Il corpo è un foglio, un libro. Si può venerare un corpo per la sua purezza, cristallina, al riparo dal rumore del tempo, educato all’armonia, feroce. Una piastra priva di incisioni, soprannaturale; un monito. D’altronde, è degno di amore un corpo continuamente segnato, tracciato; un corpo offerto al disegno, allo sdegno. Uno è un corpo nudo, in attesa di ospite; l’altro è un corpo stupefatto dalla storia. I tatuaggi hanno un fascino indiscutibile: di un corpo complicano il segreto. I tatuaggi, perché indelebili, esprimo un patto, una appartenenza: il corpo è una prateria su cui vivono fatti, che non puoi dimenticare. Il desiderio di chi abbraccia un corpo simile è appartenere a quella storia, testimoniata dal disegno, da cui è decisamente escluso. Un tatuaggio è esclusivo – esclude. Ora che va di moda – abbellimento privo di rito, ornamento scelto su un catalogo, a seconda del “gusto” e non del necessario – è meno ammaliante.
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Nel 1910 Jun’ichiro Tanizaki aveva 24 anni, scelse di mollare gli studi – veniva da una famiglia modesta –, pubblicò sulla rivista dell’università di Tokyo un racconto eccezionale, Il tatuaggio, che costituisce il suo esordio, folgorante, alla letteratura. Tanizaki ambienta il racconto in un tempo in cui “la bellezza si era sostituita alla forza e la bruttezza era sinonimo di debolezza”; un’epoca frivola, dove l’arte occupa lo spazio del rito, dove l’artificio prevale sulla carne e il diletto sulla legge. Il tatuaggio è pura estasi: del ‘mondo fluttuante’, dove tutto ghigna mutando – la carne, frollata dall’uso, i sentimenti storpiati dall’abuso –, è il tratto che resta, simulazione del dio immobile, dell’immutabile.
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“Tutti cercavano di apparire belli, e alcuni giungevano al punto di fare del proprio corpo uno strumento di pittura: sulla pelle di costoro danzavano linee e colori variegati e sgargianti”. Privo della prova – il tatuaggio che marchia una fede, un amore, un evento – il tatuaggio significa l’effimero, è un urlo di disperazione, un giogo, perché, come nel ritratto di Oscar Wilde, l’arte resta ma il corpo cambia.
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Di questo mondo elevato al vano, l’emblema è “un giovane tatuatore di nome Seikichi, di eccezionale abilità”. Pittore di talento, sceglie di dedicarsi a un’arte volgare – perché tale è il corpo – con istinto sadico. Seikichi valuta se accettare o meno le commissioni, sceglie i corpi su cui lavorare, decide il disegno, adopera gli aghi con lo scopo di produrre dolore. “Quando il suo ago penetrava nella pelle dei clienti e la carne si gonfiava e il sangue scorreva vermiglio, erano molti quelli che gemevano dal dolore, e più si lamentavano più egli provava un indicibile piacere”.
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Tanizaki, scrittore eccezionale, di lucida crudeltà, racconta la perversione con infiammata indifferenza: la mano che afferra il bisturi è ferma, non umana. Così, i cliché tipici del decadentismo, dell’orfismo gotico, del masochismo occidentale – i modelli di Tanizaki sono Poe, Wilde, Baudelaire, Sade – depurati di aggettivi esorbitanti e di eloquenti ‘quinte’, di meditate atmosfere, risaltano imperdonabili, pietrificano. L’arte per l’arte, la bellezza attraverso la sofferenza, la donna crudele, angelo vendicativo più che del focolare (simboleggiato da una stampa che raffigura “una giovane donna appoggiata a un tronco di ciliegio che contemplava un mucchio di cadaveri di uomini ai suoi piedi”, dacché un amante non è meno fragile di un fiore che appena fiorito sparisce), non sono idee abili a scandalizzare i borghesi, ma ustioni, reperti del lebbrosario umano.
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Esteta estremista, da anni Seikichi cerca il corpo perfetto su cui eseguire l’opera definitiva: egli vuole consegnarsi, senza eredi, e morire, perché chi domina un’arte in modo impeccabile sa che essa lo ucciderà. Un giorno, incrocia una ragazza, ne intuisce la straordinarietà dal “candido nudo piede che spuntava dalla cortina di bambù di un palanchino… al suo occhio attento un piede poteva trasmettere le stesse complesse sensazioni di un viso, e il piede di quella donna gli apparve come un prezioso gioiello di carne”. Ossessionato dai piedi – e dalla donna che calpesta il suo uomo, votata allo sterminio – Tanizaki compie circolarmente la sua disciplina letteraria. Nato nel 1910 con questo racconto, muore nel 1965 dopo aver pubblicato Diario di un vecchio pazzo, romanzo folle e straordinario, in cui il protagonista, il signor Tokusuke, desidera morire con i piedi della nuora, l’impeccabile Satsuko, impressi sulla lastra della tomba.
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Quando l’artista trova il corpo-foglio su cui esprimere il proprio capolavoro – un’opera, tuttavia, mortale – in una giovane donna di piacere, la narcotizza. Lavora sulla sua schiena per ore, “le gocce di cinabro delle Ryukyu che, mescolate a alcol, venivano lentamente iniettate erano gocce della sua stessa vita. Quello che vedeva era il colore della sua anima”. Seikichi imprime sulla schiena della ragazza un ragno enorme, di mostruosa bellezza. In qualche modo, il ragno stringe, tortura, annienta l’anima della ragazza e uccide l’artista, che si trasferisce in lei. “Gli uomini, tutti gli uomini, diverranno il tuo concime”, profetizza l’artista al suo capolavoro – donna e tatuaggio, insieme, un tutt’uno che si muove. Come l’arte, la donna esiste per annichilire: all’arte chiediamo che ci smarrisca – l’artista pretende che la sua opera sia l’unica, fino a morirne – e all’amore che sia il solo, capace di mutare la nostra identità indecisa. La promessa del per sempre non è una fatale frivolezza, ma la condanna a cui aspiriamo, perché qualcuno, finalmente, ci aspiri, facendoci sparire.
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Il racconto, brevissimo – che cito nella traduzione di Adriana Boscaro, da Pianto di sirena e altri racconti, Feltrinelli –, ha sconvolto la letteratura giapponese, conserva una forza seduttiva che scuote le labbra, lebbra che contagia le notti. Ne sono stati tratti due film, intitolati entrambi Irezumi: uno del 1966, firmato da Yasuzō Masumura, l’altro del 1982, per la regia di Yoichy Takabayashi. Tanizaki è uno scrittore necessario: quest’anno Neri Pozza ha pubblicato La gatta, Shozo e le due donne; Gallimard ha raccolto le sue Oeuvres in due tomi; New Directions, oltreoceano, ha stampato Devils in Daylight.
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“‘Maestro, non esiste più paura ora nel mio cuore. E tu, tu sei il mio primo concime’. I suoi occhi luccicavano come lama di spada”. Un corpo non si tocca impunemente: esso si ritrae e ritorna. Ogni artista si inscrive in una condanna – e ne gode. Che perfino la più infima unghia sia letale, allora. (d.b.)
*In copertina: Ayako Wakao in “Irezumi”, film del 1966 tratto dal racconto di Tanizaki, “Il tatuaggio”