“Sono dell’opinione che in principio ogni scrittore voglia essere poeta”, scriveva William Faulkner. “Quando scopre di non saper scrivere poesia di prim’ordine, e la poesia deve essere di prim’ordine, allora tenta con i racconti, che sono il secondo genere più arduo. Quando fallisce con i racconti, viene il momento del romanzo. Vale a dire che cerca di esprimere la tragedia e la passione dell’esperienza, della vita, con quattordici parole. Se non va, ci ritenta con duemila parole. Se fallisce di nuovo, gliene serviranno centomila.” Le cose possono anche stare diversamente, ma è vero che al pari di una produzione esorbitante, come quella che ogni anno sfornano i poeti italiani, poche opere sono degne di attenzione.
Scrivendo in prosa o in versi il punto non cambia. Occorre domandarsi che cosa sia la letterarietà, ovvero ciò che rende un’opera letteraria. Roman Jakobson, linguista, risponde che questa è un principio di organizzazione, non una proprietà tra le altre del testo. Detto in parole più semplici, tra un cibo condito e uno scondito c’è una differenza, e la poeticità per Jakobson è come l’olio: “Una componente che trasforma gli altri elementi e determina così il carattere dell’insieme. L’olio non costituisce un piatto a sé, ma neppure un’aggiunta accidentale o un elemento meccanico: cambia il gusto di tutto il cibo. Quando in un’opera letteraria la poeticità, la funzione poetica acquistano un’importanza decisiva, allora parliamo di poesia”. La letteratura è artificiosa, innaturale come la mossa del cavallo negli scacchi.
Se la parola, per comunicare, è un’anomalia che dovevamo necessariamente scegliere, la letteratura ne rappresenta una perversione ulteriore. Priva di utilità, è buona a niente se non a passare il tempo e quindi a sprecarlo, quando dovremmo usarlo altrimenti. La poesia è dunque qualcosa di artificiale, che sta al linguaggio come il vizio sta al sesso atto a generare. Una deviazione che deve di fatto estraniare e perturbare il lettore, colpirlo, segnarlo.
A ogni modo, se scegliete di usare il vostro tempo leggendo poesia, non sempre recandovi in libreria troverete questi libri conditi di letterarietà. Anzi, l’offerta sugli scaffali è selezionata per soddisfare gusti quasi sempre facili: nel migliore dei casi ricircolano perennemente gli stessi classici; nel peggiore, ci sono montagne altissime di libri colorati come quelli dei bambini, solo più idioti. Succede spesso in Italia che alcune, pochissime realtà più piccole, siano capaci di valorizzare la letteratura di qualità, che un’occhiata agli scaffali delle più rinomate librerie ci precluderebbe.
Antonio Bux collabora con due case editrici, per le quali cura due collane: Sottotraccia per la Marco Saya Edizioni e L’anello di moebius per la più recente RPlibri. Sativi (Marco Saya Edizioni, 2017), è la settima fatica dell’autore, complessa e interessante seppur di difficile interpretazione. L’opera investe l’intera esistenza umana, a partire dalla sua primaria modalità di apertura nei confronti del mondo: il corpo, come terreno entro cui e da cui si dipana l’esperienza nella sua totalità di pensiero e azione. Il corpo in questo si fa fertile, coltivabile, ovvero sativo (“Provocare un limone/ farlo luce sanguinante/ non è verità a stringere/ il braccio ma la pietà/ tra filamenti e fibre/ perdendosi in vena;/ ah com’è stato giallo/ esserci./ Per forza di mari/ per iniezione centrifuga/ rotolano belve di sale/ tra acquazzoni nei corpi/ ora viola ora azzurro il male/ ora verde l’eclissi mentale…/ Vivere non è mai stato così vomito)”.
Attraverso il corpo e i suoi sensi ci apriamo al mondo esterno. Ci ritroviamo persi in una marea inarrestabile di stimoli, che sedimentano in ricordi, emozioni, che si trasformano in pensieri. Ci rendono fertili e troppo umani, nauseanti. Con i quali, però, cresciamo e facciamo i conti. Sono strati di immagini in cui ci identifichiamo. L’opera, quindi, è un diario intimo che procede per metafore e simboli significanti e originali. Prima tra tutte, quella del seme che rappresenta la vita nel suo potenziale, nelle sue infinite possibilità, tra cui quella di non essere. La cifra concettuale, ripetutamente presente nei versi di Sativi, è un rovesciamento meccanico della prospettiva (“Ho sognato un gigante/ così grande che ero io/ ma ero troppo grande/ in sogno per vedermi/ Mentire sul mondo/ è nostra abitudine/ fino ad un certo disordine/ quando svolta bivio ciascuno/ Non serve niente alla parola/ basta da sé per cancellare/ tra un parlare e un non dire/ l’essenza ricominciando/ Penso di pensare/ ed è l’unica via d’uscita/ pensarsi pensati, in acque/ dischiuse vite frementi”).
La poeticità è uno sguardo attento sul reale, che trasforma geneticamente la realtà. Tornando alla metafora di Jakobson: l’olio ha un ruolo così importante che un pesciolino perde la sua iniziale denominazione e viene chiamato sardina sott’olio. Ciò che dovrebbe essere conservato nella poesia, ed è bene continuare a conservarlo come ha fatto Bux nel testo, infine, è semplicemente l’assoluta diversità di uno sguardo.
Alessandro Paglialunga
Alcuni estratti da Antonio Bux, Sativi, Marco Saya 2017
Non è che tu t’immagini
tra le fronde
ed io devo vederti passare.
O che anche l’anima debba ritrarre
un movimento, di un osso,
o la tua vera speranza.
Chi siamo noi per ricordare
se già il primo ricordo
ci ricorda ed annienta.
Noi non diventeremo
questo è quasi certo,
un raggio di sole o una stella.
Ma siamo qui, ora
e tutto ciò che guardiamo
è il nostro solo specchio […]
*
A saperle vedere le finestre
chiuse aperte, mentalmente ferite
sotto i volti e le palpebre,
tra le gambe a rompere vene,
e queste righe discontinue:
io sono solo, tu sei con me, gli altri
a stendere veli e gli sguardi;
ah, a saperlo diluire lo specchio
con gli occhi fraterni, e farne
altri occhi, per i fantasmi di oggi,
ah sì, per poterli guardare
e non toccare mai niente, o illudersi
di poter sparire, sarebbe
più nitido il paesaggio
se trascorresse qui dentro
e invece è un attimo
vivere, pensare, e il ritorno
*
Lui sembrava povero
ma in verità era reale,
vestiva i panni smessi
di chi non ne ha; lui
era così: tra tutti i vuoti
scelse di vivere