05 Maggio 2020

“Lo aspettava la cosa che egli non sapeva determinare ma che gli sarebbe balzata improvvisamente addosso, di certo, come un animale feroce”. Il grido di Henry James: un saggio di Andrea Caterini

Tutto ha inizio con una favola. Una favola nera se la osservassimo, o leggessimo, con occhi abituati a certo cinema contemporaneo. E certo il cinema su quella favola ha potuto puntare la macchina da presa, montare il suo spettacolo di ombre. Ma è davvero questo l’intento di quella favola che Henry James pubblica nel 1898, Il giro di vite, aprendo non solo il suo Novecento, ma varcando la soglia della sua ultima fase di scrittore, forse la più radicale, portando all’estremo consentito il romanzo tradizionale, il romanzo dell’Ottocento, e mostrandone tutta la decadenza – decaduto, forse, anche il suo stesso percorso di narratore che era stato fino a qui –, e al contempo aprendo una fase nuova per se stesso e per il romanzo moderno? Quella favola non era un gioco estetico, era qualcosa di più profondo, di più minaccioso, di più perturbante. I fantasmi che James evoca, a cui dà voce e storia e struttura, prima che carne, fanno più terrore di quelli che vediamo in un film horror.

Tutto ha inizio con una favola. Ma di che favola si tratta, alla sostanza? E soprattutto, cos’è una favola? Da lettori maturi, diremmo che le favole sono cose da bambini, e smettiamo di leggerle, o di interessarcene, quando la nostra struttura mentale e psichica ha creato degli strumenti adatti a difenderci dagli urti col mondo; ovverosia, quando ogni impulso che raggiunge la nostra pelle non ci aggredisce più direttamente, ma attraversa un filtro che ci consente di tenere a bada ogni pulsione, ogni sentimento. Cioè, il nostro sentimento è già una mediazione, perché siamo ormai in grado di interpretarlo, sapere come difendercene o quanto farcene coinvolgere. Ecco, la favola, se ha uno scopo, è quello di scavalcare quel filtro psichico, di raggiungere la carne senza mediazione alcuna, di sollecitare quegli organi che pure sappiamo tenere a bada. Ma in che modo? Non c’è forse genere letterario che parli della verità quanto lo faccia la favola. Lo sanno i bambini, che quella verità accolgono senza comprendere, o comprendendola senza mediazione intellettuale; lo sapeva Henry James, che da quella verità venne travolto.

Nella prefazione al libro, che scrisse quando raccolse in più volumi il “meglio” della sua opera nella New York Edition (un lavoro che, a partire dal 1905, gli permise di riosservare tutto quello che aveva scritto e, in alcuni casi, di revisionarlo alla luce dei risultati e della maturità ormai raggiunta), scrive che «di per sé la storia è, in altre parole, una favola pura e semplice – salvo naturalmente che scaturisce, non da una credulità smodata e iperbolica, ma consapevole e coltivata». Il gioco letterario, se di gioco si tratta, deriva da una storia che James ha sentito dalle parole dell’arcivescovo di Canterbury che lo aveva invitato a cena, il quale riportava la narrazione – con vaghezza – così come era stata raccontata a lui da qualcun altro. È chiaro che per lo scrittore questo racconto è appena un pretesto, qualcosa che stimola in lui l’immaginazione. Lui stesso, sempre nella prefazione, la chiama «immaginazione». Ma allora, bisogna anche domandarsi cosa sia esattamente l’immaginazione, e cosa sia in relazione a una favola. La favola usa, per raggiungere quella verità di cui si è detto, degli strumenti fantastici; doppia, per così dire, la realtà, operando su essa un principio metaforico. La metafora è il territorio della favola, ma non un territorio usato come espediente retorico, ma proprio come spazio immaginifico. Ciò che è fantastico viene trattato, nella favola, come assolutamente reale. Quello che l’immaginazione produce, appunto un’immagine, è anche ciò che siamo chiamati a prendere per buono. La favola quindi si basa su un principio di accettazione di veridicità. Far accettare al lettore qualcosa di fantastico come vero. Questa accettazione si fonda però su un altro principio, che è quello della credulità. Non solo occorre accettare quell’immagine come vera, ma credere, avere fede che quell’immagine sia vera. Quell’immagine ha propriamente un significato simbolico. Ma simbolo di cosa? Henry James, più avanti nella prefazione, aggiunge: «Per dirla in altro modo, l’intento è quello di una “dimensione” calcolata, la dimensione del turbamento sospettato, del patimento indistinto e incalcolabile – la dimensione dello sconcerto totale». È chiaro che qui James stia spostando l’asse della percezione che dobbiamo avere del racconto. Se si tratta di una pura e semplice favola è altrettanto vero che ciò che vuole scatenare è «turbamento», «sconcerto», «patimento». James è entrato, con questo racconto, dentro un segreto, nello spazio di un mistero. Circonlocuzioni, fraintendimenti, depistaggi. Del resto James sa perfettamente che il romanzo nasce anche dalla necessità di trovare una lingua nuova quando la vita sembra nascondersi, o entrare in uno spazio di ambiguità e di mistero che pare di non poter dire; uno spazio ancora tutto da capire e quindi da esprimere. La letteratura, quel mistero, lo mette in luce, pur lasciandolo tale. Un mistero che però va analizzato, o quanto meno occorre tentare di capirlo. Perché quel mistero è dentro di lui – proprio dentro la vicenda umana e autoriale di Henry James.

