21 Aprile 2023

“La vecchia disgustosa”: un racconto di Louis-Ferdinand Céline

Come sottolineato da Alban Cerisier nella sua introduzione a questo racconto inedito di Cèline – pubblicato nell’ultimo numero della Nouvelle Revue Française edita da Gallimard per la primavera 2023, che all’autore dedica un ampio dossier – tale scritto, precedente alla stesura dei suoi romanzi e recentemente scoperto in alcuni manoscritti recuperati, risultava del tutto sconosciuto agli specialisti dell’opera céliniana. Alla luce del suo stile ancora convenzionale, risalirebbe probabilmente ai primi anni Venti. I biografi dello scrittore datano i suoi primi testi letterari agli anni 1917-1918. Ma l’allusione alla ‘rue de Pré-Botté’ (presente anche in La légende du roi René), nome di una strada di Rennes che ancora oggi è così appellata, permetterebbe di collegare la sua composizione agli anni in cui Louis Destouches visse in tale città, dal 1919 al 1925. Alternando originali trovate a espressioni molto meno compiute, mescolando astrazione e immaginario, La vecchia disgustosa, ai primordi di una vocazione letteraria, è un racconto il cui scopo e la cui stranezza, il cui carattere enigmatico, non possono lasciare indifferenti.

*

La vecchia disgustosa

Tra le abitazioni di questa antica e maestosa via, quella appartenente ai Morin sembrava ancora più incrostata dal tempo rispetto alle altre. Tre secoli di meticolosa pioggia ne avevano corroso gli intricati intagli della facciata, che ora mostrava la sua trama di legni ostinati e sfibrati.

Tutti i consueti movimenti di una casa erano per lei divenuti più lenti e faticosi, come logorati dall’effetto di una fatica immensa, di un passato lunghissimo. Quando la porta di legno massiccio girò improvvisamente sui cardini, provammo un senso di goffo pericolo, come quando un vecchio si arrischia in un gesto acrobatico.

Ne uscì una donna minuta, china, avvolta da spesse balze nere, seguita in prossimità da un uomo a capo scoperto, dai movimenti bruschi e scattanti. Giunti insieme sul marciapiede, la loro discussione proseguì a voce bassa, quando una frase si stagliò, chiara, cristallina, nell’insieme di parole sussurrate e confuse: «Mademoiselle Balavet, lei è davvero una vecchia disgustosa». La donna rimase lì, paralizzata, non osando congedarsi né dal suo posto né dall’ingiuria.

Poi, dopo essersi ripresa, si allontanò zoppicando lungo il torrente come un’anatra agonizzante.  

E per un po’ le mura circostanti fecero eco ai suoi ridicoli passi.

La monotonia della provincia è come la superficie di quei grandi laghi che si ricoprono di increspature non appena un alito di vento li sfiora.

Era trascorsa appena un’ora dal fattaccio e già i tremila abitanti di Pontabon spettegolavano eccitati in merito alla reputazione di Mademoiselle Balavet.

Finalmente, per qualche tempo, una perfida gioia avrebbe animato i cuori di queste persone il cui ritmo naturale oscillava a malapena tra la paura e l’ipocrisia.

Da molto tempo, forse da sempre, tutti, a Pontabon, attendevano l’insperato avvento di uno scandalo, per la sua losca esultanza.

Un intimo e caloroso giubilo per la vergognosa potenza dell’Istinto: un incoraggiante risarcimento per quanti vivono oppressi da innumerevoli tradizioni.

D’altro canto, nessuno di questi esseri passivi avrebbe osato con le proprie forze sollevare di una sola piega la cappa di schiacciante malinconia che aveva gravato sui destini di Pontabon nel corso dei giorni e degli anni. Ma, poiché mademoiselle Balavet era appena stata vittima di uno sfogo immorale, poiché dalla sua timida vita sgorgava un sottile flusso di disastrosa contingenza, tutti desideravano sorseggiare un po’ di questo autentico fiele per poi vomitarlo in un bel gesto di pubblico disgusto. Non c’era pontabonese che non sognasse di sputarne una goccia, più o meno grande, purché fosse ancor più amara e cattiva di quella del vicino.

