21 Febbraio 2025

Tra gli Smiths e Ted Hughes, ovvero: lettura notturna con predatore

Quando ascolto gli Smiths sento l’urgenza di tornare a Ted Hughes. Non so quale sia la connessone; un sito ha impilato le influenze letterarie del gruppo: Morrissey ha citato, lungo l’arco bio-discografico, Auden e James Baldwin, John Betjeman – parecchio – e le sorelle Brontë, Charles Dickens e D.H. Lawrence; amava Oscar Wilde. Tra i contemporanei, spicca nella sua costellazione la drammaturga Shelagh Delaney; non c’è traccia di Hughes. 

In effetti, è un’associazione tutta mia, spuria, livida, quella tra gli Smiths e Ted Hughes: in entrambi, il poeta e il cantautore, scorgo la notte, il patto di sangue, una corsa a sfracellarsi. 

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Così: sfioriscono nella stanza a precipizio sul bosco gli Smiths e afferro Ted Hughes. Se leggo Ted Hughes crescono gufi al castagno; gemmano i nobili predatori. Apro a caso il ‘Meridiano’ che raccoglie le Poesie. (Hughes, poeta-sciamano, poeta-oracolo, va aperto affidandosi al fato, come si smuovono le pietre, come ci muovono le stelle). La poesia s’intitola Snow smoking as the fields boil; fa così:

“Il toro piange.
Il trogolo si solidifica.
Il fagiano ha scordato le sue figlie.
La volpe attraversa il campo, incurante di assoluzioni.
I ramoscelli non possono pagare gli interessi.
I tetti delle fattorie riaffondano nel ribollìo, come una coda di balena.
Le pecore svaniscono umili. 
Il gufo grida prima del tempo, venendo meno alla parola, mentre i ghiaccioli oscurano le prove”. 

C’è una data. 8 febbraio 1975. Nasco quattro anni dopo. Due giorni dopo, quell’anno, mio padre compie 26 anni. Si era sposato da poco – Milano, l’etimo dell’impegno, il grigio che svolta in ira, la nebbia che impone un Nepal al cuore, il desiderio di un Dio, cioè di una finestra aperta, una fuga. 

Specie di atto incantatorio: il poeta nomina le cose, le accarezza, perché accadano, ancora & ancora, veraci nel ferino, fertili. Che noia i poeti carcerati nel proprio io, che auscultano i sintagmi del loro lirico intestino, un cuoricino pulcino, glabro; finalmente un poeta che guarda il mondo e si immonda del mondo, s’incanutisce nella bestia, canta all’aria, con gola pagliaio, genitrice del fuoco. 

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La raccolta da cui è tratta la poesia è tra le meno note di Hughes. Moortown esce per la Faber nel 1979, il mio anno, raccoglie testi scritti, in sostanza, tra il 1973 e il 1976 – la maggior parte delle poesie reca una data in calce, ma le poesie sono distribuite senza rispettare la cronologia. È un diary schizoide, scombinato, perché il tempo dell’uomo non è lineare, ha levature e levità, buchi, forre, errati ritorni – a chi non è mai capitato di rivivere, più volte, in anni disparati, quello stesso giorno di anni fa? Cambiano i connotati – non gli atti. Ci sono giorni-totem, nell’esistenza di ciascuno, che fanno ritorno, di continuo – alla porta, nella tazza, in forma alpestre o assoluta – con la maschera. E a noi tocca, continuamente, smascherarli, frantumarli, questi giorni di porcellana, questi giorni-Idra che più decapitiamo più ricrescono, vigorosi come un prato, pronti a divorarci. 

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Nel 1973, Hughes aveva acquistato una fattoria, Moortown Farm, nel Devon, presso il Dartmoor. Andava a caccia nei boschi, camminava nel greto del rio, si occupava di bestiame. Osserva il lavoro nei campi di Jack Orchard, “un archivio ambulante di sapere pratico e intelligenza”; ama il modo in cui quell’uomo forma ed è conforme alla natura. Tre anni prima ne aveva sposato la figlia, Carol, infermiera, ventenne, “è in parte zingara – Orchard è un cognome zingaro dell’Ovest. L’ideale per me”. Sarà – sulla carta – la donna definitiva di Hughes. La reclusione è salutare: configgere il verbo umano ai fianchi della bestia, parlare – come Mowgli, il Pan kiplinghiano – le lingue delle fiere, dei fanelli e dei fiumi. Oh, sì, il sogno arcano di Hughes: una poesia in grado di ammassare le nubi e di solleticarle alla pioggia; una poesia che sappia sanare le ferite – e infliggerne. Una poesia che sigilli i morti nella morte – mentre i morti, impoeticamente, vertono a visitare i vivi, mane e notte, ad assediarne le scelte. 