La storia è quella di una istitutrice alla quale viene proposto di lavorare con due bellissimi bambini orfani, Miles e Flora, in una casa abitata da appena qualche governante. Di quei due bambini fa presto a innamorarsi, tanto sono disciplinati, tanto dalla loro bellezza viene ammaliata. Accade però che, tornando verso casa, ha un’apparizione. Vede un uomo sulla cima di una torretta, un uomo che non ha mai visto. Ne sente il pericolo, il suo sguardo la terrorizza, sembra, dice James, che la riguardi. Uno sguardo che li fa entrare, lei e lo “straniero”, in intimità. Dopo qualche secondo, o minuto, quella figura si volta e scompare. L’istitutrice si convince che sia un uomo che è entrato clandestinamente nella casa e che poi è fuggito via. Ma è una convinzione che dura solo poche pagine, il tempo che quello riappaia di nuovo dietro il vetro di una finestra: «Mi era bastato fare un passo nella stanza: la visione fu istantanea, e completa. La persona che stava guardando nella sala da pranzo era la stessa che già una volta mi era apparsa. Mi riappariva così di nuovo, non voglio dire con maggiore chiarezza, perché sarebbe stato impossibile, ma con una vicinanza che rappresentava un passo avanti nei nostri rapporti e mi fece trattenere il fiato e gelare il sangue. […] Rimase solo pochi secondi… abbastanza per convincermi che anche lui vedeva e riconosceva; ma fu come se fossi rimasta a guardarlo per anni e lo conoscessi da sempre». Ma la figura che appare non è il solo fantasma della storia. Poco dopo ne appare un altro, di sesso femminile, mentre l’istitutrice è al lago insieme a uno dei bambini. Questo fantasma è di sesso femminile. Veniamo a sapere, per mezzo di una governante, la signora Grose, che i due “apparsi” sono entrambe persone che lavoravano nella casa. Persone crudeli, che con ogni probabilità hanno «corrotto» i due bambini. Entrambi, però, sono morti.

Sulla mia copia del Giro di vite trovo un appunto della mia prima lettura del libro. Quando mi capita di rileggere un libro a distanza di tanti anni non tengo particolarmente conto dei pensieri regressi, anche perché li immagino sempre condizionati da qualcosa di cui non ricordo più l’origine. In questo caso però, l’appunto contiene un’intuizione su cui mi è sembrato che valesse la pena tornare. Sostanzialmente mi sembrava allora di aver capito che i due fantasmi che appaiono alla donna sono i suoi reali mostri. Mostri di sesso opposto, maschile e femminile, che in una certa misura riflettono un contrasto, un’opposizione di tipo sessuale; forse, tra omosessualità ed eterosessualità. E del resto tutto il racconto è profuso di una sessualità malata, irrisolta. Un contrasto risolvibile solo nella contemplazione dei due ragazzini, quasi fossero il riflesso di ciò che è desiderato proprio per il suo carattere di imponderabilità, e che rappresentano ciò che non può essere violato ma che qualcuno (i fantasmi?) sembra comunque aver già «corrotto» – averne corrotto l’innocenza. E quell’innocenza corrotta mano a mano emerge nel racconto. Miles e Flora sanno più di quanto l’istitutrice immagini. Non solo conoscono quei fantasmi, dai quali, con tutta probabilità, sono stati corrotti quando erano ancora in vita, ma ne sono in una certa misura complici. James continuamente oscura e complica. La favola, se si fonda su una base metaforica, compie qui un’operazione di nascondimento nell’immagine – un’immagine che si riverbera come su se stessa. Cosa voglio dire? Che qui l’operazione di James è quella di doppiare il mistero. L’istitutrice osserva il pericolo nei due fantasmi, ma quei fantasmi hanno già trasmesso ciò che l’autore chiama nella prefazione «il male» ai bambini. Allora, sono i bambini ora a restituire quel male agli occhi dell’istitutrice, a restituirglielo però come qualcosa di suo, che appartiene a lei e a nessun altro. Se in quei fantasmi la donna ci era potuta entrare in intimità, come li conoscesse da sempre, è perché ha proiettato fuori ciò che nascondeva dentro, ha esteriorizzato il proprio «male», quindi facendo in modo che diventasse estraneo, per poterlo oggettivare, rendere qualcosa con cui fare i conti. Ma sono appunto i bambini a restituire una valenza soggettiva a ciò che lei aveva reso oggettivo; sono gli stessi bambini, adesso, ad essere diventati un’apparizione, l’apparizione di ciò che più l’istitutrice teme perché riconosce come sua «ossessione», come qualcosa di recondito e incoffessabile. Ed è la stessa istitutrice, dopo un dialogo con uno dei bambini, ad ammetterlo a un certo punto: «Quello che dicevo a me stessa, soprattutto, era che Miles aveva cavato qualche cosa da me e che proprio quel mio goffo crollo glielo avrebbe fatto valutare appieno». E più avanti conferma: «Fu assolutamente la prima volta, da quando era arrivato, che desiderai allontanarmi da lui. Mentre sostavo sotto l’alta finestra rivolta a est in ascolto dei suoni del culto, fui colta da un impulso che avrebbe potuto dominarmi completamente, lo sentivo, se gli avessi dato il minimo incoraggiamento. Era facile per me metter fine a quella dura prova semplicemente andandomene».

Ora, io credo che Henry James, attraverso questa «favola», abbia toccato il cuore pulsante della sua stessa scrittura. Voglio dire che qui, probabilmente, James ha dato vita a un dramma tutto interiore, a qualcosa di tanto mostruoso ai suoi occhi che non può che restare nascosto, celato; insomma: rimosso. A pensarci, su cosa si fonda la gioia di vivere se non su un atto, consapevole o meno, di rimozione? Ognuno di noi – o, detta meglio, la coscienza di ognuno di noi – rimuove, consapevolmente o meno, una ferita, un trauma, una colpa per rendere sopportabile la propria vita. Per questo non esiste reale innocenza in alcuno. Eppure, quella rimozione è necessaria. La necessità è il contrario della rimozione, perché è propriamente ciò che non è rimovibile. Ma rendere necessaria una rimozione vuol dire rendere possibile l’impossibile. E la vita è esattamente questa possibilità impossibile di cui facciamo esperienza. Per questa ragione la nostra stessa gioia di vivere, fondandosi non su una illusione ma su questa «impossibile possibilità», è un atto al contempo di volontà e di fede.

