Fu un viaggio glorioso, contorto, conturbante. Nel 1925 André Gide – che ha 55 anni ed è l’autore di alcuni dei libri più discussi del secolo, I nutrimenti terrestri, L’immoralista, I sotterranei del Vaticano – fa un lungo viaggio in Africa. In particolare, vaga per l’Africa Equatoriale Francese, costruita, pezzo per pezzo, con sagacia, cautela e senso per l’avventura da un grande esploratore italiano, Pietro Savorgnan di Brazzà. Passa per la Repubblica del Congo, la Repubblica Centrafricana, il Ciad; per Dakar, Brazzaville, Fort Archambault… Risale il Congo, come, prima di lui, aveva fatto Joseph Conrad, a cui il viaggio è un ideale omaggio. Gide si inscrive in Africa e, ovviamente, ne scrive, perché il mondo non esiste se non si fa verbo. Il suo reportage alterna stupore e provocazione, osservazioni microscopiche, dedizione al dato naturale, una critica – che all’epoca fece scalpore – al sistema coloniale francese. Soprattutto, è un diario di viaggio dalla scrittura raffinatissimi. Gide è come un marziano che vaga nei segreti del primo giorno del mondo.
Voyage au Congo, il reportage africano di André Gide, è stato edito in origine nel 1927, da Gallimard, seguito, l’anno dopo, visto il successo e l’accesa polemica “politica” che ne è seguita, da Le Retour du Tchad. Come Viaggio al Congo e ritorno dal Ciad entrambi i testi sono stati tradotti nel 1950 da Einaudi; il libro è stato recuperato, nella stessa formula, da Longanesi nel 1969 e infine ancora da Einaudi, nel 1988, con un saggio di Valerio Magrelli. La recente edizione De Piante del volume, da tempo dimenticato, riproduce Viaggo al Congo, conservando la traduzione d’autore di Franco Fortini, con una presentazione di Pier Luigi Vercesi. Il reportage di Gide è dedicato “Alla memoria di Joseph Conrad”, il grande scrittore di Cuore di tenebra, catabasi negli inferi del Congo, morto nel 1924. Al testo di Gide, in appendice, l’edizione De Piante riporta il Diario del Congo di Conrad: il taccuino del viaggio, piuttosto infelice, redatto dallo scrittore nel 1890. Il diario è il regesto particolare della navigazione compiuta da Conrad che gli sarà utile per la scrittura del suo capolavoro.
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Si risale lentamente il Congo
5 settembre, 1925
Stamani, all’alba, partenza da Brazzaville. Traversiamo il pool per giungere a Kinshassa, dove dobbiamo imbarcarci sul Brabant. La duchessa di Trévise, inviata dall’Institut Pasteur, viene con noi fino a Bangui, dove la chiamano i suoi compiti.
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Traversata dello Stanley Pool. Cielo grigio. Ci fosse vento, avremmo freddo. Il braccio del pool è ingombro di isole, le cui rive si confondono con quelle del fiume: alcune di queste isole di cespugli e di alberi bassi; altre, sabbiose e piatte, sono rivestite in modo ineguale di magri canneti. Qua e là, gorghi circolari levigano la superficie grigia dell’acqua. Nonostante la violenza della corrente, la direzione dell’acqua pare incerta. Ci sono strani vortici, controcorrenti rivelate dagli isolotti d’erbe che portano con sé. Questi isolotti sono talvolta enormi; i coloni si divertono a chiamarli “concessioni portoghesi”. Ci è stato detto e ripetuto che questo risalire del corso del Congo, interminabile, è indicibilmente monotono. Di puntiglio, cercheremo di non doverlo riconoscere. Abbiamo tutto da imparare e compitiamo lentamente il paesaggio. Nondimeno, continuiamo ad avvertire che questo è appena il prologo di un viaggio che comincerà veramente solo quando potremo prendere un più diretto contatto con la regione. Finché la contempleremo dalla nave essa rimarrà per noi un fondale distante e appena reale.
