Anthony Burgess sconvolge per la sua attualità nonostante sia nato più di un secolo fa, era il 25 febbraio 1917. Ecco allora qui i punti salienti di un suo testo: spegniamo con lui le candeline!
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Si tratta di un pezzo concepito per esser letto, sta tra il monologo e il saggio. Fu composto da Burgess per la commemorazione di Terence Kilmartin, suo editor storico. Fu letto al Dartington Ways With Words Festival del 1992 e apparve su Observer nello stesso anno. È pubblico online ma in italiano non circolava ancora.
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Il titolo originario è Confessions from the hack trade. Hack è la sbozzatura, l’intagliatura. La metafora ha quindi un senso riposto: il recensore, sostiene Burgess, svolge quella sorta di critica che, come diceva il caro Marx, è tipica dei roditori: sgranocchiare.
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Nel suo saggio metaletterario su Arancia meccanica Burgess raccoglie gli allori del successo grazie a Kubrick. Riflette così sulla violenza delle arance meccaniche: “lo scrittore fa passare il tempo, tra un’azione utile e l’altra; contribuisce a riempire i vuoti che si creano nell’ordito serioso della vita: è un mero intrattenitore, una specie di clown. Imita, fa gesti grotteschi, è patetico o comico e talora entrambe le cose, lancia le parole in aria, a vorticare come palloncini colorati”.
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Questa è l’eternità paradossale della scrittura, se vogliamo. Però adesso che sono passati degli anni da quando quel genio si aggirava per l’Italia ci rendiamo conto che alla fine hanno vinto i “comportamentisti”, gli odiosi poliziotti intravvisti da Burgess in Arancia meccanica. Hanno vinto quelli che vorrebbero fare di questa vita, di questa polpa di arancia, qualcosa di meccanico e irreale – hanno vinto loro con la relativa ingegneria classista a base di algoritmi che ti danno i risultati di ricerca sul telefono in base alle tue preferenze.
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Solo degli idioti in perfetta buonafede, gli utili idioti come li chiamava il compagno Lenin, solo loro potevano credere che l’ingegneria che sorregge internet e il nostro vivere oggi, che questa rete insomma, ci potesse garantire la libertà. Immaginatevi un banco di tonni finiti nella rete che dicono ehi guarda che bello essere in questa rete!
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Il tonno siamo noi. Burgess l’aveva preconizzato, previsto, subodorato col suo cinismo avventuriero su come usare i libri. Mettetela come vi pare, basta togliere il poster del Che da sopra il letto e smettere di credere alle favole. (Andrea Bianchi)
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Estratti da Burgess, Confessioni di un roditore
Ritratto del recensore seduto. I recensori sono pigri, i critici no. I recensori sono visti dagli scrittori di razza con un misto di presentimento e disprezzo. Lo status e, di più, la condizione materiale del recensore è riassunta in un articolo tagliente di Orwell: il recensore sembra un tipo invecchiato velocemente che siede a un tavolo ricoperto di spazzatura che non osa spostare perché ci potrebbe essere un piccolo assegno, là sotto. Il nostro recensore ha cominciato la sua carriera inesistente come ogni vero letterato, tutto grandi speranze e nobili aspirazioni. Però gli tocca subito sprofondare nelle condizioni dello sbozzatore. Ha imparato il trucco per recensire tutto, anche libri che non può sperare di capire. Guadagna due soldi ed è improbabile che guadagni encomi di merito per servizi resi allo stato della letteratura. I servizi di recensione non sono riconosciuti né da Buckingham Palace né dall’ufficio del Primo Ministro. Questo deprecabile sorcio, che ancora rosicchia i margini della letteratura, è nobilitato solo per essere una parte di un branco di sorcetti ingabbiati da un qualche editor letterario. O, per esaltare la metafora del sorcio, il nostro è lo sfigato della scuderia dell’editor. E con questa immagine del recensore come “roditore” abbiamo trovato la sua giusta connotazione.
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Aneddoti di un recensore di provincia. Dovevo sfornare un articolo quindicinale su cinque o sei libri trattati con serietà toccando nella coda del pezzo altri dieci titoli (circa). Nella coda si facevano cenni con una frase sola come Tutti richiedono davvero molta attenzione o in modo ambiguo del genere Libro per insonni o magari Un libro che vi mette l’India in capsula mentre vi godete la vostra focaccia indiana. O ancora ricordo una coda che sbatacchiava così: Sesso sulla brughiera Inkle – e voi sarete lì. Quando cominciai a lesinare nel gennaio del 1960, sentii che la faccenda era abbastanza facile. Mi erano arrivati solo pochi romanzi e mi ero dimenticato che capodanno era sempre un tempo morto per pubblicare. Quando l’anno fioriva, così faceva anche il settore invenzione. Vivevo in un piccolo borgo del Sussex e dovevo portare i miei articoli cianfrusaglia all’ufficio postale locale: avrebbero svolto miglior servizio se li avessero usati per tamponare le esondazioni del fiume locale. La paga per quei miei articoli era davvero bassa, se considerate che si trattava di qualche decina di sterline, mentre le ricompense occasionali erano variabili e lì si largheggiava. Ogni lunedì barcollavo fino alla locale stazione ferroviaria, appesantito da due valigie colme di romanzi nuovi. Gli indigeni, gente dalla memoria corta, avranno pensato ogni volta che ero lì lì per separarmi da mia moglie. Queste valigie le svuotavo sul pianerottolo che dava sul retro di Louis Simmonds, libraio sullo Strand. Pagava ogni libro il 50% del prezzo di vendita.