A volte, ospitava gli amici. Seamus Heaney, uno dei rari avventori a Moortown, rileverà la fattoria alla morte di Hughes. 

La prima edizione del libro è magnifica, al veleno: un enorme serpente, addobbato di nodi, si erge, in attacco, sulla copertina; ha la bocca aperta, con denti, la coda che si biforca; cover verde, titolo e autore in rosso. 

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A volte i libri ti predano, così, senza che tu possa farci nulla – e tornano, di nuovo, come una freccia nel fianco, sempre loro, come la coscia di Zeus che si apre in vigna e in nottola. 

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Alcuni poeti evocano, altri invocano – i rari, semplicemente, sibilano. Ronzio che obbliga a snidarci – almeno per un attimo, almeno di petto, per un belato istante –, a indovinare la via entro quella giostra di lampadari a bucranio. Sono poeti che aprono a un futuro di astri e di frasche; urge cambiare nome – non ci fanno capire qualcosa di noi, mostrano tutto ciò che di inaudito, di tremendo è fuori di noi. L’io è un carapace inetto, ora; è manopola cava, un flauto. 

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La monotonia – stesse bestie, alberi, cieli; un corvo ovunque –, nei poeti come Hughes, preadamitici al canone, è da primo giorno del mondo – hanno le labbra tumide, tali poeti; fresco, al tuorlo, è un qualche dio, primevo alle offese. Amare ha la virtù dell’uccidere. 

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La prima poesia di Moortown s’intitola Pioggia:

“Pioggia. Alluvioni. Gelo. E dopo il gelo, pioggia.
Tamburellio monotono sul tetto. Pioggia spettrale che pulsa attraverso boschi nudi-viola,
come luce attraverso un’acqua gonfia. Mista a nevischio. 
E i poveri campi, misere tende fra le siepi. 
Un altro mondo di pioggia-nebbia. […]
Rospi attraversano a balzi le strade martellate dalla pioggia.
Lì ogni mutila foglia pare un ranocchio o un topo infradiciato.
Il bestiame attende sotto groppe annerite. Noi stiamo piantando pali”. 

Trama di parole intraducibili – es. mist-rain off-world – ove non c’è nulla di realistico, di ‘realizzato’: il ritmo è da rito imbestiato, da formula magica. In quegli anni, per Peter Brook, Hughes lavorava a traduzioni e a riduzioni del Canto degli uccelli, il poema sufi di Attar. 

La data apposta a Pioggia mi spiazza. 4 dicembre 1973. Mio padre sarebbe morto sedici anni dopo, scegliendo quel giorno, tra i tanti. Quel giorno invece – il 4 dicembre del 1973 – chissà cosa avrà fatto. Studio. Vagabondaggi. Missioni dell’anima – anima-missile. Due mesi prima era scoppiata la guerra del Kippur. Augusto Pinochet aveva rovesciato il governo di Allende. Nixon travolto dal “Watergate”. Agli Oscar trionfa Il Padrino. I Pink Floyd pubblicano The Dark Side of the Moon. Nel 1989, l’anno in cui muore mio padre, Ted Hughes esce con Wolfwatching. Già: c’è chi vive in perpetuo avvistamento dei morti, che scollinano, in camera da letto, come lupi.

Spesso, a sera, davanti ai fari, leonini, una volpe passa da campo a campo – si tuffa, si direbbe, e il rombo dell’auto le pare un attracco su Marte. 

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Gli uccelli fischiano, in serie, al mattino, quando è ancora buio – una peluria di luce è a mala pena visibile. Se non ci fossero gli uccellini, lattaioli della luce, il sole non sorgerebbe. Ma è di notte che accadono i più prodigiosi atti di predazione. Mentre dormiamo, qualcuno è in ascolto, in assalto: dà gusto, alla fiera, sorprendere l’animale, succulento, assiso nella tana – sicuro. È l’inatteso: una gorgiera di zanne. 

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