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Per qualche anno prima di scrivere Il giro di vite, James aveva riposto tutta la sua fiducia artistica nel teatro. Aveva creduto davvero che con quella forma d’arte poteva raggiungere finalmente quel pubblico che per troppo tempo era stato con lui silenzioso, salvo per quell’unico libro, Daisy Miller, che conobbe un successo che non si ripeterà mai più. Ma quando va in scena Guy Domville il fallimento è talmente clamoroso, l’umiliazione è tanto profondamente radicale che a James non si cicatrizzerà mai la ferità. In quegli stessi anni, poi, perde, dopo la morte già avvenuta di suo padre e sua madre, Alice, la sorella minore. Alice era sempre stata una ragazza particolare, arguta, intelligentissima, ma assolutamente fuori luogo in qualsiasi situazione che la vedesse in società. Alice soffriva di un padre e una madre totalmente assenti nella sua vita; soffriva di non avere una patria, educata, proprio come Henry, a cambiare continuamente casa e Nazione, scuola e istitutori. Non è un caso che la sua ipersensibilità contenesse già una frattura, uno squilibrio simile all’isteria. Qualcosa che la faceva essere sempre sul punto di crollare, come quando una gioia euforica maschera solo la crepa di un collasso imminente. Henry la amava ma non sapeva come aiutarla. Quando poi le diagnosticarono un cancro, Alice trovò finalmente un oggetto reale, concreto, in cui poter accettare di vedersi morire. Quella morte fu per suo fratello l’ennesima soglia, un nuovo buco nero da attraversare. Si è pensato, non senza fondamento, che nel Giro di vite James abbia voluto ritrarre l’isteria di sua sorella in quella dell’istitutrice. Non solo. Anche i due bambini potevano nascondere la relazione tra lui e Alice. Che siano fondate o meno queste ipotesi la questione era che James, con quel romanzo, con quella favola, era entrato nella carne viva del dolore; aveva raccontato come vita e morte potessero coabitare. Di come la morte entri nello spazio della vita e di come la vita possa attraversare quello spazio di oscurità in cui la ragione non è più capace di una dimostrazione, di un senso. Nel Giro di vite si entra insomma in quello spazio che James, negli anni successivi, tornerà a sedurre, pure non definendolo mai una volta per tutte. Uno spazio che, pure a scriverlo, continuava a restare segreto. Sembra quasi che dal Giro di vite, dopo il fallimento teatrale, dopo la morte di sua sorella Alice, abbia compiuto un ripiegamento, spostato la ricerca completamente dentro di sé, spinto tutte le sue forze verso il basso. L’idea di una pressione verso il basso, della diminuzione della propria reale presenza nel mondo, dello schiacciamento, dello scomparire. Solo; solo che la depressione, da un punto di vista totalmente soggettivo, gioca su una condizione di isolamento, di differenza dal mondo; o, al più, di rifiuto del mondo, di quello stesso mondo che è causa, o concausa, della condizione stessa di depressione; quella, dico, di chi dal mondo si sente incompreso. Per questo nella depressione c’è molto spesso un fondo di adolescenziale narcisismo. Ma il narcisismo, che lo si voglia vedere in positivo o in negativo (non è questo il punto), mette in campo davvero una differenza. Fosse pure una differenza simulata, potenziata dal nostro ego, o potenziata dal nostro rifiuto o nascondimento dal mondo; mette in moto, nonostante tutto, una forma di resistenza vitale; perché ogni depresso è sempre dell’atto di vivere che si occupa; perché quella sua rinuncia, o sottrazione, o rivolta passiva, è al contempo una forma di richiamo, di grido d’aiuto. Per James fu un modo per complicare la sua lingua, per radicarla a quella sua ricerca, a quel suo nascondimento.

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Arrivati a questo punto, potremmo anche sospettare di aver dato un significato troppo psicanalitico a Giro di vite. Una lettura, quella psicanalitica, che ha sedotto più di qualche lettore, da Edmund Wilson a Todorov. E se Giro di vite non fosse invece il centro di tutta l’opera di James, non soltanto il fulcro, ma come la sineddoche di tutta la sua arte? Lo aveva capito meglio di altri Maurice Blanchot, quando ne Il libro a venire scriveva che «l’argomento di Giro di vite è – semplicemente – l’arte di James, quell’arte di muoversi sempre attorno a un segreto che l’aneddoto, in tanti suoi libri, mette in azione, e che soltanto non è un vero segreto […] e neppure una implicazione della mente, ma sfugge a qualsiasi rivelazione». James ha scritto con questo racconto l’arte stessa del suo romanzo; ha dato alla sua arte una forma romanzesca, alla ragione della sua arte l’immagine di un incubo. Ha raccontato che l’arte e la vita, quando si incontrano, provocano una frattura, una deflagrazione nell’ordine del mondo. In qualche misura si è fatto artista e interprete; creatore e giudice. Franco Cordelli, in un saggio importante che dedicò a James alla metà degli anni Settanta contenuto in Partenze eroiche, ha una felice intuizione: «James intende riferirsi al fatto che la dialettica del fare arte è essenzialmente autocritica e che se un “io” limitato deve essere il punto d’avvio, questo io è condannato, per ottenere forma, o approssimazione alla forma – certo non identità –, a diventare oggetto di se stesso. Il romanzo jamesiano diventa così ineluttabilmente metaromanzo».

L’istitutrice è James a caccia della sua arte, di quell’arte che sta dietro – o davanti – alla vita con un suo corpo reale eppure estraneo. Ma James è anche quei due bambini orfani, orfani che sembrano innocenti nel loro affidarsi all’istitutrice ma nello stesso tempo già corrotti nel non volerlo mai veramente, sapendo già, in questo fuori da ogni innocenza, che non potranno mai appartenerle. James è, ancora, i due fantasmi, che è ciò che unisce e separa l’istitutrice e i ragazzini – ciò che unendo uccide, ovvero, lascia nell’orfanezza. Forse davvero in James tutto ruota intorno all’orfanezza. Orfano prima di tutto di una Patria che senta realmente sua; e a ben vedere non scelse mai né l’America né l’Europa – il fatto stesso di essere costretto a scegliere determina questa sua assenza di una terra alla quale tornare, sulla quale radicare la sua origine. Orfano di un’autorità genitoriale e affettiva. Orfano di un significato da dare alla vita. Orfano come lo sono i due fratelli del romanzo e come lo sono molti dei suoi personaggi.

Perché nulla viene davvero spiegato nel Giro di vite, o ancora meglio, rivelato? L’arte di James sembra qui messa a nudo – e mentre si mostra in tutta la sua nudità continua a nascondersi, a nascondere il mistero che la sottende: nuda proprio nel suo coprirsi, nel suo restare mistero. La vita e l’arte sono due corpi speculari. Ma nessuno dei due corpi è davvero capace di dare una ragione dell’altro. Quello spazio di mistero non è solo la visione dei fantasmi, ma il desiderio che la verità di quei fantasmi venga riconosciuta, testimoniata e confermata anche dai bambini. I fantasmi sono la natura malata di questa relazione tra vita e arte, tra un vuoto e un pieno – un pieno che pure non riuscirà a essere riempito di significato. O forse, quell’assenza di senso non è che il significato stesso di quel vuoto.

