
Il primo amore non si scorda mai: Vasco Pratolini, uno sconfitto di genio
Letterature
Silvano Calzini
Seguo le orme di Fernando Pessoa e reclamo il diritto di essere molti. In una società che ci vuole totalmente individualizzati, piccole particelle laminari e definite, che si muovono all’unisono secondo il segnale del capo di turno, rivendico il meraviglioso potere di avere dentro di me molti Io, di abitare molte case, di vivere quasi infinite vive. Fernando Pessoa ne Il libro dell’inquietudine, a proposito dell’atto del ricordare e della ricerca del proprio centro, scrive: “La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde ed arpe, timballi e tamburi”.
Arriva un momento nella vita dell’uomo in cui una richiesta deve essere ascoltata, l’anima chiede giustizia e vuole che l’uomo smetta di gingillarsi con gli impicci del quotidiano e che si prenda la responsabilità di compiere quello a cui l’anima lo chiama. Questo tempo, solitamente, coincide con il momento autobiografico. All’improvviso sentiamo la necessità di ricordare, di cercare nella memoria chi siamo, chi siamo stati e trovare una possibile traccia di chi saremo. Secondo Duccio Demetrio in Raccontarsi, l’autobiografia come cura di sé (Raffaello Cortina editore, 1996) questo istante è quello che sancisce il confine dell’adultità. Questo confine non si traccia con l’età anagrafica, è una regione lunare e privata, dipende dalla singola persona e dal coraggio di attraversarla. Nella ricerca di un centro interno e di una illusa coerenza nella nostra vita potremmo scontrarci – e ce lo auguriamo – con la visione di un Io che si moltiplica, come fossero tanti piccoli singoli Io che si muovono dentro ai nostri ricordi. Dalla dottrina cattolica siamo stati ossessionati dal dover avere un solo Io, una sola singola identità, dall’obbligo di una coerenza ineccepibile, di una condotta lineare che possa essere esposta come un trofeo, o come un qr code. L’ossessione per l’uno ci ha fatto dimenticare la moltitudine, ma soprattutto il fatto che per giungere a quell’uno la strada da percorrere è quella di vivere i molti Io che la vita ci ha offerto, grazie alle esperienze che abbiamo fatto. La vita dei santi, per esempio, non è un affatto un percorso lineare, privo di buche e curve; pensiamo a San Francesco, prima di diventare Santo il suo Io ha abitato la vita di un uomo ricco, di un cavaliere.
Iniziare un percorso autobiografico è una lotta feroce contro i pregiudizi e contro le regole del buon cittadino. Dobbiamo essere disposti a togliere del tutto le schematizzazioni, la divisione semplicistica e sicura tra buono e cattivo, per approdare al racconto della nostra vita, per farne un atto perturbante di profonda cura. Duccio Demetrio nel suo splendido libro spiega esattamente questo; ci mostra come sia possibile tentare una vera e propria cura dell’anima accettando i molteplici Io che siamo stati e che da qualche parte ancora ci appartengono. La difficoltà sta nell’accogliere che noi nascondiamo nei nostri ricordi molti Io diversi, siamo stati tante cose e non possiamo più negarcelo. Se la persona che ci sta accanto, il nostro compagno o la nostra compagna, prova una fatica immensa ad accettare le nostre parti dell’Io, che sono tutte insieme un unico grande e incoerente Io, allora è nostro personale dovere amarci nella frammentazione, amare profondamente questa galleria di autoritratti disordinata. Esattamente come la galleria degli autoritratti di Salvador Dalì, nella casa-museo a Figueras: entrate in queste sale e vedrete una quantità incredibile di autoritratti, ognuno in uno stile diverso dall’altro. Probabilmente Dalì voleva solo dare sfoggio della sua capacità artistica, oppure dava a ogni Io un nome diverso, una storia? Questo non possiamo saperlo ma riappropriarci delle molte facce che nascondiamo è un ottimo lavoro di archeologia della cura; scavare negli scantinati della memoria procura il piacere privato della scoperta di un tesoro che credevamo perduto.
Continuando sempre con Pessoa: “Tutto mi si evapora. L’intera mia vita, i miei ricordi, la mia immaginazione e ciò che essa contiene, la mia personalità: tutto mi si evapora. Continuamente sento che sono stato altro, che ho sentito altro, che ho pensato altro. Le cose alle quali assisto sono uno spettacolo con un altro scenario. E ciò a cui assisto sono io.” Non ci potrebbero essere parole più precise di queste per descrivere l’atto coraggioso del ricordare; sprofondare in uno stato alterato di coscienza dove l’uomo, chiamato ora ad essere, prova la vista offuscata del miope, dove restano solo le parti essenziali e tutti i dettagli svaniscono, evaporano. Quando ricordiamo la nostra infanzia sentiamo che siamo stati altri, ma allo stesso tempo siamo sempre noi; l’Io ha tanti nomi eppure chi guarda nella memoria esiste in un presente infinito. Il continuo e profondo tradimento dell’esistenza è il fatto che gli eventi finiscono, passano e noi ne sentiamo il tragico dolore dell’abbandono. Attraverso però un atto autobiografico, se intendiamo questo atto come cura, possiamo sanare questo trauma dell’abbandono andando a riscoprire come tutti i nostri ricordi evaporino e al contempo l’azione del ricordare ci pone spettatori eterni, direttori d’orchestra su una orchestra che siamo sempre noi.
Raccontarsi di Duccio Demetrio è una preghiera al rivendicare il molteplice Io che dentro di noi si scompone, vive amori interrotti, abita altre nazioni e forma storie autonome, libere di esistere e compiersi come più desiderano. La via per l’uno passa quindi dal molteplice, dovremmo averne cura come una madre ha cura dei propri figli. In fondo siamo i figli delle nostre azioni, delle scelte compiute e niente dovrebbe allontanarci dalla responsabilità di essere molteplici Io, con un unico Io spettatore e maestro a guidare l’orchestra dei ricordi.
Clery Celeste