Gianluca Barbera è un asso, è davvero – lo ripeto a costo di marmorizzare il vento in noia – l’Orson Welles della letteratura italiana contemporanea. L’articolo uscito da il Giornale ieri – e ricalcato per comodità di lettura qui sotto –, sotto il titolo “Il miglior complimento che si possa fare a un autore è comprare il suo libro”, ne è un esempio. Barbera riesce a trasmutare una ferrea ovvietà nell’oro della provocazione.
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Cosa dice Barbera? Riassumo in modo barbarico. Primo: che uno scrittore scrive per poter continuare a scrivere, per fare della scrittura la propria vita; perciò: scrive per vendere. Secondo: gli scrittori nostri, per consuetudine, per educazione, per buona famiglia, si vergognano di fare i mercanti delle proprie opere. Hanno una idea schifiltosa del gesto letterario, magari sputtanano D’Annunzio ma sono i Vati di sé medesimi, altezzosi rampicanti dell’ego, predicano bene ma vaticinano male. Francescani dell’ovvio, gli scrittori nostri non vogliono parlare di soldi, notoriamente la merda del demonio – eppure, di solito, se scrivono davvero e non per hobby, sono poveri in canna.
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In effetti, appena ti metti a scrivere hai venduto l’anima al diavolo, che si nasconde nei sotterfugi dell’interpretazione, nelle catacombe delle incomprensioni. Vendere, al contrario, è la cosa più trasparente che c’è: ti do una cosa in cambio di altro.
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Quanto a me, terminata l’opera conta solo il denaro sonante. Per questo m’incazzo con i fautori del Premio Strega: cosa m’importa della diretta Rai se scuci solo 5mila euro? Ne preferisco 50mila, senza tivù.
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Barbera dimentica però – volutamente – un aspetto che differenzia il gesto letterario dagli altri (musica, arte pittorica, cinematografica etc.). Per funzionare, un libro deve essere eccellente dal punto di vista della forma – ma deve anche contenere qualche libbra di carne dello scrittore. Un libro è carne. Viene estratto dal corpo dello scrittore come un cubo di sangue – e le parole sono l’algebra con cui l’uomo descrive la propria anima, il dentro, l’oscuro. Per questo lo scrittore, a cui l’opera, terminata, non appartiene più, è una parvenza, è pur sempre incatenato a ciò che ha scritto. Questo scatena tre reazioni (almeno):
1. Ansia suicidale. Lo scrittore ha l’insano desiderio di uccidersi scrivendo; e di uccidere il proprio libro una volta scritto (meccanismo sadico subdolamente noto agli editori che sfruttano gli scrittori scucendo anticipi imbarazzanti);
2. Titillare il fato (cioè: essere il laringoiatra di Dio). Allo scrittore piace, diabolicamente, sfidare il destino. Lancio un capolavoro sull’onda dell’oceano, lo abbandono, è il mio lascito di rischio: vediamo cosa succede;
3. Aristocrazia spudorata (cioè: fragilità all’eccesso). Lo scrittore non ha problemi con i soldi, ma con gli umani. Vuole i soldi, non desidera il rapporto con i lettori. Cosa volete da me?, leggete ciò che è scritto e non rompetemi le palle.
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La vanità è medusa vorticosa. Lo scrittore vorrebbe essere riconosciuto per strada, che ogni passante reciti a memoria i passi salienti e salubri dei suoi libri, che anche le pietre s’inchinino al suo passaggio. Atteggiamento corretto, retaggio del potere magico della parola, quando ‘dire’ significava dare vita e ‘parlare’ voleva dire evocare i morti. Per lo scrittore è un dato di fatto che sia noto, riconosciuto, che lo debbano ricoprire di denaro. Per questo, non s’impegna nella vendita porta-a-porta dei propri libri. Egli ha il verbo in dote, del portafogli vuoto come un baratro in forma di barrito non si occupa. S’abbandona alla lascivia del caos. (d.b.)
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Il miglior complimento che si possa fare a un autore è comprare il suo libro
Si discute spesso del rapporto che intercorre tra qualità e copie vendute di un libro e del rapporto autori/lettori/editori/vendite. Da tempo immemorabile gli scrittori si azzuffano attorno a questo interrogativo: quando si scrive un romanzo si deve pensare ai lettori o no? E a quali lettori? E se si pensa ai lettori non si corre il rischio di annacquare l’arte? E così via.
Posto che non si è mai visto (ma potrei essermelo perso) un pittore che dipinga un quadro perché nessuno lo veda, un musicista che scriva una canzone perché nessuna la ascolti o un architetto che progetti una casa perché nessuno la abiti (potrebbero essere lo spunto per un romanzo). Posto tutto questo, dicevo, mi pare ovvio che uno scrittore scriva per essere letto, e dunque se non per il pubblico di oggi quantomeno per quello di domani.