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Ho detto che tutto ha inizio con una favola, ma questo non è propriamente vero. Giro di vite è in realtà un punto d’arrivo. Dal fallimento teatrale, da quel fallimento di pubblico (da cui tanto sperava di essere accolto), James fece germogliare in lui qualcosa di davvero radicale. Tornando al romanzo, tornando a quella tormentata gioia silenziosa e senza imprecazioni o applausi, James si aggrappò alla scrittura – fece della scrittura un rifugio; un rifugio che somigliava mano a mano a una teoria. Una scrittura, questa volta, diversa da come l’aveva sempre pensata. Ora scrivere celava una voragine che si era aperta dentro di lui, copriva un vuoto. Ogni operazione di mascheramento e copertura è tutto sommato una banalità. Ma la questione andrebbe detta diversamente. Il vuoto, non essendo per definizione colmabile, non può che essere coperto, e quindi eluso, con delle banalità. James, per mezzo della scrittura, porta tutto in superficie per nascondere ogni vertigine, ogni profondità. E questo era qualcosa che aveva appreso proprio dal teatro. Ogni futile azione, ogni parola detta, ogni oggetto potevano esistere solo nel momento in cui apparivano nello spazio della narrazione. Quello spazio della narrazione è un tempo che può essere soltanto presente, che appunto esiste nel momento in cui lo si vede apparire in scena – che è, pur non avendo alcun passato a sostenerlo.

La prima prova di questa nuova teoria, James la sperimentò con Le spoglie di Poynton, che pubblicò nel 1896. Nella prefazione al libro scrive infatti: «Un carattere è interessante mentre si svolge, e per il processo e la durata di quel suo svolgimento». Più volte James ha affermato quanto fosse interessato, scrivendo, alla questione della coscienza. Ma se la coscienza è, come dire, un suo tema, questa è capace di vivere solo nel presente. A James interessa la coscienza così come si esprime, o non esprime, nel momento in cui le cose accadono. È quindi una coscienza che si costruisce insieme a una forma di vita, che coincide con la forma che James dà al romanzo. E si potrebbe aggiungere che sono le coscienze a confronto, cioè le relazioni tra coscienze, per quello che di esplicito e taciuto si crea, che danno forma, struttura, ai suoi romanzi. Un processo che raggiungerà il suo apice ne Le ali della colomba (1902), uno dei suoi ultimi grandi romanzi. Chi è Kate Croy? E chi Milly Theale? E chi Densher? Potremmo dare qualche informazione per ciascuno di loro, qualche informazione che riguarda la loro vita prima che entrasse in relazione. Ma sono informazioni tutto sommato inconsistenti, parziali, sommarie. La vita dell’arte per James è tutta dentro questo presente, e anche per questo è ambigua, mai chiara. Forse su questo aspetto ha influito molto, e lo dico come in una parentesi, il fatto che fosse statunitense. Quel suo far vivere tutto al presente è la necessità di costruire una storia in assenza di tradizione. La sua stessa idea di Europa, che poi fu la Patria che lo accolse, è tutta rivolta al presente, come se tutta l’arte, la filosofia, la storia antica vivessero per lui nel momento stesso in cui le si osserva, se ne fa esperienza – si avvicina all’Europa da orfano di Patria, cercando di portare alla sua America una civiltà millenaria, caricandosi tutti i secoli sulle spalle, come dovendo viverli nel solo arco di una vita, tutti d’un fiato (e sulla relazione tra America e Vecchio Mondo bisogna tornare a leggere il saggio che a James ha dedicato Ezra Pound nel 1918, che vivrà, qualche anno dopo, la stessa condizione). Allora, tornando ai suoi personaggi, se sappiamo qual è la loro reale natura è perché li vediamo interagire. Quella loro interazione mette in luce la loro coscienza, il loro carattere, la loro moralità («Erano la descrizione che Kate aveva fatto di lui, la sua condizione di respinto, ma nulla che partisse da lui; la sua responsabilità avrebbe avuto inizio, per così dire, solo quando avesse agito. Il punto cruciale, tuttavia, stava nella differenza tra l’agire e il non agire; era questa differenza, in effetti, a farne un caso di coscienza», si legge ne Le ali della colomba). A James del passato non importa nulla. Conta solamente il modo in cui agisce la personalità di qualcuno nel presente. Perché il modo che ha di agire dà la misura del reale valore di un individuo. Chi realmente siamo non ce lo dice il nostro passato o la nostra storia ma il modo in cui agiamo (e sempre viva è rimasta quella sua idea di personaggio come “incidente” che aveva teorizzato ne L’arte del romanzo nel 1888, quando aveva alle spalle già romanzi come Ritratto di Signora e Daisy Miller). Per James la personalità è tutta nel modo in cui si affronta una situazione, che sia una situazione che si è causata accidentalmente o che sia la persona stessa a fare in modo che avvenga.

