21 Marzo 2018

“Sono come Glenn Gould, per questo traduco Samuel Beckett e 007”: dialogo con Massimo Bocchiola

Forse, mi dico, capita come in un racconto di Borges. Il traduttore – compito affine al sortilegio – mette una parolina in più lì, sega un aggettivo là. Microscopici smottamenti linguistici che cambiano la storia della letteratura. Una piccola pietra in mezzo al fiume crea tsunami, a valle. Massimo Bocchiola è tra i grandi traduttori italiani, oggi. Traduce dall’inglese. Per intenderci. Nello stesso mese, per Adelphi, sono uscite le Lettere di Beckett e Goldfinger, di Ian Fleming. La mano da gourmet del linguaggio è la sua. Io nutro una specie di venerazione per i traduttori. Perché? Perché lo stesso libro suona diverso sotto le mani di un traduttore o di un altro. Provare per credere. Penso di avere tutte le versioni italiane di Moby Dick e quelle dell’Idiota di Dostoevskij. Beh, a volte pare di leggere libri opposti, che si muovono a una diversa velocità linguistica.

Bocchiola
Lui è Massimo Bocchiola. Tra i tantissimi, ha tradotto Samuel Beckett, Rudyard Kipling, Stevenson, Paul Auster, Pynchon

“Tradurre per mestiere mi ha fatto scrivere, direi quasi mio malgrado, pagine di una grandezza aliena a me stesso come autore. E mi ha lasciato nel ricordo, o appena sotto di esso, una moltitudine di passaggi memorabili, di metafore sfolgoranti, di ruvidi colloquialismi”, scrive Bocchiola in un bel libro sull’arte del tradurre, Mai più come ti ho visto, pubblicato da Einaudi nel 2015. Nello stesso anno licenziava, tra l’altro, lui, traduttore bulimico (“Se anche la mia carriera di traduttore di libri finisse in questo momento, avrei già composto tante pagine di letteratura – e tante pagine di splendidi libri – da pormi volumetricamente allo stesso livello dei grandi narratori ottocenteschi”), la nuova versione de L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson. Attraverso Bocchiola, che è anche poeta e scrittore (ricordo, almeno, Mortalissima parte e Il treno dell’assedio), che ha il radar del linguaggio conficcato nel cervello, leggiamo Thomas Pynchon (“Pynchon è uno di quegli scrittori che portano le parole e i loro nodi a una tensione estrema. Tuttavia non lo fa come Gadda, con un senso di orrore fisico per il mondo cui si oppone soltanto l’ossessione dell’ordine: ma con un sorriso diffuso sul volto”) e Rudyard Kipling, Paul Auster e Irvine Welsh, Martin Amis e Charles Bukowski e W.H. Auden (l’incommensurabile volume Adelphi delle Poesie scelte) e 007. Chissà. Zitto zitto. Limando un aggettivo. Tendendo un verbo. Bocchiola fa la storia della letteratura.

Novità Adelphi. Ora. Lettere di Samuel Beckett. Goldfinger di Ian Fleming. Stesso traduttore. Massimo Bocchiola. Come si fa a evitare la schizofrenia linguistica passando da Beckett a Fleming?

Domanda ottima. Rispondo per chiarezza con un esempio clamorosamente troppo illustre, Glenn Gould che predilige e alterna Gibbons, Bach e Schönberg.

Più in particolare. Come si fa a non perdere la propria lingua frequentando quella degli altri? Intendo. Tu sei – di tuo – scrittore, poeta. Come ha fatto la lingua di Bocchiola non essere annientata da quella degli svariati ‘giganti’ che hai tradotto?

In realtà è stata più costruita che annientata. Intendo dire la mia lingua in prosa (se c’è differenza da quella in versi, ma direi di sì). Può darsi invece che tradurre tutti questi grandi autori mi abbia annientato come scrittore di poesia, colpito dalla loro facilità comunicativa anche quando scrivono cose ardue o sperimentali – in confronto a una mia difficoltà comunicativa che la forma in versi non faceva che accentuare.

Perché a uno viene in mente di tradurre la lingua di un altro, di tanti altri, fino a farne un mestiere?

Qui devo proprio rispondere: nel mio caso, per caso. Lavoravo da qualche anno come collaboratore/consulente editoriale, ma facevo altro: redazione, letture. Siccome leggevo anche in inglese, a un certo punto mi hanno proposto delle piccole traduzioni, di librini per l’infanzia. È nata così.

Il libro che ti è piaciuto di più tradurre: qual è? O meglio. In quale linguaggio ti è piaciuto di più sguazzare?

Devo rispondere in due a pari merito (non a caso li traduco da un ventennio entrambi): Welsh e Pynchon. Chiunque vede che sono diguazzamenti diversi: nel caso di IW, spesso l’atto è letterale, in quanto lui allestisce un vero brago linguistico. Con la lingua di TP ho invece la presunzione di condividere un certo tipo di humour.

Esiste un libro che ti piacerebbe aver tradotto ma che non hai tradotto? O meglio. Esiste un libro che non avresti voluto tradurre, ma che…

Mah, faccio il traduttore per mestiere, quindi anche per pagnotta. Ho tradotto molti libri che non mi entusiasmavano, ma nel corso del lavoro ho sempre cercato di divertirmi. A volte è stata dura. Libro che mi piacerebbe non aver tradotto, ma tradurre, e chissà che non ci riesca: House mother normal, di BS Johnson.

Ora. Cosa stai traducendo? A cosa stai lavorando di ‘tuo’?

Attualmente al nuovo Welsh. Entro l’anno ci saranno anche il nuovo Bond (Thunderball) e un classico, Walden. Preciso che del Bond ho già fatto la prima stesura, altrimenti non avrei tempo abbastanza… Di mio, a maggio/giugno uscirà per il Saggiatore una raccolta di storie vere e inventate, Gli ultimi giorni di agosto. Prose abbastanza liriche, ma non sempre.

 

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