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Dilemmi. Ma i giudizi estetici esistevano dentro le case editrici? Nessuno lo sa con certezza. Nelle accozzaglie della gente che recensivo c’era un nuovo romanzo di Greene o Waugh o Powell o Amis e sapevo quel che andava fatto ma c’era sempre la possibilità che qualche nuovo genio sbucasse dall’angolo. Non si dovrebbe nemmeno osare di sprezzare gli altri, anche se ci sono stati esempi lampanti di questa disattenzione negli annali dell’editoria letteraria. V.S. Naipaul mi disse che il suo primo romanzo, ora ritenuto classico, non aveva avuto alcuna recensione. Il quarto che scrissi non riuscì a farsi notare dai molti domenicali sul mercato e allora dedussi che fosse una congiura. Probabilmente era così. Se esaminate gli archivi dell’ora defunto Punch per il 1922 troverete recensioni di Sheila Kaye-Smith e Ethel Mannin ma niente per Ulisse o Terra desolata.
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Una voce nel deserto. Ero diventato in un certo senso refrattario e scagliavo le mie recensioni in quel che pareva un grande silenzio. Nessun lettore replicava mai alle mie recensioni, ricevetti solo una lettera da un lettore del giornale e si trattava di una signora esperta di orticoltura la quale rispondeva al mio rilievo incidentale secondo cui le orchidee britanniche non hanno profumo. Lo hanno eccome, sa mi scrisse, elencando molte varietà di profumi. Questo non aveva nulla a che vedere con la letteratura. Incappai nell’abitudine di gettare giudizi insostenibili addosso miei presunti lettori, dicendo per esempio che Barbara Cartland era assai influenzata dal monologo di Molly Bloom nel finale di Ulisse o magari che uno poteva scorgere l’impatto di Charles Dickens su Lawrence. Arrabbiato per i silenzi calmi e mai rabbiosi, decisi di sollevare qualche interesse recensendo un mio libro. Qui c’era un precedente: quel che Walter Scott aveva fatto per Waverley in un lungo articolo su Edinburgh Review e non era stato sferzato da nessuno una volta scoperto. Bisogna dire qualcosa sulla concessione fatta al romanziere di render nota la sua opera: ne conosce le colpe meglio di un lettore casuale, e perlomeno ha letto il libro. Pubblicai quindi un romanzo, Inside Mr Enderby, che avevo affibbiato a uno pseudonimo e lo recensii con un articolo discretamente lungo sul giornale, indicando come quel lavoro fosse osceno e sostanzialmente zozzo, allertando i lettori contro di esso. Un colonnista di gossip di Daily Mail raccolse il mio atto di esortazione immorale e lo riportò allegramente pari pari. Fui attaccato dall’editor del mio giornale su Yorkshire Television e mi furono fatte dare le dimissioni su due piedi, forse anche giustamente. Ma in quello stesso tempo avevo scritto per Observer un articolo in cui notavo i nuovi libri di Naipaul, Iris Murdoch e Brigid Brophy. Il tutto non si poteva pubblicare perché non ero più fededegno e poteva darsi il caso che fossi io volta per volta uno di quegli autori, mascherato da Anthony Burgess; di più, poteva essere una mascherata lo stesso nome di Anthony Burgess.
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Malizia o cinismo? Tornando al tema malizia. Nel suo saggio sul recensore, Orwell fa un rilievo molto astuto: la maggior parte dei libri non lascia alcuna impressione sul recensore e di qui proviene una sua attitudine al libro che deve essere artificiosa. Si deve fabbricare un sentimento verso qualcosa che da sola non lo suscita. Di qui la congiura di un’attitudine verso l’autore o l’autrice, giacché il libro ha fatto perdere del tempo: e potrebbe essere malizia. Personalmente, la esibisco molto raramente: la mia attitudine generale verso ogni libro, per quanto cattivo, è di una vaga simpatia. Scrivo libri anch’io e so bene quanto lavoro serva per formare un autore; di qui simpatia, e probabilmente non è giornalismo. Ma posso capire perché alcuni recensori sviluppino una simile attitudine quando sia dato loro un libro che potrebbero fraintendere o che li annoierà durante la lettura.
