Le ripetizioni, i déjà vu, le ricorrenze, ci dicono che forse non siamo mero pugno di effimere, che il caso concima la provvidenza, che un giorno saremo angeli, rinasceremo cani, torneremo esattamente ciò che siamo ora, adesso, qui. Per questo, l’opera di Jorge Luis Borges, in fondo, è un labirinto di specchi: il Minotauro – e il mitico eroe assassino, e la signora che detiene il filo e la trama, amata per abbandono – si rincorre moltiplicato, e non è mai lo stesso, se stesso. Storia della notte, così, “terz’ultimo volume di versi pubblicato da Borges”, edito nel 1977 – e tradotto da Francesco Fava per Adelphi–, è più che altro un repertorio di simboli, un gioco infinito, una monarchia di astuzie. Il titolo del libro ne rispecchia un altro – Elogio dell’ombra, 1969 – e si riferisce all’ultima poesia della raccolta, che ha versi assoluti, come questi:
“Non scopriremo mai chi forgiò la parola
per l’intervallo d’ombra
che separa i due crepuscoli;
non scopriremo mai in che secolo divenne cifra
dello spazio stellato”.
In quella poesia, tra l’altro, Borges cita “lo sgomento di Pascal”, di cui aveva detto molti anni prima, nel 1951, in un saggio, La sfera di Pascal, accolto in Altre inquisizioni: “Lo spazio assoluto ch’era stato una liberazione per Bruno, fu un labirinto e un abisso per Pascal… Sentì il peso incessante del mondo fisico, sentì vertigine, paura e solitudine”. D’altronde, Borges non è soltanto un archeologo tra i reperti della propria opera; più di tutto, è profeta, rigorosamente cieco – la notte, che vantaggio mistico: proprio quando divenne cieco, Borges scelse di viaggiare in lungo e in largo per il mondo… –, in piedi, sulla sedia della sala. Nell’Iscrizione che apre la raccolta, la prima frase – Por los mares azules de los atlas… – annuncia l’ultimo libro di Borges: si chiamerà Atlas e uscirà nel 1984. In Atlas si traccia una storia apocrifa di Alessandro Magno – che “non muore in Babilonia all’età di trentadue anni” – e nella prosa poetica Il cavallo, raccolta in Storia della notte, si racconta di “un cavallo in un sogno di Alessandro il Macedone”. Scintillanti sciocchezze, certo: a me basta ricordare ai borgesiani che una notte insonne inaugura l’azione spietata dell’operaia Emma Zunz, protagonista di uno tra i racconti più enigmatici e inconsueti di Borges, raccolto in L’Aleph.
Dedicato – da Buenos Aires, nel tardo agosto del ’77 – “a Lei, María Kodama”, arpia erede dell’opera di Borges, Storia della notte è scritto “Per la memoria di Leonor Acevedo”, la madre di JLB, dall’eleganza feroce e impeccabile quanto la sua intelligenza, morta a 99 anni, nel 1975. Nata in una famiglia di militari d’alto lignaggio, Leonor teneva il figlio, eletto, in una specie di vitrea immobilità, di casta sensualità libraria: lo introdusse ai piaceri della letteratura anglofona, aveva tradotto Le palme selvagge di William Faulkner, Katherine Mansfield, D.H. Lawrence, Herbert Read.
Nella prosa La tigre, Borges accenna a Norah, la sorella, pittrice dal talento felino, felice. “Pensammo che era sanguinaria e bella”, scrive Borges riferendosi a una tigre intravista nel quartiere Palermo: nel 1972 aveva pubblicato la raccolta L’oro delle tigri in cui appaiono – come in Storia della notte – Le mille e una notte, Ulisse, il Giappone e “un gatto”. In L’oro delle tigri l’autore dedica una poesia All’Islanda, “Delle regioni della bella terra/…la più remota e la più intima”; in Storia della notte appare una poesia per l’Islanda, “fredda rosa, isola segreta/… delle sere immobili/ e degli uomini forti”. A proposito di felini: in La mia ultima tigre, pubblicato tra i gangli di Atlas, Borges ammette: “Nella mia vita ci furono sempre tigri”. In quel testo ammicca – come in La tigre – a Shere Khan, il bestione inventato da Kipling: tra i destinatari di Storia della notte, sarà un caso?, è annoverato anche “Kim e il suo Lama che scalano le ginocchia della montagna”. Nel 1979, per la leggendaria “Biblioteca di Babele” di Franco Maria Ricci, Borges cura come La casa dei desideri una raccolta di racconti di Kipling; nel 1980, “in onore di J.L. Borges nel suo 80° compleanno”, Franco Maria Ricci pubblica Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti: tra questi spicca Tigres Azules. Vi si racconta – citando Kipling – di Shere Khan e di “un villaggio assai remoto dal Gange” dove “veneravano la Tigre Azzurra”, la stessa che appare spesso nei sogni del narratore. A volte quel racconto è tradotto come Tigri azzurre, altre come Tigri blu: il dissidio cromatico esalta le esalazioni dell’enigma.
Che scoperta: ogni libro di Borges è un repertorio di ombre, un rebus. Tra le poesie di Borges raccolte in Storia della notte quella che preferisco s’intitola “The Thing I Am”, perché s’insinua nella più sottile delle ossessioni dell’autore – la morte, il suicidio, l’essere sempre altro da sé, un funambolo in un corpo estraneo – e attacca così: “Ho scordato il mio nome. Non è Borges/ (Borges morì a La Verde, tra i proiettili)/ né Acevedo, che sogna una battaglia…”. Nel racconto più noto de Il libro di sabbia, s’intitola L’altro, Borges incontra un se stesso, più giovane – “Lei si chiama Jorge Luis Borges. Anch’io sono Jorge Luis Borges. Siamo nel 1969, nella città di Cambridge” –, che lo insidia, dicendogli di essere lui, la copia, il reale. Pare che nel 1940 – così mi ha raccontato un libraio di Buenos Aires – Borges, sperimentando il nulla, mirasse a uccidersi: scrisse del suo suicidio all’Hotel Las Delicias di Adrogué (la ‘quinta’ di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius), salvandosi. La Battaglia di La Verde cui accenna Borges accadde nel novembre del 1874, ed è uno degli eventi cruciali della guerra civile argentina: tra i morti si conta anche il colonnello Francisco Borges, nonno di JLB. Ironia della sorte – diciamo così – Jorge Guillermo Borges, il papà di JLB, nasce proprio quell’anno. “Mio padre fu generato nella guarnigione di Junín, a una o due leghe dal deserto, era il 1874”, racconta Borges in un suo testo estremo, Silvano Acosta,dettato alla Kodoma il 19 novembre del 1985, e da poco riesumato. Di Borges, si sa, si conservano anche i battiti di palpebra, rivelativi, si dice.
In L’altro Borges accenna a Walt Whitman, un poeta, scrive, “incapace di mentire”. A Whitman, Borges dedica molteplici omaggi: nella Nota su Walt Whitman ci racconta il poeta che “si sdoppiò nel Whitman eterno”; in una introduzione a Foglie d’erba, raccolta in Prologhi, scrive che “Whitman era già plurale; l’autore decise che fosse infinito”. Difficile pensare a poeti tanto diversi, forse opposti; ma, si sa, la letteratura impegna al sonnambulismo, all’eresia.