedisce ma si va per esuberanza. La liturgia accade ora, in direzione verticale, dalla terra ai cieli; il sortilegio si concentra sul futuro, in direzione opposta, verso il dominio ctonio. La liturgia è l’uomo che si rivolge a Dio; nel sortilegio l’uomo tenta di farsi Dio. Quando si confondono sortilegio e liturgia regna il demoniaco. Il romanzo di Broch, infine, è un esorcismo.

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