Vorrei parlare dell’ungherese Sándor Márai usando due pezze d’appoggio: la sua opera, la sua vita.
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Si pronuncia Schandor, come Alessandro, diceva l’ungherese castana appena arrivata a Londra, due occhi come uno scudo di bronzo. Era contenta, più che stupita, che al caffè di Marble Arch qualcuno facesse il nome delle Braci, Embers in inglese che è testo sacro nelle scuole ungheresi. Mi disse di fare attenzione che il titolo originale è storpiato nelle traduzioni: Le candele bruciano fino alla fine.
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Le braci è uno dei cinque testi Adelphi più venduti di sempre. È nella hit dei libri di successo ma non per le ragioni che hanno fatto la fortuna di chitarronate come Siddharta o altre leggerezze dell’essere (con relative introspezioni colonscopiche). Le braci è teatro, un dialogo impossibilmente lungo per i canoni del realismo che sta con l’orologio in mano, un alternarsi di due voci tese mentre i sigari dei colonnelli ungheresi scorrono davanti alle immagini di tradimenti impossibili, di tradimenti scampati. Dolore anche solo a leggerle, anche senza che uno sapesse cos’è la vita fuori dalla finestra.
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A breve, il 21 febbraio, ricorre l’anniversario della scomparsa di Márai. Come direbbero i greci, fu una “morte violenta”. Si sparò in California nel 1989, andava per i novanta ma non riusciva a sopravvivere alla morte della seconda moglie. Questo autore mi ha stupito inizialmente, devo dire, perché era stato un consiglio a mia madre di un collega col mio stesso nome che morì in incidente di moto lasciando dietro di sé una moglie fortissima e due figli stupendi. A volte procediamo così, in modo irrazionale. E scaviamo…
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Prima pezza d’appoggio per parlare di Márai. Le opere a catalogo Adelphi. In Italia la casa di Calasso ha fatto la parte del leone (salvo un racconto di viaggio negli USA che fece Mondadori). Sciorino qui il resoconto dei titoli.
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Il macellaio è la solita primizia giovanile raccolta in archivio giusto per pubblicare il nome.
Volevo tacere è invece un resoconto vitalistico, alla Spengler, di come l’Ungheria andò sotto l’invasione dei nazisti interni. Anche questo incartamenti dei primi anni Quaranta è stato recuperato in archivio a Budapest dopo la fine del comunismo (o socialismo reale che dir si voglia).
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Più che nei saggi, però, Márai va forte nel racconto. Meglio quindi, per gli anni della Seconda guerra, Liberazione, una novella sul genere di Grossman. Con tanto di violenze negli scantinati. Non capisco perché si dia ancora tanto brodo a Primo Levi per parlare della cosiddetta “tregua” portata dai Sovietici all’est liberato dai tedeschi.
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Scivolando ancora nel tunnel del catalogo di Calasso, c’è Sindbad torna a casa che è opera della maturità, Márai qui è autore affermato che dipana un vero racconto dei suoi incontri letterari nei caffè degli anni Venti. Senti il passo della Cripta dei cappuccini ma con un’ansia meno funerea.
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Il gabbiano è opera lieve che si dissolve nella memoria del lettore. Forse perché di mezzo ci sono scogli linguistici (l’orribile ceppo ugro-finnico). Lo stesso motivo ci ostacola nel godimento de L’isola e de La sorella che sono lavori di circostanza.
L’isola, poi, è storia di un palco di corna cresciute durante una crociera in Grecia ma vale comunque poco per capire il tema caldo di Marai, il tradimento. La sorella è un viaggio onirico nella Firenze degli anni fascisti.
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Terra! Terra! è opera di autoaccusa. Senti lo scrittore esule dall’Ungheria comunista che punta il dito contro gli intellettuali venduti e lo vedi alle prese con l’autocensura: avrei voluto sapere ‘altro’ anche quando leggevo i libri degli altri. Adesso sentivo di aver scritto troppo. Molte cose sarebbe stato meglio non scriverle. Molte altre forse andavano scritte, ma sarebbe stato più saggio non pubblicarle e lasciarle seccare nel cassetto. Come capita nella vita: vediamo e sappiamo bene, nei momenti cruciali, le molte cose che sarebbe stato meglio non esternare… Ma poi? Ma poi l’istante del ripensamento passa e rimane, con le tante incertezze, i difetti e i peccati, il ‘tutto’ che è com’è perché non può essere diverso. E alla fine siamo responsabili solo del ‘tutto’, i dettagli non contano.
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Il sangue di san Gennaro lo scrisse appena uscito dall’Ungheria. È debole. Márai non riesce a cogliere la vita italiana, figurarsi quella di Napoli. Più che altro sembra che abbia l’Odissea negli occhi mentre parla dei pescatori. Ma trovi alcuni dettagli memorabili come la nobile napoletana che applaude dal balcone il comizio di Togliatti mentre, dice Márai, i popolani si guardano perplessi tra di loro.