Navighiamo assai vicino alla riva belga. A malapena si distingue, laggiù in lontananza, la riva francese. Enormi distese piatte coperte di canne dove il mio sguardo cerca invano gli ippopotami. Sulla riva, a tratti, la vegetazione si fa più fitta; arboscelli, alberi invece di canne; ma sempre, alberi o canne, la vegetazione si allarga sul fiume o il fiume sulla vegetazione della riva, come succede in tempo di crescita (ma fra un mese, ci vien detto, le acque saranno molto più alte). Rami e foglie si immergono e galleggiano e il risucchio del battello, come una carezza indiretta, passando le solleva dolcemente.
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Sul ponte una ventina di commensali alla tavola comune. Un’altra tavola, parallela alla prima, dove sono stati disposti i nostri tre coperti. Una montagna piuttosto alta chiude il fondo del pool e davanti ad essa il pool si allarga. I risucchi si fan più forti e più vasti; poi il Brabant si avventura nel corridoio. Le rive diventano scoscese e si riaccostano. Il Congo qui scorre fra una serie ininterrotta di colline boschive piuttosto alte. La vetta delle colline è spoglia, o almeno pare coperta di erbe rase, come sui Vosgi; pascoli dove ci si aspetta di veder passare qualche gregge.
Fermata dinanzi a un deposito di legna verso le due (ieri sera ho rotto il mio orologio). Gradevoli ombre di manghi. Davanti a qualche capanna, pochi indigeni indolenti. Vedo per la prima volta degli ananassi in fiore. Farfalle bellissime che inseguo inutilmente con la mia rete, priva ormai del manico che ho perduto a Kinshassa. Gloriosa luminosità. Non fa troppo caldo.
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La nave si ferma al tramonto davanti a un villaggio miserabile sulla riva francese; venti capanne sparpagliate intorno a un deposito di legna, dove il Brabant si rifornisce. Ogni volta che la nave accosta quattro negri enormi, due a prua e due a poppa, si tuffano e tornano a riva per fissarvi gli ormeggi. La passerella viene abbassata ma non è sufficiente, bisogna prolungarla con lunghe tavole. Raggiungiamo il villaggio guidati da un piccolo venditore di collane che viaggia con noi; una bizzarra reticella blu e bianca gli copre il torace e ricade su un paio di calzoni di cotone. Non capisce una parola di francese ma quando lo guardiamo sorride tanto gentilmente che mi avviene di guardarlo spesso. Percorriamo il villaggio approfittando dell’ultima luce. Tutti gli indigeni sono scabrosi o tignosi, o rognosi o non so che cosa. Non ce n’è uno con la pelle pulita e sana. Visto per la prima volta lo straordinario frutto delle passiflore.
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La luna ancora quasi piena traspare dietro la bruma davanti alla nave che avanza nella striscia del suo riflesso. Un leggero vento soffia continuamente alle spalle e fa cadere dal fumaiolo verso prua una meravigliosa pioggia di scintille: pare uno sciame di lucciole. Dopo una luna sosta contemplativa debbo rassegnarmi a scendere in cabina a soffocare e sudare sotto la zanzariera. Poi lentamente l’aria si rinfresca, il sonno viene… Strane grida mi risvegliano: mi alzo e mi reco sul primo ponte illuminato appena dai barlumi del forno dove i cuochi stanno preparando il pane fra risa e canti. Non so come facciano a dormire, gli altri, sdraiati lì vicino. Al riparo di un mucchio di casse, illuminati da una lanterna, vedo tre grandi negri che giocano a dadi intorno a un tavolo; clandestinamente perché i giochi di soldi sono proibiti.
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5 e 6 settembre
Rileggo l’orazione funebre di Bossuet per Enrichetta di Francia. A parte il bellissimo ritratto di Cromwell e una frase al principio sugli limiti che Dio impone allo sviluppo dello scisma, non vi trovo granché di straordinario, almeno al mio gusto. Tuttavia noto questa frase: “In mezzo ai dolori più mortali si è ancora capaci di gloria”; e: “Impresa il cui successo sembrerebbe infallibile tanto è giusto il suo proposito”. Abuso di vuote citazioni.
