23 Aprile 2020

Rinascere come individui attraversando l’alienazione del lavoro. Sui libri di Giorgio Falco e Vitaliano Trevisan

Era da un po’ che volevo ritagliarmi del tempo per leggere e analizzare due libri che avevano solleticato la mia curiosità: sia per il tema, molto caldo in particolare per chi oggi ha tra i trenta e i cinquant’anni, che per il semplice fatto che due scrittori italiani contemporanei si fossero cimentati nella stesura di un libro analogo. Mi riferisco nello specifico a Works di Vitaliano Trevisan e di Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco, libri che, usciti a breve distanza l’uno dall’altro (tra il 2016 e il 2017) nella stessa collana dello stesso editore (Einaudi Stile Libero), rispondono chiaramente a un medesimo progetto editoriale.

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Il libro di Trevisan è un memoir centrato sulla vita lavorativa dell’autore. Si tratta di un percorso di formazione che si snoda nell’arco di circa vent’anni, in cui gradualmente il protagonista conosce meglio se stesso e la società in cui è inserito. Il lavoro come attività umana è descritto in modo niente affatto idealizzato. Nonostante l’idea di sacrificio che lo sottende, e che può essere utile al vivere sociale – etica del sacrificio come fondamento dell’esistenza e della possibilità di evoluzione dell’essere umano – viene fuori un’immagine del lavoro come condanna biblica e sfruttamento del singolo, aspetto solo accentuato dalla sua declinazione capitalistica. L’autore bolla come ipocrita la concezione del lavoro come ambito in cui realizzare se stessi, riuscendo a vederlo solo come puro mezzo di sostentamento, lasciando la realizzazione di sé ad altri ambiti. Si nota una non comune capacità di mettersi a nudo relativamente alle proprie idee (droghe, funzione della polizia, politica ecc.), decisamente poco politically correct tra gli scrittori del nostro Paese, spesso intrisi di ipocrisia e buonismo. Con la sua lama affilata Trevisan attraversa i mali storici dell’Italia, sperimentati e vissuti in prima persona: il nepotismo, il clientelismo, la piaga del lavoro nero, lo sfruttamento degli apprendisti, l’uso di risorse e mezzi pubblici per fini privati, l’assenza di criteri meritocratici per decretare l’ascesa nei luoghi di lavoro, l’indebita alleanza tra politica e cattolicesimo nell’influenzare assunzioni, carriere e spartizioni di cariche.

Su questo sfondo si colloca, quasi in controluce, il rapporto conflittuale con la propria famiglia e l’ambivalenza verso il padre poliziotto, che assurge a simbolo della Legge. Una figura distante che però rimane sempre presente nell’orizzonte esistenziale dell’autore, rappresentando quel limite da mettere alla prova nella vita ma da non superare mai definitivamente, come descrive bene l’episodio del mancato arresto e dell’allontanamento definitivo dall’ambiente del piccolo spaccio.

Da un punto di vista stilistico si conferma la singolare capacità di Trevisan (nota a chi lo conosce come scrittore) di usare periodi lunghissimi cadenzati da una punteggiatura insistita e di inserire ampi intermezzi e digressioni nella narrazione riuscendo tuttavia a non far perdere il filo al lettore, segno di una invidiabile capacità di tenuta logica dell’argomentazione.

L’unico punto debole del libro sta a mio avviso nella scarsa chiarezza di come, da una vita giovanile che sembra presupporre tutto fuorché la scrittura (a parte qualche accenno a un diario personale tenuto in giovane età), l’autore giunga poi ad essere uno scrittore. Nel corso della narrazione Trevisan accenna alla sua passione per i libri per poi, ad un certo punto, introdurre il sogno di diventare scrittore, con una velocità che non è consona all’importanza del passaggio esistenziale e che introdotta in questo modo risulta innaturale nel processo di maturazione descritto. Resta così l’amaro in bocca per il fatto che nulla o quasi venga detto dell’ultimo e più importante ambito lavorativo per Trevisan, quello delle lettere, a parte qualche stoccata alle scuole di scrittura e alla vanità di qualche collega scrittore (che rimane anonimo). Al contempo, l’autore avrebbe potuto dedicare meno spazio, data la mole del testo, ai dettagli di alcune esperienze lavorative che nulla aggiungono alla ricchezza della narrazione e che suonano un po’ come dei riempitivi. Resta infine sospesa la vicenda del ricovero in un reparto di psichiatria accennata nella prima parte del libro: certamente avrebbe potuto aprire squarci importanti per comprendere meglio il protagonista nelle sue dinamiche relazionali, scelte lavorative, modi di pensare e di fare.