Ma bisogna fare un passo indietro e tornare a quel primo romanzo dopo la crisi. Bisogna tornare a Le spoglie di Poynton. Perché qui le “banalità”, l’operazione di portare tutto in superficie, o di nascondere la voragine di un vuoto, di una frattura, è il tema stesso del romanzo. La futilità dell’«argomento», come ama chiamare spesso James il «germe» che lo fa cominciare a scrivere, è qui oggettivata. Oggettivata proprio nel suo essere divenuta oggetto. La vicenda è quella di una disputa tra madre e figlio. Un figlio, Owen, sta per sposare una donna, Mona. Da questo matrimonio ne ricaverà una quantità di oggetti lasciati in eredità a lui dal padre defunto. Ma quegli oggetti, che appunto sono le «spoglie di Poynton», sono curati e conservati da sua madre che non ha assolutamente intenzione di cedergli – cederli a chi, come la sua futura moglie Mona, non è assolutamente in grado di comprendere, di comprenderne la bellezza. Solo che Mona è ora disposta a rinunciare perfino al matrimonio se Owen non riuscirà a impossessarsene, dichiarando guerra, di conseguenza, a sua madre. La sola che può risolvere la situazione è Fleda, alleata prima della madre, ma segretamente innamorata di suo figlio. Qualora Fleda riesca a far innamorare di sé Owen, la madre sarebbe finalmente disposta a rinunciare alle «spoglie di Poyton». James ha qui dato agli oggetti non solo la ragione di una disputa ma la possibilità stessa che essi divengano l’argomento straniante, il fumo negli occhi per meglio depistare e nascondere la verità di un dramma che non emerge mai chiaramente. Si tratta, tutto sommato, di una vera e propria messa in scena. Gli stessi oggetti sono la scena, una scena che, a ben vedere, non resta mai vuota – e non si svuota neppure alla fine, quando le spoglie di Poynton andranno in fiamme; anzi, quell’incendio non fa che mettere in evidenza la loro reale natura, il fatto che siano già cosa morta, già cenere. È come se James avesse voluto riempire il palcoscenico, riempirlo di oggetti che hanno la funzione di creare una simmetria evidente, un’architettura tanto ingombrante da rendere praticamente invisibile ciò che vi si nasconde. Quello che davvero tutti temono è che quegli oggetti spariscano, che quel castello, quella cattedrale di banalità, di futili composizioni lasci il posto a una casa, una scena vuota – in qualche misura sacralizzando quelle spoglie, o già reliquie (verso la fine del romanzo, li si chiama, avendoli ormai la madre perduti, «fantasmi»). Ecco, io credo che l’esperienza teatrale abbia suggerito a James un metodo; un metodo che fosse soprattutto l’approssimazione di una forma; una forma costruita con continui depistaggi; depistaggi che sono poi elusione dei contenuti. Davvero a James interessano quegli oggetti? Davvero a James interessa quella demente disputa tra madre e figlio per accaparrarsi le spoglie di Poyton? E non sono sicuro sia interessato neppure a ciò di cui vede mano a mano capaci i suoi personaggi per impossessarsene. L’oggetto del contendere è solo ciò che costruisce una forma, ciò che rende ancora più inutili quegli oggetti, perché li carica di un valore – non un valore monetario ma appunto formale, di forma romanzesca – che non hanno; o che hanno qualora si dia a questi la legittimità di un inganno, l’inganno, appunto, di una sacralità. Bene, ma se gli oggetti, cioè la forma, sono l’inganno scenico, la parvenza romanzesca, cosa nasconde la casa, cosa nascondono davvero le pareti di Poynton? Qual è il trauma, o la sua assenza, che al suo interno vi si cela?

Il nodo è tutto qui. Le spoglie di Poyton rappresenta per James la possibilità di una nuova sperimentazione; gli suggerisce, voglio dire, un modo nuovo di affrontare il romanzo. Un romanzo che se ha ancora tutti gli strascichi del romanzo borghese, del romanzo tradizionale, del romanzo dell’Ottocento, dall’altra parte cerca una via nuova per liberarsene. Ed è una via che, per James, può essere solamente formale. E non è un caso che, quando gli verrà data la possibilità di raccogliere la sua opera in più volumi tra il 1907 e il 1909 nella New York Edition, egli ci mostri anche come dagli anni de L’arte del romanzo sia davvero cambiato qualcosa. James, quando scrive le sue «Prefazioni», ci mostra di come, del romanzo, sia divenuto a conti fatti un teorico. O ancora meglio: che la teoria sia divenuta nel tempo il romanzo stesso. Ovvero, il romanzo, attraverso James, comincia a pensarsi: si costruisce come forma critica di se stesso. Le «Prefazioni» ne sono certamente la testimonianza diretta, se è vero che qui James mostra di interessarsi soprattutto al metodo di composizione dei libri che introduce. Ma sono gli stessi romanzi a porsi come oggetti critici, come organi che hanno al loro interno allo stesso tempo ciò che li compone e ciò che ne destruttura, nel senso che mette in crisi, la composizione.

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Non c’è forse esempio più appropriato, per rendere l’idea, de La fonte sacra, che pubblicò nel 1901, appena un anno prima de Gli ambasciatori. Qui sembra che James abbia fatto un balzo di qualche decennio, entrando in quelle che sono le sperimentazioni più ardite del Novecento, tanto che pare di leggere, per il modo in cui è composto, tutto congetture, allusioni, deduzioni, già un romanzo di Witold Gombrowicz. È esattamente questo vuoto che preme sull’architettura ciò che rende i romanzi dell’ultima fase una possibile apertura a una forma nuova, una forma diversa. James inspessisce il suo fraseggio, complica la sintassi anche dei discorsi diretti, fa diventare metodo l’elusione, l’omissione, la reticenza e l’iperbole, evita di continuo proposizioni rivelatrici. Il romanzo diventa la messa in ordine di un enigma, di un mistero. L’arte non è ciò che svela le oscurità e asperità della vita, che ce le fa conoscere una volta per tutte, ma ciò che ci fa riconoscere della vita le sue oscurità e asperità – che ci mostra la vita, doppiandola, appunto come mistero. È come se James avesse compreso che il romanzo fosse diventato lo spazio di un conflitto tra una realtà che preme per liberare il suo grido e qualcosa che nello stesso tempo quel grido fa di tutto per soffocare. Un dialogo ne Le spoglie di Poynton tra Fleda e la signora Gereth, madre di Owen, è particolarmente rivelatore di queste forze oppositive. Così parla la giovane: «Voi semplificate troppo. Lo avete sempre fatto e sempre lo farete. Il groviglio della vita è molto più intricato di quanto voi, io penso, abbiate mai sentito»; così risponde l’altra: «Ve lo avevo detto di lasciarvi andare, ma è chiaro che non lo avete fatto». L’esortazione a «lasciarsi andare» è anche qualcosa che troviamo più volte nei Taccuini di James. Così scriveva nel 1897: «Attraverso tutte le esitazioni, i conflitti e le inquietudini, la cosa, il desiderio di tornare soltanto ai grandi effetti (scenici, costruttivi, “architettonici”), mi afferra e mi rimette in piedi. Sento che, in ogni momento, è per me un guadagno di tempo maggiore abbandonarmi a quell’evocazione e a quei calcoli, piuttosto che farmi allettare da qualunque piccola esca. Ah, ancora una volta, lasciarmi andare!».