C’è però un’altra cosa che mi sorprende. Da parte degli autori noto spesso un imbarazzo nel chiedere ai lettori di comprare il proprio libro o nel parlare delle vendite dei propri libri. Come se fosse una cosa sporca, che macchia l’arte, la propria integrità. Alcuni si spingono a dichiarare di non dare nemmeno un’occhiata al rendiconto vendite. Certo, anch’io spesso ho il terrore di sbirciare il mio estratto conto bancario, potrebbe venirmi un colpo. E poi c’è sempre il timore di sentirsi additare: se vendi molto, ti sei venduto l’anima al diavolo; se vendi poco, sei un invidioso. Così va il mondo. Naturalmente i libri che vorremmo leggere sono molti e non possiamo leggerli tutti né comprarli tutti. Qualcuno dirà: per fortuna ci sono le biblioteche, ma la verità è che molti libri non è facile trovarli nemmeno lì. Senza contare che certi libri li si vuole tenere sempre con sé. Vorrei inoltre ricordare che scrivere è anche un mestiere e da un mestiere si spera di ricavare di che vivere. Dunque non c’è nulla di male nel darsi da fare perché il proprio libro venda il più possibile. Anzi, è quanto di più naturale. Ovviamente se si è ricchi di famiglia o si fa un altro mestiere il problema non si pone, almeno in parte (esiste sempre una cosa chiamata ‘vanità’). Ma pochi sono ricchi di famiglia (mi verrebbe da dire ‘per fortuna’: parafrasando Fellini, se fossi ricco probabilmente non muoverei più un dito). E chi ha un altro mestiere spera sempre di poterlo abbandonare per dedicarsi con più intensità alla scrittura. Da ragazzo conoscevo un grande pittore che abitava in piazza San Pantaleo, a due passi da piazza Navona. Insegnava all’Accademia di belle arti e dipingeva enormi tele piene di macchie di colore che mi incantavano. Non vendeva tanto, ma abbastanza da permettersi una vita senza assilli economici. Molti venivano a trovarlo nel suo atelier per parlare di arte e tutti finivano per riempirlo di complimenti: i suoi quadri in effetti non lasciavano indifferenti. Un giorno mi disse: “Il miglior complimento è quando uno mette mano al libretto degli assegni e si porta via un mio quadro”. Ricordo che pensai che fosse un pensiero pretenzioso, ingiusto, molto snob: in fondo i suoi quadri costavano parecchio e non tutti avrebbero potuto permetterseli. Non ho cambiato idea. Però l’insegnamento che vi è dietro credo non sia sbagliato. Il miglior complimento che puoi fare a un autore è comprare il suo libro. Anche perché dopotutto i libri non sono poi così costosi. Una volta ebbi uno scambio di battute un po’ velenose con un tizio in una libreria che si lamentava del prezzo dei libri. Gli feci notare che una cravatta costava di più senza darti nemmeno un millesimo (e mi tenni basso) di quanto ti può dare un buon libro (naturalmente non ti procurerà nemmeno un millesimo dei problemi che può causare un brutto libro). Se ne andò offeso. Ma per tornare al punto: i libri che vorremmo leggere sono tanti e non possiamo comprarli tutti. Vero: tocca fare delle scelte. E allora bisogna drizzare le antenne. Guardatevi attorno: ci sono libri che brillano, lo si vede subito; o che scottano, lo si avverte non appena li si prende in mano. Libri unici, diversi da tutti gli altri; libri dalla cui lettura si esce un po’ cambiati o come da una grande avventura conoscitiva. Ecco, io mi sono quasi sempre orientato così: per tutta la vita non ho fatto che andare in cerca di libri fatti in quel modo: di rose del deserto, di stelle alpine, di animali fantastici; di letture da cui uscirne con gli occhi sgranati, la mente un po’ sconvolta. Ecco perché vale la pena leggere certi autori e non altri. Ma ciò che più conta: non fatevi manipolare, non assecondate le mode. Sembra una raccomandazione banale ma non lo è, se pensate a come procede il mondo. Siate autonomi nella scelta dei libri che acquistate o leggete. Non lasciatevi condizionare troppo dalle classifiche (anche se per fortuna talvolta qualche libro superlativo finisce ai piani alti), dalle campagne stampa; non permettete a nessuno di farvi diventare gli ignari strumenti delle logiche di potere e delle strategie editoriali orchestrate alle vostre spalle; non fatevi abbagliare da ciò che suggeriscono i più prestigiosi premi letterari. Insomma, non lasciatevi trasformare in burattini. Ragionate con la vostra testa, andate in cerca di ciò che fa per voi, di stradine secondarie, di sentieri di montagna, di crepacci, di abissi marini, di piste carovaniere. Leggete solo le recensioni dei critici che ritenete più in gamba e sufficientemente liberi (la libertà assoluta non è di questa terra). Ma soprattutto, lo ripeto: non lasciatevi mai dire dagli altri cosa dovete fare. Chi lo fa agisce spesso nel proprio interesse. E poi, se vi guardate dentro, credo troverete molte più risposte di quanto immaginiate.
Gianluca Barbera
*In copertina: Henry James quanto si impegnava a vendere i suoi capolavori?