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Arnesi in pelle. Quando nel 1960 elaborai un romanzo che trattava del proletariato londinese fui rimproverato da un giovane recensore di Oxford per aver usato il termine kinky (perverso) – terribilmente desueto. Infatti era giunto alla ribalta l’arnese erotico in pelle e la parola stava tornando in auge e io anticipai di poco il trend. Queste seccature sono semplici punzecchiature, ma tutte insieme fanno sentire l’inizio della malaria.
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Le Carré bocciato. Quanto agli americani, le cose vanno diversamente. New York Times mi mandò un romanzo di spionaggio abbastanza noioso di John le Carré, dicendomi: Come privilegio speciale, siamo pronti a offrirti 2000 parole per dimostrare che è chiaramente un libro importante. Mandai 400 parole, che era più o meno quel che il romanzo si meritava. Mi guardarono come avessi insultato il gusto e l’acume dell’editor: l’autore, al solito, non importava. Se si deve continuare col detestabile artigianato della recensione, detestabile ma necessario, si deve mantenere l’integrità. A un libro, per quanto cattivo, va accordata simpatia perché è qualcosa difficile da produrre. Non vi è agonia simile a quella della cattiva scrittura. Il bravo editor la apprezza ed è buona cosa per lui confrontarsi quotidianamente con la peggiore agonia di provare a scriver bene, o perlomeno di tradurre bene.
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L’editoria italiana? Un macello. Scrivo abbastanza regolarmente per il prestigioso giornale nazionale italiano, Il Corriere della Sera. Ho dato una sbirciata a cosa va in stampa adesso: ho visto una nuova edizione di Svetonio e un nuovo compendio di Mickey Mouse – Topolino in Italia. Erano sulla stessa carta da stampante; presumibilmente più tardi sarebbero stati spezzati in via chirurgica lungo la spina dorsale. La totale indifferenza della macchina era quel che sbigottiva. Finché la stampante va, lasciamo andare in stampa tutto. Il vero orrore insito in questa pletora è la disponibilità di libri, come per ogni paccottiglia. I libri devono apparire, ma devono anche essere distrutti per lasciare spazio agli altri. Tenere un libro in stampa è maledettamente difficile. Noi conservavamo l’ingenua convinzione che se un libro è di valore si terrà in vita da solo, sconfiggerà i forni e il distruttore di documenti e i riciclaggi e, essendo il prezioso sangue vitale di uno spirito sovrano, continuerà a circolare e nutrire il corpo della civiltà. Ma non è così.
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Questa è vera critica! Uno dei compiti del letterato non è tanto conservare i grandi libri, o quelli di valore, quanto resuscitarli… The rack, di Ellis, è un romanzo che quando apparve fu considerato superiore alla tubercolosi di Mann e de La montagna magica. E apparve nel 1961 ma non se lo ricordano neanche gli editori. Che dire al riguardo dei romanzi di Rex Warner, William Sansom, H.G. Wells, che alcuni di noi impongono a un nuovo pubblico con delle prefazioni elogiative? Respirano ancora ma brevemente, poi ripiombano nella dimenticanza.
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E se proprio volete una morale… Nel frattempo il flusso continua – biografie, resoconti di vita provenzale, libri di storia secondo le femmine e libri di storia secondo i maschi, libri su fianchi e cosce, ricettari di cucina curda, brevi compendi di storia mondiale. L’editor che si trova davanti la sua valanga quotidiana deve scegliere e spesso lo fa malamente. E in fin dei conti questo non conta. Quel che leggeremo domani, lo bruceremo… La scossa del nuovo libro, lindo e scintillante, fresco di stampa, sostiene sia il recensore che il suo artefice. Come la scossa dell’incontro sessuale, non dura ma la si può rinnovare. E c’è sempre la speranza di un capolavoro. Ecco perché andiamo avanti. Pure, dovrei concludere su una nota meno cinica. Niente, in vita mia, tranne l’amore di una donna per bene, è stato più importante dei libri. Lo scrittore è spinto dal suo desidero di raggiungere l’onore ed essere parte degli altri spiriti magni. Orgoglio e umiltà convivono nella vita dello scrittore. L’editor e il suo recensore sono agenti ancillari della sua convinzione che nulla sia tanto importante quanto la scatola magica il cui acronimo è L.I.B.R.O. Potrà anche essere una convinzione folle ma è la stessa che sostenne la nostra civiltà nel passato e, a dispetto delle nuove tecnologie e dell’omogeneizzazione dei valori, è inverosimile che venga rimpiazzata da nuovi modi di comunicare tra spirito e spirito: sempre che si diano ancora per reali gli spiriti. Noi abbiamo queste usanze. E qui si chiude nostro caso.
Anthony Burgess (1992)
* traduzione di Andrea Bianchi, primavera 2019 Milano