A distanza di diciassette anni dal primo e unico incontro con Eleonora Duse, avvenuto presso la sua abitazione milanese, la scrittrice Ada Negri fece visita al suo sepolcro presso il cimitero di Asolo. In una breve prosa, titolata Chiesa di Sant’Anna, parte della raccolta Erba sul sagrato, consegnò al verbo il significato di quel ritorno, fissando un’immagine della celeberrima attrice che resta sospeso tra la vita e la morte. La lirica oscilla tra il freddo vuoto lasciato dalla compianta amica, in un luogo dove le pietre, i pini, i fiori secchi, la lastra del sepolcro e il silenzio tombale del campo santo parlano di una infinita assenza, e la vivida immagine di una Eleonora – vecchia, consumata dalla tisi ma ancora viva – si muove tra i viottoli della amata cittadina, come un’ombra, a cercare il banco della chiesa su cui inginocchiarsi, di fronte al ligneo crocifisso della chiesa di Sant’Anna, eterna custode del luogo in cui ora riposa. Facciata nuda e bassa, povera, d’un grigio scuro, sorvegliata da due cipressi. Qualche scalino e si sale al sagrato, intimo e solenne, nella sua umiltà. Qui, sulla destra, campeggia una lastra di pietra che riporta le parole di Ada Negri:
“Quando, ad Asolo, Eleonora Duse si nascondeva in solitudine
veniva quasi ogni giorno a Sant’Anna a pregare.
Un banco presso l’altare, a sinistra.
Là ascoltava la messa, là pregò e pianse.”
Del commiato della Duse da questo mondo, la scrittrice disegna un’immagine malinconica, solitaria, ma completamente integrata con il luogo:
“Erba, dunque, e terra che i piedi di lei,
stanchi di tante strade ma ancor leggeri nel passo,
sfiorarono quand’ella veniva alla chiesetta a pregare:
solo sicuro rifugio che le fosse rimasto,
verso il termine d’una vita così misera nella gloria”.
Le intense suggestioni di quell’incontro milanese rivivono già dai primi passi mossi dopo aver varcato il cancello del luogo sacro, quando i piedi si appoggiano a terra e, sprofondando un poco, fanno strepitare la ghiaia. Il fragore delle pietre, che sfregano l’una sull’altra, squarcia il muto linguaggio dei morti, ne ridesta il cieco istinto per i premonitori segni e, già da quel rumore, come un’animale acuto che indugia in un vigile sonno, la Duse pare come avvertita dell’arrivo dell’amica e le prepara un’accoglienza fatta di ricordi intensi, di pensieri chiari, di parole che sono (state) dette, ma si tacciono. Avvicinandosi al sepolcro, Ada ricorda che le loro anime “si toccavano, si esploravano, senza che nulla ne trasparisse”, e bisbiglia, tra sé: “entrambe forse avremmo parlato, ci saremmo confessate, se la mia giovane figlia non si fosse trovata con noi. Ma forse no. Forse si dice di più, tacendo”. Scossa da quel benevolo sotterfugio, sta ora irrigidita nelle gambe in un ossequioso attenti, perpendicolare alla lastra mortuaria. Lo sguardo, smarrito nel caleidoscopico labirinto del granito, cerca un’uscita e cade su una coppia di dalie appassite che coprono un poco il nome scandito dai caratteri bronzei, ossidati dall’acqua e dal vento. Un rimorso, dello stesso color ruggine di alcuni petali, le si muove nel petto.
Ada Negri ricorda il grande mazzo di rose che la Duse le portò in dono il giorno della sua visita e si vergogna dell’imperdonabile dimenticanza, di non aver avuto lo stesso scrupolo di portarle dei fiori freschi.
“Nella gioia, nell’ansia di venire, ho scordato di portar qualche fiore con me. Come ho potuto, dopo tanto desiderio e tanta attesa, accostarmi a questa tomba senza neppure un fiore? Come ho fatto a non pensarvi? […] Curvo la testa, faccio un segno della croce, chiedo in cuore perdono a colei che, qui sotto, non è più per me la Duse vivente, vecchia e stanca ma vivente, della chiesetta di Sant’Anna: è una grande e solidissima morta, senza fiori freschi sulla lapide”.