Risulta quanto meno particolare, proprio in virtù dei risultati raggiunti nella sperimentazione romanzesca, che un romanzo come La fonte sacra sia stato escluso dalla New York Edition. James lo reputava un fallimento, o quanto meno di aver dilatato troppo un “argomento” che doveva svilupparsi non più che in un racconto. Forse, aveva temuto di aver davvero sperimentato troppo. Certo, non tutto quello che James ha scritto è entrato in quell’edizione, in quella cattedrale che sarebbe servita a una memoria futura. Si trattava pur sempre di una selezione. Ma perché eliminare, da questa selezione, proprio uno degli ultimi libri, forse il più vicino a quello che aveva cercato di realizzare dopo quella frattura, quella soglia attraversata dal fallimento teatrale?

Non bisogna dimenticare, da lettori contemporanei, che James era cresciuto e si era formato sul romanzo dell’Ottocento. Il suo maestro era stato Balzac e la sua Commedia umana. La sperimentazione, la forma raggiunta con La fonte sacra doveva spaventare lui stesso. In più, va ricordato che fu un romanzo fallimentare anche dal punto di vista del riscontro del pubblico. James si sarà convinto di essersi spinto troppo oltre, di aver forse ecceduto, di aver troppo affinato o aggrovigliato i suoi mezzi espressivi. In qualche modo, del rischio che aveva individuato ne La fonte sacra ce ne parla, pure indirettamente, nella prefazione a Gli ambasciatori. In quest’ultimo aveva concentrato, a differenza di altri suoi libri, il cuore di tutto su un solo personaggio, Luis Lambert Strether (con evidente omaggio proprio a Balzac, anche se è un omaggio a quel romanzo che lo stesso Strether confessa essere pessimo). La questione che si poneva a James, dico la questione formale, era se scegliere, stando così le cose, se raccontare in prima o in terza persona. Così scrive appunto nella prefazione: «Se io, una volta resolo eroe e insieme storico, l’avessi dotato del romantico privilegio della “prima persona” – l’abisso più oscuro del “romantico”, se goduto su larga scala – la varietà, e molte altre cose bizzarre, avrebbero potuto intrufolarsi dalla porta posteriore. Sia sufficiente, per essere brevi, dire che la prima persona, in un’opera lunga, è una forma predestinata alla mancanza di compattezza, alla rilasciatezza, e che quest’ultima, che non mi aveva mai attratto molto, non era mai stata così scarsa come in questa particolare occasione». Cosa teme dunque James dalla prima persona, quella prima persona che sarà poi, a ben vedere, la base su cui si fonderà il romanzo del Novecento, da Proust a Virginia Woolf, da Céline fino ad arrivare a Malcolm Lowry e Gombrowicz? Non sarà che quello che più davvero teme è che il grido della realtà prenda il sopravvento sull’intera struttura, che non ci siano più armi sufficienti per soffocarlo, per dare a quel grido un ordine che possa contenerlo – che possa coprire di banalità il vuoto, la voragine che spalancherebbe, se gli si lasciasse il totale controllo della narrazione? Ma se con Gli ambasciatori quel grido James lo contiene, nella Fonte sacra è invece lasciato libero di agire. Per James, forse, è proprio quella libertà il problema. Ma per quale ragione? Quel romanzo cosa lascia scoperto, troppo rilasciato, tanto poco compatto da indurlo a scartarlo dalla New York Edition?

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Forse occorre fare un passo di lato e comprendere come quel grido James abbia bisogno di oggettivarlo, di individuarlo per tenerlo a bada. Quel grido ha bisogno di diventare un personaggio per essere realmente da lui controllato. Infatti assumerà una forma concreta, addirittura oggettiva, ne Le ali della colomba. Milly, l’americana sbarcata in Europa (come l’altra sua antenata Isabel Archer in Ritratto di Signora), orfana di entrambi i genitori (come i fratelli del Giro di vite), entra in scena per stravolgere le vite di tutti. Possiede come una forza magnetica a cui ogni personaggio del romanzo reagisce a suo modo. La seducono, la corteggiano, provano a ingannarla per ottenere la sua eredità ma nessuno riesce mai davvero a possederla, a farla sua. Ma cos’ha che nessuno di loro realmente possiede ma ardentemente desidera? Non è il denaro e neppure, a ben vedere, la bellezza. Ella è non solo un oggetto del desiderio, ella è il desiderio. Ma cosa significa? Milly ha qualcosa che non ha nessuno di loro. Milly è già dentro la propria morte, per questo la sua vita è diversa da quella di tutti. Vive totalmente il presente perché non ha un futuro. Lei è la sola che, specchiandosi in quel ritratto del Bronzino in cui ha visto, come per la prima volta, se stessa, ha riconosciuto gli occhi della propria stessa morte – quella morte che le sarà annunciata successivamente da un medico: e l’annuncio comprende anche un’esortazione, quella di non smettere fino alla fine di vivere, perché finché è in vita può accendere un faro sulle tenebre delle vite degli altri. Milly è l’oggetto del desiderio e il desiderio in sé perché è in qualche misura un fantasma (e viene in mente un giudizio che diede Virginia Woolf dei personaggi di James in un articolo del 1921 sul «Times Literary Supplement»: «Basta che Henry James muova il più piccolo passo e va oltre il confine: i suoi personaggi, con la loro estrema finezza di percezione, sono già metà fuori dal corpo»); Milly c’è, e nello stesso tempo non c’è già più. Non è però evanescente, è invece concreta nel suo esistere nella propria morte. Milly è la rimozione di ognuno. Per questa ragione ciò che lei chiama la “totalità della vita” equivale a dire essere la personificazione della rimozione e al contempo del desiderio. Non ha nulla delle eroine romantiche del romanzo ottocentesco e del teatro dell’opera, la sua bellezza non è né dramma né tragedia. Milly è il grido della realtà che preme: è il perturbante.

Ma se Milly è un perturbante, come dire qualcosa di tanto potente da mettere in moto le pulsioni di ogni altro personaggio, è vero pure che James, per poter parlare di questo soggetto che preme, di questo grido che ha rimosso, è stato costretto a idealizzarlo. La stessa formalizzazione a personaggio di un soggetto perturbante è a ben vedere un’idealizzazione.