L’orazione su Enrichetta di Inghilterra che rileggo subito dopo mi sembra molto più bella e più diffusamente bella. Qui ritrovo la mia più intensa ammirazione. Ma che ragionamenti speciosi! Immaginiamoci qualcuno che dicesse a un viaggiatore: “Non guardate il paesaggio mutevole, contemplate piuttosto la parete del vagone che, almeno, non muta”. Eh diamine! Gli risponderei, avrò tutto il tempo di contemplare ciò che non muta dacché mi assicurate che la mia anima è immortale; lasciatemi dunque amare in fretta ciò che tra un istante sarà sparito.
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Dopo la seconda giornata un po’ monotona abbiamo pernottato davanti alla missione americana di Ciumbiri, dove abbiamo gettato l’ancora fin dalle sei. (La notte prima il Brabant non si era fermato.) Mentre attraversavamo il villaggio il sole stava tramontando; palmeti, abbondanti banani, i più belli che io abbia mai veduto finora, ananassi e quei grandi arun di radici commestibili. Aria di prosperità. I missionari sono assenti. Tutta una folla era sulla riva, in attesa dello sbarco, perché prima di gettar l’ancora abbiamo costeggiato una quantità di villaggi abbastanza importanti.
Siamo discesi a terra dopo cena che era già venuta la notte, scortati da una schiera di bambini che ci provocavano agli scherzi. Sulle terre basse della sponda del fiume innumerevoli lucciole tra l’erba che si spengono appena si cerca di afferrarle. Risalgo sulla nave e mi trattengo sul primo ponte tra i negri dell’equipaggio, seduto a un tavolino, accanto al piccolo venditore di collane che sonnecchia, mano nella mia mano, appoggiando il capo sulla mia spalla.
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Lunedì mattina, 7 settembre
Al risveglio lo spettacolo più meraviglioso che si possa vedere. Il sole sorge mentre entriamo nel pool di Bolobo. Sull’immensa distesa dello specchio d’acqua nessuna increspatura, nemmeno un fremito leggero che possa offuscarne un po’ la superficie; è una lama intatta ove ride il purissimo riflesso del cielo. A oriente qualche lunga nuvola imporporata dal sole. Verso l’occidente cielo e lago sono di un medesimo colore di perla, un grigio di una delicatezza intenerita, squisita madreperla dove tutti i toni, fusi tra loro, dormono ancora, ma dove già preme la promessa della ricca colorazione del giorno. Lontano, qualche piatto isolotto galleggia senza più peso su una materia fluida… L’incanto di questo paesaggio mistico dura soltanto qualche attimo; presto i contorni si affermano, le linee si precisano; siamo di nuovo verso terra.
L’aria talvolta spira tanto leggera, tanto soave e voluttuosamente dolce, che quasi si crederebbe di respirare un conforto alla vita.
Per tutto il giorno abbiamo navigato tra le isole; talune riccamente selvose, altre coperte di papiri e di canne. Uno strano intreccio di rami s’immerge folto nell’acqua nera. Di tanto in tanto un villaggio le cui capanne si distinguono appena; ma che è rivelato dalla presenza di palme e di banani. E il paesaggio con quella sua variata monotonia finisce col prendermi talmente, che a fatica me ne separo per la siesta.
Mirabile tramonto di sole, che l’acqua levigata replica impeccabilmente. Spesse nuvole oscurano l’orizzonte; ma un angolo del cielo si apre, indicibilmente, per lasciar vedere una stella sconosciuta.
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8 settembre
Fa piacere pensare che l’oratore sacro deve la sua sopravvivenza nella memoria degli uomini proprio alle sue qualità più profane e che gli debbono essere apparse quelle più offerte alla sua vanità.
Mi aspettavo una vegetazione più opprimente. Fitta, è vero, ma non tanto alta da ingombrare la vista dell’acqua o del cielo.
Le isole stamani si distribuiscono sul grande specchio del Congo in un modo così armonioso che pare di muoversi in un parco d’acqua.
Qualche volta uno strano albero domina la fitta boscaglia della riva, come un a solo nella confusa sinfonia vegetale. Nessun fiore; nessuna nota di colore oltre quella verde, un verde uguale, molto scuro che conferisce a questo paesaggio una solenne tranquillità simile a quella delle oasi monocrome, una nobiltà che non sa raggiungere la varietà sfumata dei nostri paesaggi nordici.