Molto meglio, semmai, questa poesia del 1950 scritta a Posillipo. Si sente un morto che cammina per colpa dell’invasione sovietica e il titolo è netto Orazione funebre.
“Sei ungherese, ecco tutto.
Sei estone, lituano, romeno. Ora muto e paga.
Alla fine, che sarà sarà. Anche gli Aztechi sono svaniti.
Un giorno qualche studioso ti riesuma come fossi la testa di cavallo di un Avaro.
Polvere radioattiva seppellisce tutti morti.
Accettalo: laggiù saresti un nemico di classe, una non-persona.
Accettalo: quaggiù sei nulla, una non-persona.
Accettalo: che Dio accetti questo e i cieli selvaggi fatti di bolle
Che illuminando non distruggono nessuno: questo è l’uomo saggio.
Sorridi quando l’aguzzino ti strappa la lingua
E dalla bara ringrazia chi ti seppellisce, se mai ci sarà qualcuno.
Abbi riguardo per i tuoi sogni come fanno gli insani
Coi tuoi pochi sogni rimasti”.
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La cosa migliore ritengo sia il suo diario L’ultimo dono compilato in seguito alla morte della moglie. C’è un accumulo di dolore. Lui che legge dei suoi antenati Unni & Avari nelle storie di Gibbon. Lui che patisce il caldo dell’estate californiana e sente alla radio notizie idiote sugli alieni. In fondo il suo messaggio è qualcosa del tipo: nella vita è meglio dire “fortuna che non l’ho fatto, chissà come poteva a dare a finire” invece del consueto “che occasione che ho perso”. Per il resto i contorni del diario sono aforistici. Impossibile renderlo. Lo depositai in una villa nobiliare sopra Lucca per cercare di far capire cosa è dolore a chi giocava da anni per mestiere col dolore degli altri.
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Forse un capolavoro assoluto c’è, oltre alle Braci. Un romanzo che sia capolavoro anche per dimensioni, per respiro arioso. È La donna giusta. La scrisse in quattro parti tra Europa e New York. Ha il piglio espressionista, uno stile “tutto cose”. E poi una pagina indimenticabile dove la protagonista dice Un giorno mi svegliai e non sentivo più dolore. Come se una scheggia di luce attraversasse la stanza. Avevo capito che la persona giusta non esiste, perché nella vita ci sono solo le persone, ognuna col suo carico di luci e le sue ombre. Vado a memoria ma la traduzione andava grossomodo così.
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Dopo il successo iniziale delle Braci Adelphi pubblicò Márai giovane. Le Confessioni di un borghese, la storia del cagnolino Truciolo e Divorzio a Buda sono comunque deboli. Le memorie ci raccontano della sua prima compagna. Un amore improbabile, un’attrice con la quale viaggiò in Europa. Poi la storia del divorzio, un incubo.
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Stesso discorso per i libri di genere. I ribelli fa parte di un ciclo che Adelphi non ha ancora tradotto nonostante le promesse. Storie stanche alla Kormendi. Nulla di straordinario. Anche La recita di Bolzano rientra in un cliché austroungarico e precisamente nel filone di Schnitzler. L’eredità di Eszter invece è da regalare a una ragazza ungherese se la conoscete, ma non per i fini che pensate…
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Questa carrellata voleva essere una testimonianza di affetto per un autore che una volta scrisse che abbiamo tutti un infinito bisogno di tenerezza. Un autore buffo, Márai, che fece incazzare Kafka. Leggete le lettere a Brod e trovate Franz intostato perché questo Márai ha fatto una traduzione non autorizzata della Metamorfosi.
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Un paio di anni fa scrissi a Márai. Volevo dirgli che aveva cercato di dare un nome a ogni cosa, a ogni sentimento. Gli dissi che si era dato un obiettivo impossibile. Lo credo anche adesso…
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E ora qualche dettaglio su Márai spulciando un articolo del Los Angeles Times. Márai morì laggiù, un pomeriggio che nella casa di san Diego la domestica non veniva ad aiutare. La nipote americana Jennifer racconta al giornalista del LA Times che per il suo compleanno del 1988 lui le diede tutte le sue enciclopedie, più una mazzetta di 400 dollari. Se li tennero quasi tutti i genitori.
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Nel 1985 se n’era andata sua moglie Ilona per un cancro. A seguire una sventagliata di mitra del fato: muoiono i suoi due fratelli, la sorella e, a soli 46 anni, un figlio. Ogni volta Márai andava con Jennifer a disperdere le ceneri sul Pacifico, a La Jolla. Avrei voluto mettere le mani sulla lettera finale di Márai a un conoscente dove scrive di non aver più pazienza con la vita. Non si trova.
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In compenso c’è un florilegio di poesie a disposizione del lettore anglofono qui e qui. Ora però siamo su pianeta Pangea e la dottrina bibliografica con annessa storia dell’autore possono anche interessarci, ma non bastano. Perciò ecco la vera pezza d’appoggio: le sue poesie.