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Anche Ipotesi di una sconfitta, il romanzo autobiografico di Giorgio Falco, è centrato sul tema della formazione del protagonista attraverso l’esperienza lavorativa. Il lettore sarebbe indotto a pensare che questa sia un po’ meno centrale rispetto al libro di Trevisan alla lettura delle prime pagine, quando viene descritta approfonditamente la figura del padre dell’autore, a partire sì dal suo mestiere di autista di autobus ma concentrandosi soprattutto sulle sue caratteristiche umane.

Ma si tratta di un’illusione. Al padre viene dedicato il primo capitolo, a mio avviso la parte più bella del libro. Poi il testo si perde in una cronaca fin troppo precisa dei vari lavori svolti e la narrazione si appiattisce, si fa troppo concreta, perde la capacità di dire altro oltre a ciò che narra e il lettore potrebbe avere difficoltà a capire cosa distingue un libro di narrativa come questo da un articolo di giornale che parli dello stesso argomento. Anche questo aspetto, la centralità della figura paterna, è un aspetto che accomuna i due libri. Tuttavia in Works questa è declinata in un senso più simbolico-astratto, come emblema del limite e dell’ordine, dedicandovi Trevisan poche pagine se si considera la mole del libro; invece in Ipotesi di una sconfitta essa è maggiormente analizzata nelle sue pieghe storiche e umane, con l’autore che fa del proprio padre fin da subito una persona assolutamente concreta e riconoscibile, coi suoi limiti e i suoi pregi, simbolo di una decorosa normalità, e capacità di adattamento alla società, che fin da subito s’intuisce sarà difficile da raggiungere per il figlio. Il padre descritto da Falco è un uomo che soffre nella carne, con le difficoltà a intendersi col figlio, e che propone un modello di rapporto con la realtà tipico di una persona “nella norma”. La sconfitta dell’autore è quella di non sapersi adeguare a questo modello – e quindi a non sapersi inserire produttivamente nella società in cui è inserito – per quanto ammirato e affettivamente investito.

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Da un punto di vista narrativo, il libro di Giorgio Falco ha una velocità eccessiva. Diversi passaggi importanti sono poco spiegati, ad esempio quando l’autore decide di lasciare l’università per tuffarsi nel mondo del lavoro, oppure quando inizia a parlare di una nuova esperienza (un nuovo mestiere, la vita in una nuova città) e nel giro di poche pagine il lettore viene informato che sono passati diversi anni; o infine quando, sul finire del libro, ritroviamo l’autore in procinto di pubblicare il suo primo libro quando non molte pagine prima aveva detto di aver iniziato a scrivere nei ritagli di tempo concessi dal lavoro. Ciò non rende a mio avviso un buon servizio non solo al ritmo del racconto, che avrebbe bisogno di una maggiore lentezza per consentire al lettore di comprendere meglio certi passaggi esistenziali, ma anche al realismo dei contenuti, nel senso che restano poco credibili alcune evoluzioni del protagonista e perfino alcune riflessioni (come quando, poco più che ventenne, gli risultano chiare molte cose del mondo capitalistico, di ciò che non va nella società, ecc., con una nitidezza di visione che pare più propria del Giorgio Falco adulto autore del libro che di un ventenne degli anni ’80). Risente di questo eccesso di velocità anche la descrizione del rapporto col padre: proprio perché importante come ci lascia intendere l’autore all’inizio, chi legge può legittimamente attendersi un ritorno a quella figura nel corso del libro, e invece nelle restanti 200 pagine Falco ne farà solo un rapido accenno qui e là (addirittura mettendo al corrente di un peggioramento dei suoi rapporti col padre negli anni), in modo non del tutto congruente con l’investimento affettivo delle prima pagine.