Con quelle rose antiche, apertesi la sera del loro incontro in un tripudio di boccioli variopinti e profumati, Eleonora Duse le aveva recapitato un ultimo messaggio:
“In quel fantastico splendore, che nascondeva tante spine io non sentivo solo la presenza della Duse: sentivo il suo dramma: tutte le verità ch’ella avrebbe voluto dirmi, e mi aveva taciute”.
Eterna ed immobile è l’immagine della Negri che distende il pensiero e si abbandona ad osservare l’incontro tra lo spirito della defunta che, evaso dal suo sepolcro, ne emerge leggermente e se ne affranca, per appoggiarvisi a rimirare la maestosa bellezza del paesaggio circostante:
“Distolgo gli occhi. La cappella arborea è aperta verso il respiro della vallata: m’affaccio alla cornice verdebruna entro la quale, dall’ultima linea dell’orizzonte, si profila il tremendo massiccio del Grappa. La tomba di Eleonora gli si rivolge incontro, e fin che duri il mondo lo guarderà. È morta così sola! Non ha bisogno, in terra, d’altra compagnia”.
Era stata lei stessa ad eleggere Asolo ad asilo della sua vecchiaia e a sua ultima dimora terrena. Incastonato tra il Grappa e il Montello, quel paesino di merletti e poesia la incantava con la sua bellezza e con la sua vicinanza alla tanto amata Venezia; la rallegrava infinitamente il calore dei buoni amici che vi trovava e qui volle essere seppellita.
A chi desideri ripercorrere i passi della scrittrice, nel mistico luogo del racconto, parrà di scorgere la forma nera della Duse che varca la soglia della sua dimora cinquecentesca e si dirige verso il sagrato di Sant’Anna, verso quel banco presso l’altare della chiesa, dove si raccoglie in ginocchio, col viso fra le mani. E se incombe il desiderio di ridare un volto a quella magnifica donna, non è difficile imbattersi in una sua celebre fotografia in bianco e nero, dov’è immortalata mentre fissa qualcosa in alto, alla sua destra, a cercare risposte – più che oggetti, cose, misure o architetture del mondo. Quello sguardo, intriso dell’incanto della recitazione, pregno della celebrazione dei sentimenti in cui visse immersa, come in un esercizio di esistenza, come in un palcoscenico di emozioni da restituire altrove, parla di infinito altruismo, dialoga ancora con l’osservatore, restituendogli ciò che lei era – davvero. Coraggiosa eroina del suo tempo, sfiancata dalle disavventure esistenziali procurate dal suo perenne volgersi al prossimo, fu donna di intensa originalità e la sua dipartita lasciò nella poetessa Ada Negri un inconsolabile sconcerto. In Gabriele D’Annunzio, sfuggente figliol prodigo di un amore sciupato, sacrificato alla fama, mondato dal tradimento, che in larga misura contribuì alla disfatta di lei, la notizia della sua fine mosse queste celebri parole: “È morta quella che non meritai”.
Il potere occulto della fotografia consegna all’occhio il volto della Duse. Il cuore di chi lo osserva freme, insieme a lei, e sigilla il ricordo indimenticabile del mistero in cui talvolta si conciliano, inspiegabilmente, misure umane contrastanti, capaci di sospingere un uomo così pieno di sé – come il vate – sull’orlo del pentimento, nell’allegorico confessionale da lui stesso approntato con quelle parole.
Da quel volto straripano i tratti d’una tempestosa vita interiore: umili e fieri, severi e compassionevoli, granitici e fragili, fantasiosi e pragmatici. Esitanti simmetrie trovano a stento un temporaneo equilibrio, immortalato dallo scatto, per poi precipitare rovinosamente immediatamente dopo. Nel tormento dell’incertezza si consumano le vite di chi non è abbastanza accidioso da fluttuare sui fondali, né abbastanza libero da levarsi in cielo. Arrancano, appese in una violenta e spasmodica ascensione per guadagnare il crinale da cui tutto si può osservare. Se quel luogo Eleonora mai raggiunse in vita, da un secolo ormai, lo osserva nella cima del Grappa.
Riccardo Peratoner e Marilena Garis