Andrea Bianchi
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Canzone della svestizione
Ora ti dico questo, tutto insieme. Ché è precisamente il segreto pesante e doloroso
Del nostro contratto: tempo verrà che dovremo lasciare ad altri la responsabilità –
Non solo l’amicizia o il denaro o il silenzio
E nemmeno soltanto i treni roboanti o i paesaggi che ti portai a vedere,
scene remote quando coi tuoi occhi più grandi di quelli di una bambina
già ti volgevi indietro a considerare la nostra vita – di mezzo c’erano migliaia di kilometri –
e guardavi la vita come un’avventuriera che fissi lo sguardo fuori dal finestrino del treno.
E vedevi piccole pecore brucare, le loro vite minuscoli e i loro sorrisi gentili
E noi si andava oltre a cercare un posto dove mangiare, un hotel.
E quanti hotel, quanti paesaggi, quanta gente, cara…
Come un viaggiatore nervoso che cerchi il suo piccolo portafogli, anch’io troppo spesso ti seguivo, allarmato. E alla fine ci dicevamo tutto.
Anche imparammo a tacere. La notte poteva piombarci addosso
E ombre gigantesche dividerci, le ombre degli alberi selvaggi. Quindi ci svestivamo,
mai toccavamo le parole. Ché c’era sempre un resto nei conti tra noi, la modestia delle nostre parole. Il mantello complicato del silenzio: non eravamo poeti
e non andavamo tra le parole perché ne avevamo paura – eccome se ne avevamo paura:
erano parenti nostri, le conoscevamo! E ora mi svesto del tutto di queste parole molto pesanti e alla fine c’è il nudo. Ecco perché pronuncio con timore:
parole che sono bolle pronte a esplodere, ad accecarci come i grandi fuochi
senza nome che la natura accende di notte per caso
e nudi ci accoccoliamo tremando, ché è scuro e freddo –
mia amata.
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Madre
Quale mano segreta spinge a scrivere:
il tessuto del tuo viso raddolcito
è un pezzo di scrittura annodato che va sparendo;
lo fisso e le sue lettere incominciano a cadere al posto giusto:
cosa vi hanno inscritto gli anni e la vita?
Sono io, il mio fato, addirittura,
questa linea sottile sul tuo sopracciglio:
perdonami,
fato non è ciò che scelsi ma quel che venne in essere;
ma ora quale fato sto osservando, il mio o il tuo?
Non so, ti dico.
Nelle camere ogni notte, davanti a specchi sempre nuovi
mi fermo, irrisolto:
guardami madre,
guarda i solchi sul viso ignoto di tuo figlio
già assomigliano ai tuoi, così simili
e – quando si vestono, quando vanno a pezzi e crollano –
entrambi i nostri corpi lentamente si mutano in polvere –
un corpo solo, stessa polvere, argilla madre.
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Credo (quia absurdum)
Credo in una creazione, la mia vita: questa, io credo. Credo nella predestinazione,
nella mia predestinazione: me stesso. Credo in un mondo
e in un uomo che si appartengono. Credo nella meraviglia dolorosa
dei poeti, nella sorpresa che mi portò in vita, credo che l’esistenza
mi abbia offerto la sua accettazione. Credo nelle persone perché devo credere
di esser parte di loro. Credo nella gioventù che è canzone felice
sopra le acque. Credo nell’infelicità ansiogena degli uomini che sono alla ricerca;
credo nell’amore rabbioso delle donne che è come gli attacchi degli animali,
credo nella morbidezza del loro gesto quando si portano il neonato al capezzolo turgido
e piegano la fronte asciutta sopra di lui. Credo nella consequenzialità inflessibile degli oggetti,
nella legge primordiale delle linee, nella rapida ed eccitante varietà dei colori,
nei legami delle parole, misteriose trappole di verità,
credo nelle mani belle e negli occhi degli animali.
Credo nella forma interiore della materia eterna e nascosta,
credo nell’aria distinta dei gatti viziati e nella bontà dei mari.
Credo nella bontà e nella dolcezza dello stupido diavolo avaro che si rallegra per le difficoltà altrui.
Credo nel mite aroma di incenso della semplicità,
nell’odore di sangue dei crimini, nella pietà a costo zero dei sentimentali.
Credo nelle nuvole e nei balzi della stagione che cambia;
credo nelle astuzie delle donne nelle capitali che fanno come le puttane e ti prendono al laccio,
credo nell’arroganza del denaro che ti dà sempre e ancora sicurezza.
Credo nelle code tristi in tempo di guerra, negli incantesimi degli svenimenti
Quando le donne al mattino hanno le mestruazioni e sono costrette a letto,
credo nel respiro speziato delle piante tropicali,
nella spinta dei poteri mondani che inseguono le stelle. Credo nella povertà infinita che è senza rimorsi e puzza di umanità. Credo negli elementi e in me stesso.
Credo in chi sa credere da naif. Credo in una vita, vita,
vita: ora e poi per sempre.
Sándor Márai
*traduzione di Andrea Bianchi