In un breve saggio del 1915, La rimozione, Sigmund Freud scriveva qualcosa di molto interessante e che mi aiuta a comprendere anche il processo narrativo di James: «Il processo di rimozione non va considerato come un avvenimento che ha luogo una volta per tutte dando risultati permanenti, come quando ad esempio una cosa vivente muore e muore per sempre. La rimozione invece richiede un continuo impiego di forza che se dovesse cessare metterebbe in pericolo il suo successo e si renderebbe necessario quindi un nuovo atto di rimozione. Possiamo supporre che la cosa rimossa eserciti una continua pressione verso il conscio la quale è bilanciata da una continua contropressione. La conservazione di una rimozione implica pertanto un ininterrotto dispendio di forza».

Così come non dobbiamo dimenticare che James si sia formato, come scrittore, sul romanzo dell’Ottocento, allo stesso modo non dobbiamo correre il rischio di dimenticare che la società stessa che lo educò era fortemente puritana. Eppure aveva colto con largo anticipo qualcosa che avverrà solo qualche anno più tardi. Se non aveva letto il saggio di Freud, già tempo prima era arrivato, per così dire, istintivamente – o col suo specifico metodo di indagine della realtà, cioè attraverso il romanzo –, a comprendere quali forze in contrapposizione agivano in uno stesso individuo. Queste forze poi, negli anni successivi, saranno completamente liberate – e si pensi solo a romanzi come Alla ricerca del tempo perduto di Proust, a Gita al faro o Le onde di Virginia Woolf, all’Ulisse di Joyce – forze che avevano avuto come unico precedente, anche allo stesso James, ma per troppo tempo rimasto isolato, Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij.

Ma esattamente cos’è che, «con dispendio di forza», James vuole tenere a bada, vuole rimuovere pur idealizzandolo? Cosa, alla sostanza, aveva compreso, utilizzando, nella Fonte sacra, una prima anziché una terza persona? Non bisogna pensare che qui emerga una qualche colpa recondita di James – e poi cosa sentiva davvero che fosse una colpa? La taciuta omosessualità, oppure quell’incidente che gli spezzò la schiena a diciotto anni, un incidente che probabilmente fu lui stesso a causarsi per non partire soldato nella guerra civile? Piuttosto, quella prima persona permette a James di aprire la sua scatola cranica, mostrarci i suoi strumenti di lavoro, di andare appunto alla «fonte» della sua stessa scrittura. «Non so perché – era una sensazione istintiva e spontanea – ma sentii fin dal primo momento che se ero sulle tracce di qualcosa di fondamentale, facevo meglio a non sprecare né stupore né saggezza. Ero sulle tracce – ne ero sicuro: eppure subito dopo ero altrettanto sicuro che sarei stato ancora imbarazzato a mettere in parole il mio enigma. Ero vagamente cosciente d’essere sulle tracce d’una legge, una legge che si sarebbe perfettamente adattata, che avrebbe mostrato di governare quei delicati fenomeni – delicati seppure così spiccati – con cui la mia fantasia si trastullava. Parte del divertimento che offrivano derivava, direi, dal fatto che io li esageravo – li raggruppavo in un mistero più ampio (e quindi in una “legge” più ampia) di quanto non consentissero fino a quel momento i fatti così come si presentavano: ma questo è l’errore comune delle menti per cui la visione della vita è un’ossessione. L’ossessione dà i suoi frutti, se si vuole: ma per dare i suoi frutti, deve prendere a prestito».

Di fatto, La fonte sacra è un romanzo nel romanzo; o, detta meglio, è il romanzo di come James scriveva i suoi romanzi – per questo è il suo più sperimentale, per questo, pur senza intenzione, era già avanguardia. E lo si capisce dal suo periodare, dal suo procedere sintattico, da quell’enigma che si tenta di risolvere alimentandone la portata contenutistica. Calandosi dentro la storia, quel narratore entra in contatto con gli altri personaggi, ma solo per metterli in difficoltà, per farli sentire con le spalle al muro, per determinare che è lui stesso a condurre il gioco, di cui pure cerca la legge. Partecipa a quel gioco narrativo facendosi inquisitore, testimone e giudice. Spinge i personaggi a confessarsi, ma è una confessione, quella che gli rilasciano, vera e falsa allo stesso tempo, perché è pur sempre lui a coordinare la loro immaginazione, a indurre loro pensieri e congetture, e proprio per questo non può risolversi in una qualche rivelazione. Quello che il narratore vuole scoprire è il meccanismo stesso di questo processo, di questa strategia della mente; o meglio, fino a dove questo processo può spingersi, e quindi aprire a nuove leggi sintattiche, e al contempo quale ne sia l’origine, appunto la «fonte», quella «fonte sacra» da cui tutto nasce. Si tratta, alla sostanza, di una vera e propria operazione critica.

E di quanto significasse per James il discorso critico ce ne dà prova anche in un breve racconto del 1896, La cifra nel tappeto, dove oggetto della narrazione è proprio la critica letteraria. Anche qui, come più tardi nella Fonte sacra, c’è un enigma che non si risolverà mai, o che si risolve proprio nel suo sintattico procedere, nel mettere in moto un ingranaggio. Un giovane critico letterario scrive una recensione su un grande scrittore, ma quando i due si incontrano, il “maestro” gli rivela che in tutta la sua opera c’è un segreto che nessuno ha mai compreso: «nella mia opera c’è un’idea senza la quale non avrei dato un soldo per tutto quanto. È la più bella e più piena invenzione, e la sua attuazione è stata, credo, un trionfo di pazienza e ingegnosità. […] L’ordine, la forma, la struttura dei miei libri costituiranno forse un giorno, per chi sarà iniziato ad essi, una rappresentazione completa di quell’idea. Perciò, naturalmente, è questa che i critici dovrebbero cercare. Vorrei dire addirittura – aggiunse il mio ospite sorridendo – che è questa la cosa che spetta ai critici trovare». E, poco più avanti, aggiunge: «Ciò che, io sostengo, nessuno ha mai sottolineato nella mia opera è l’organo della vita». Capire il segreto di questo disegno diventerà per il giovane critico la ragione stessa della sua vita.