Quando giunse a casa, barcollando per il turbamento, mademoiselle Balavet si ritirò nella sua stanza. Gli occhi pallidi fissarono il tappeto al centro della camera. All’inizio non percepì alcunché di distinto, perché tutto il suo essere in quel momento era pervaso dalle vibrazioni del vergognoso episodio che aveva appena vissuto. Non si era mai sentita in uno stato mentale così intenso e vivo. Le rappresentazioni che le si affollavano alla mente avevano un fascino perentorio che la stordiva. Provò un moto di strano orgoglio per il possesso di una volontà superiore alla sua, che trattava le sue stesse idee con una disinvoltura sconosciuta. Questa anormale vitalità che fremeva, sottile, nella sua sostanza, fu, ahimè, di breve durata. Presto ricadde nella sua placidità, dove l’attendevano sogni impotenti e dolorose realtà. Davanti ai suoi occhi il dolore danzava tremulo sul tappeto. Poteva scorgerne tutti i buchi…

Nel medesimo istante… passi pesanti e rapidi sulle scale… una porta si aprì… e Madame Morin fu lì, prima che lei avesse modo di immaginarlo. Inoltre, l’ospite trascurò ogni preambolo e si rivelò subito con una minacciosa spiegazione:

«Mademoiselle Balavet, sono venuta immediatamente da voi, quando, rientrando a casa, mio marito mi ha riferito l’oggetto della vostra visita». Qui Madame Morin fece una pausa e si sedette metodicamente con la sicurezza di una persona la cui indignazione le conferisce diritti inalienabili. Portando il mento in avanti, inclinò leggermente il capo, esalò un sospiro pieno di allusioni attraverso il naso appuntito e spiovente. Madame Morin emanava una tale combinazione di sentimenti sgradevoli, una tale ripugnanza, un misto di cautela e aggressività, di disprezzo e sollecitudine, che era impossibile, anche da estraneo, avendola ascoltata una sola volta, non detestarla per il resto della vita.

Con lo stesso piglio indifferente, Madame Morin riprese: «Mio marito». Attribuendo alla parola il significato più grave ed irritante. Mentre la pronunciava, tendeva ad appoggiarsi con tutta se stessa a “suo marito”, fino ad indietreggiare leggermente sulla sedia. Non salutò precisamente la parola mentre usciva dalla sua bocca, ma ne sottolineò l’importanza con tutto il corpo. «Mio marito ha detto ciò che tutta la città pensa di voi. L’approccio con nostra figlia è veramente disgustoso. Certo, sapevamo che eravate dissoluta, ma non così folle». Madame Morin, cercando di dare l’impressione di un’ira insormontabile, aveva assunto un’orrenda espressione di finto stupore. Si faticava a guardarla, tanto era mostruosa. Le labbra, soprattutto, avevano assunto le sembianze di una sorta di corolla violacea con fessure bavose a circondare denti avariati, un fetido insieme che stato meglio vedere chiuso per sempre. Tuttavia, seguitò a parlare. «Nostra figlia domani si sposerà con Monsieur Fulmouche. Certo, sono d’accordo, è un bel matrimonio, degno della nostra ragazza, la cui condotta è sempre stata ineccepibile. E, santo cielo, il mio unico rimorso, l’unico, capite, mademoiselle Balavet, è di aver tollerato, perché era tempo di guerra, che frequentasse casa vostra». Ancor più minacciosa, scagliava ora le sue parole contro l’inerte signora a mo’ di proiettili: «Non osate affermare che non eravate in combutta con il vostro capitano Beaujarret». «Potete ben dirlo!» rispose docilmente l’anziana signora. «Come: “potete ben dirlo!”… Mentre li attiravate qui con il pretesto di un possibile matrimonio, non eravate voi stessa innamorata del vostro capitano Beaujarret? Perché non affermate il contrario, in modo che io possa ascoltarvi?». Raddoppiò gli sforzi per trovare le parole: «Suvvia, il vostro rinomato patriottismo non era cosa onesta. Una vecchia donna come voi! Ciò che vi attraeva dell’esercito erano i soldati! Tenetevi stretto il vostro capitano, nostra figlia non si concede ai morti. Sarà un bene per voi. Io e mio marito non vogliamo più vedervi in casa nostra. Non venite più a predicare alla nostra Elise, alla nostra piccola Elise, questa assurda fedeltà alla memoria del vostro capitano. Tenetevelo ben stretto!».