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Bosum, 9 dicembre
L’assenza d’individualità, d’individualizzazione, l’impossibilità di giungere a una differenziazione che mi rattristava tanto al principio del mio viaggio; e da Matadi in poi davanti ai gruppi di bambini tutti uguali, indifferentemente gradevoli, eccetera; e nei primi villaggi, davanti alle case tutte identiche con il loro gregge umano uniforme di apparenza, di gusti, di costumi, di possibilità, eccetera, è quel che più fa soffrire, anche nel paesaggio. A Bosum da dove si domina tutta la regione sono ora su questa spianata di laterite rosso-ocra, contemplando la bellissima qualità di questa luce ovunque diffusa. Il paesaggio è mosso, larghi declivi, eccetera; ma perché vorrei raggiungere quel punto invece di quell’altro? Tutto è uniforme. Nessun luogo, nessuna predilezione possibile. Sono rimasto tutta la giornata di ieri senza il minimo desiderio di muovermi. Da una parte all’altra dell’orizzonte, e fin dove il mio sguardo possa giungere, non c’è nemmeno un sol luogo che si distingua e dove potrei avere il desiderio di recarmi. Ma com’è pura l’aria! Com’è bella la luce! Che tepore squisito avvolge tutto l’essere e lo penetra di piacere! Come si respira bene! Com’è dolce vivere…
Questo principio della differenziazione che qui ho acquistato, da cui dipende tanto tutto ciò che è squisito quanto quel che è raro, è così importante che mi pare il massimo insegnamento che possa riportare da questo paese.
Yves Morel si stende, si sbottona. Ancora molto giovane ma già molto Karamazov padre. Un attacco reumatico lo torce di tanto in tanto; e gli strappa brevi grida. D’altronde un ottimo ragazzo. Parliamo di politica, di morale, di economia, eccetera. Le sue considerazioni sugli indigeni mi paiono tanto più giuste in quanto confermano il risultato delle mie proprie osservazioni personali. Crede, quanto me, che si esagerino moltissimo, in genere, tanto la salacità quanto la precocità sessuale dei negri e il significato osceno delle loro danze.
Mi parla dell’ipersensibilità della ragazza negra verso ciò che contiene elementi di superstizione, della sua paura del mistero, eccetera, tanto più notevole in quanto d’altra parte egli ritiene il sistema nervoso di questa razza molto meno sensibile del nostro; di qui maggiore resistenza al dolore, eccetera. Nella sottodivisione del Medio-Congo dov’è stato amministratore la consuetudine voleva che un malato dopo la convalescenza cambiasse nome per indicare bene che era guarito e che la persona malata era morta. E quando Morel senza essere avvisato faceva ritorno in qualche villaggio dopo un’assenza abbastanza lunga per fare il censimento della popolazione accadeva che una donna, a sentirsi chiamare col suo vecchio nome, cadesse come morta di terrore e di angoscia, in una crisi nervosa semi-catalettica tanto profonda che talvolta ci volevano diverse ore per farle riprendere i sensi.
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Ho raccolto sulla strada un minuscolo camaleonte e l’ho portato con me nella capanna, dove sono rimasto a osservarlo per quasi un’ora. È veramente uno dei più straordinari animali della creazione. Vicino a me, mentre sto scrivendo queste righe, un grazioso piccolo macaco, che mi hanno portato stamani, atterrito dalla mia faccia bianca. Scappa a cercar rifugio fra le braccia di un indigeno qualsiasi che gli passi vicino.
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Piacere un po’ neroniano di accendere un fuoco nella savana. Basta un fiammifero e presto l’incendio prende delle proporzioni spaventevoli. I negri accorrono ad afferrare le grosse cavallette che fuggono le fiamme. Raccolgo una minuscola mantide che sembra fatta di foglie morte, ancora più strana dei lunghi insetti-feti che abbondano. Yves Morel è malato. È il seguito dell’attacco reumatico di ieri; ha vomitato tutta la notte. E verso mezzogiorno, quando andiamo da lui a pranzo, vomita ancora, disteso sul suo letto al buio mentre noi mangiamo nella stanza accanto. Gli facciamo inghiottire un po’ di magnesia e di bicarbonato. Sembra che lo faccia star meglio. Qui l’unico medicinale che ci sia è il chinino.
Impossibile esprimere la bellezza di queste sere, di queste notti di Bosum.