Ora, credo che qui James abbia messo in atto uno dei suoi migliori stratagemmi narrativi. Se si è posto dalla parte del grande scrittore che ha ordinato in un disegno, in una «cifra», tutta la sua opera, si è al contempo messo anche dalla parte del giovane critico, che passerà gli anni successivi a cercare di comprendere cosa di meraviglioso si celi dietro quell’opera. Insomma, se da un lato James ci suggerisce che è proprio nella forma, nella struttura, nell’ordine che la sua stessa opera si sostanzia, dall’altro lato ci vuole pure far comprendere che quella stessa idea di ordine, quello stesso disegno è mosso da un’ossessione, da un desiderio di ricerca, da quello che fa chiamare allo scrittore «l’organo della vita» – una vita che preme come una fonte inesauribile, come un grido che si perpetua e che definisce la stessa struttura, la stessa cifra, lo stesso disegno. Cosa che del resto afferma e in qualche misura ribadisce nella prefazione a La coppa d’oro (1904). Essendo questo il suo ultimo grande romanzo e pure l’opera che chiude la New York Edition, è chiaro che James voglia tirare le somme del proprio lavoro, di tutta la sua esistenza: «Il “gusto” del poeta è, al fondo, e fin dove il poeta prevale in lui su ogni altra cosa, il suo senso attivo della vita: e perciò tenere la mano su di esso significa avere la chiave d’argento per l’intero labirinto della sua coscienza». James era convinto che La coppa d’oro fosse il suo libro più ardito, e infatti così lo presenta al suo editore Scribner durante la correzione delle bozze: «è in modo superlativo, secondo me, il più lavorato dei miei prodotti – il più composto e costruito e completo, e ha dimostrato, per molti mesi, mentre si componeva passo passo, di essere dotato di vita logica, una trappola artistica fin troppo profonda e abissale […] con ciò non voglio dire un abisso senza fondo, ma una spaccatura che affonda nella base vera del soggetto – un vero capolavoro di ingegneria». In verità si tratta però di un passo indietro, di una battuta d’arresto nella sua ricerca stilistica, nella sua sperimentazione romanzesca. Forse in lui ha agito una paura, quella di staccarsi troppo nettamente dall’idea di romanzo con la quale era cresciuto. James era ancora su una soglia, la stessa in cui si troverà un suo contemporaneo, Joseph Conrad, col quale c’era molta stima reciproca. Sono forse loro gli scrittori che più di altri hanno concesso al romanzo una via d’uscita da quella forma chiusa, quella forma che era stata portata alle estreme sue possibilità da Flaubert con Bouvard e Pécuchet, un romanzo che James detestava, se nella sua introduzione all’edizione inglese di Madame Bovary del 1902, poteva scrivere: «è stato un errore tragico, che meglio sarebbe passare sotto silenzio, essersi imbarcati in Bouvard e Pécuchet, e non averlo mandato a gambe all’aria prima che esso ci mandasse lui». James rimproverava a Flaubert di aver saputo creare una forma perfetta per personaggi troppo poco complessi, tutto sommato superficiali. E questo non valeva solamente per il suo ultimo romanzo ma anche per Madame Bovary e L’educazione sentimentale. Soltanto che in «Bouvard e Pécuchet – la più strana delle giustizie poetiche – ne esce arida come il deserto e pesante come il piombo». Ma la questione è che Flaubert aveva portato la banalità a ideale poetico, non l’aveva, come farà James, sfruttata come riempitivo di un vuoto, come depistaggio dalla vertigine, come anestetico per quel grido che gli premeva dentro. La banalità era per Flaubert il canto del cigno dell’umanità intera, per questo non poteva prevedere alcuna eredità da lasciare, nessuna apertura ad altre narrazioni. James aveva bisogno, per scrivere, di altri modelli; modelli che non potendo essere copiati, come lo era stato per lui quel maestro supremo che riconosceva in Balzac, lasciavano campo aperto, sufficiente distanza per «dipingere la vita».

 

Ma da quel grido James non resterà lontano a lungo. Lo dimostra il suo ultimo romanzo rimasto incompiuto, Il senso del passato, ma che progettava fin dal 1900, nel quale torna una storia di fantasmi attraverso la visione di un quadro che fa identificare il protagonista del libro, uno storico, con l’uomo ritratto, vissuto un secolo prima. Qui James, sconvolto da quello che stava succedendo in tutto il mondo, aveva ripreso questo progetto abbandonato per ritornarci solamente allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914. È come fosse voluto ritornare ai suoi elementi più sicuri, i fantasmi del Giro di vite e l’identificazione con un quadro che tanto significava per Milly ne Le ali della colomba, ma senza più la forza espressiva di quei libri precedenti. Se Ralph, il protagonista, si rifugia in quel ritratto, in quell’identificazione, nello stesso tempo teme di rimanerci intrappolato, di non essere più capace di tornare nel presente. «Il passato anelato», scrive Agostino Lombardo, a cui si deve molto per la conoscenza di James in Italia, «è diventato una prigione da cui teme di non poter uscire; il passato è morte, è discesa agli Inferi senza ritorno». Allora, capiamo che quel timore di rimanere intrappolato nel passato ha una natura più profonda, è di nuovo la paura di risvegliare qualcosa di perturbante, che si è rimosso, e dentro quella rimozione restare intrappolati. James non ha fatto altro, scrivendo, che trovare dei sistemi di significazione, delle macchine narrative via via più raffinate per avvicinarsi, sedurre, stimolare quella rimozione, trovando poi il modo, al contempo, di eluderla. Ma noi quella cosa innominabile la scorgiamo perennemente sottotraccia; è un grido sempre pronto a premere, o, per usare il titolo di uno dei suoi migliori racconti (del 1903), a balzare fuori come una tigre nella giungla: «lo aspettava la cosa che egli non sapeva determinare ma che gli sarebbe balzata improvvisamente addosso, di certo, come un animale feroce: come una tigre nella giungla». È la perenne attesa di quella «bestia» che Henry James, nel racconto, ma vale per ogni suo libro, chiama «la “verità” sul suo conto» e che, qualora fosse definitivamente svelata, lo incenerirebbe.

Andrea Caterini

*In copertina: Henry James nel ritratto di John Singer Sargent, 1913

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