Come tutte le persone grossolane e viscerali, a Madame Morin piaceva soprattutto impartire lezioni, su tutto e su niente, poiché le suggerivano l’impressione di padroneggiare pienamente l’argomento e farsi beffe dei propri ascoltatori. In questo caso si trattava per lei di un’occasione unica, perché Mademoiselle Balavet fu costretta a sopportare la morale velenosa di Madame Morin per intero e senza appello. Dopo aver spillato alla vecchia tutto ciò che poteva pompare il suo stupido orgoglio, si congedò orgogliosamente, portando con sé la memoria d’un nobile incarico. Doppio godimento.

Sottoposta fin dal mattino ad attacchi di una violenza per lei inaudita, la ragione di Mademoiselle Balavet dapprima inciampò nell’incoerenza, poi cadde nell’assurdità.

Incapace a quel punto di una critica razionale dei propri sentimenti o pensieri, era compensata dall’illusione di una provvidenziale potenza morale, di una tenacia intellettuale logorante ma preziosa. In poche parole, sembrava possedere una verità che la possedeva del tutto.

A causa di questo matrimonio e della sua ossessione, il corpo non le trasmetteva più gli stessi impulsi di prima. La sua mobilità era diventata innaturale, e ogni movimento era accompagnato da un leggero intorpidimento, una sorta di difficoltà superficiale e tuttavia volontaria. Aveva voglia di abbandonarsi a questo nuovo stato d’animo. Da un tiretto basso della cassettiera, estrasse un fascio di carte ufficiali e di lettere riguardanti il capitano Beaujarret. Su un taccuino, una dopo l’altra, senza fermarsi, cominciò a ricopiare tutte le citazioni, non fedelmente, ma aggiungendo a ognuna di esse una potente dose di eroismo. Ecco che, sotto la sua penna, venti prigionieri divennero cento, l’unica bandiera si tramutò in dieci, moltiplicò anche le ferite di cui il povero capitano era costellato.

Così… per piacere… per amore… mentre scriveva, il suo pensiero si eccitava nel sublime, si faceva ridicolo e imbarazzante. Inventava di sana pianta nuove citazioni. Ben presto, grazie alle sue cure, Beaujarret non fu altro che un campione di patriottismo: aveva caricato squadroni da solo, riportato tre cannoni nelle sue braccia vigorose, catturato aerei nell’aria… e Mademoiselle Balavet si rilesse a lungo, ancora in estasi.

Quando ebbe terminato quest’opera inconcepibile, la giornata volgeva al termine. Mademoiselle Balavet era felice.

Con il fascio delle sue fantasiose formulazioni sottobraccio, imboccò la strada per il cimitero, senza incrociare nessuno in rue du Pré-Botté e raggiunse i campi senza essere vista. Il cimitero era lontano dalla città e dovette aggirarlo prima di raggiungerne il cancelletto. Una volta lì, dovette scavalcare il muretto che protegge l’ingresso dei cimiteri bretoni dai cani. Ancora qualche passo e, senza fiato, si aggrappò con entrambe le mani alla tomba del capitano Beaujarret. Pose sulla lapide la sua opera di devozione, in segno di omaggio, e poi, in ginocchio, la si sentì rivolgere al morto quest’inatteso quesito: «Capitano Beaujarret, sono una vecchia disgustosa?».

Poiché pioveva, non poté indugiare nella preghiera, perché temeva che la pioggia le rovinasse i vestiti, di cui aveva gran cura. Riprese quindi la strada per Pontabon nell’ora imprecisa in cui i sentieri, gli argini e i campi sfumano nei loro contorni, quell’ora in cui i lunghi veli dell’ombra e dell’oblio avanzano dall’orizzonte grigio per confondere le persone e le cose, quell’attimo in cui ogni nuova notte pone alla mente quel dubbio atavico e infantile sull’esistenza di un domani luminoso.

Ma Mademoiselle Balavet non doveva più essere afflitta da tali inani preoccupazioni, si stava dissolvendo nella calma per sempre. Ben presto apparve minuta in lontananza; poi talmente piccola da non essere più che un puntino, e quel puntino stesso alla fine perse il suo colore e svanì nel nulla. E così scomparve nel corso della strada come una lacrima in una nuvola. Una nuvola enorme, vasta come il cielo e depressa come la terra.

Louis-Ferdinand Céline

*La traduzione e la cura del testo sono di Fabrizia Sabbatini

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