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Anche Falco affonda la lama nelle storture del sistema capitalistico e soprattutto del mondo del lavoro italiano: la sciatteria materiale di molte istituzioni pubbliche, la scarsa efficienza e l’eccesso di burocrazia, lo scarso spessore personale e culturale delle figure apicali, ma anche con la precarietà, la scarsa qualità e lo sfruttamento latente di molti lavori proposti a chi con buona volontà vorrebbe inserirsi nel circolo produttivo. Tutti aspetti tipici di una società che vorrebbe sentirsi economicamente avanzata ma che invece mostra deficit organizzativi e mancanza di visione.

Ciò che nel libro però indebolisce a mio avviso la forza di questa critica è da un lato il suo aspetto puramente descrittivo, ampiamente conosciuto nei suoi aspetti generali. Dall’altro lato, il fatto che il racconto sia condito di riflessioni critiche sul capitalismo vaghe e generiche, che sembrano avere più che altro lo scopo di fare da raccordo ideologico tra le varie esperienze lavorative descritte dall’autore.

Anche la scrittura è meno connotata stilisticamente (o le caratteristiche dello stile pesano complessivamente meno sulla scrittura dell’autore) rispetto a quella di Works. Sembrerebbe quindi una scrittura meno cerebrale e costruita, più capace, con una sintassi semplice e una punteggiatura tradizionale, di coinvolgere maggiormente il lettore sul piano dei vissuti emotivi. Tuttavia a lungo andare risulta monotona e, assieme a una ripetitività dei contenuti, appiattisce notevolmente il tutto, rendendo piuttosto faticosa la lettura. Anche questo libro, probabilmente, avrebbe potuto essere sfrondato di almeno 50 pagine senza che il racconto ne risentisse.

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In conclusione, possiamo dire che ci troviamo di fronte a due lavori analoghi, in particolare per quanto riguarda il tema e la struttura del libro, con la centralità assoluta data al percorso di maturazione personale attraverso il lavoro e alle difficoltà che un individuo, nella società capitalistica contemporanea, può avere a realizzarsi come persona nella sua globalità, dovendosi adeguare a determinate modalità organizzative della società e del lavoro. Analoga poi è la visione critica dell’Italia, e analoghi alcuni limiti dei testi, come l’eccessiva lunghezza e le descrizioni troppo particolareggiate e cronachistiche di alcuni lavori (con un effetto di ripetitività), ma anche il non approfondimento di ambiti di vita collaterali al lavoro che invece avrebbero potuto contribuire a rendere il racconto più movimentato e interessante.

Tuttavia il libro di Trevisan risulta a mio avviso più interessante e significativo, per lo stile, per la tenuta logico-argomentativa della narrazione, per l’acume di alcune affermazioni e in generale per il substrato letterario-culturale che lo sottende. Inoltre le esperienze e i personaggi descritti in Works risultano spesso tridimensionali, meno stereotipati, capaci di coinvolgere maggiormente il lettore perché è come se partissero dal basso di una vita effettivamente vissuta più che, come mi sembra in Ipotesi di una sconfitta, dall’alto di un’ideologia e di una razionalizzazione che sembrano invece precedere l’esperienza. Nonostante la lunghezza significativamente maggiore e la sintassi più arzigogolata, Works riesce ad essere un racconto più accattivate e chi legge ha sempre l’impressione che Trevisan possa tirare fuori una massima o un evento significativo dalle sue pagina.

Marco Nicastro

*In copertina: Vitaliano Trevisan in una fotografia di Pierantonio Tanzola

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