Poco è da dire sulla vita in superficie di Pierre Chappuis. Nato in Svizzera, a Tavannes, nel 1930, in gennaio, è morto tre giorni prima del Natale del 2020, a Neuchâtel, dove ha insegnato, al liceo locale, letteratura francese e storia, per quarant’anni. Il papà fabbricava orologi; Pierre ha studiato a Ginevra. Dicono che insieme a Philippe Jaccottet sia uno dei poeti svizzeri in lingua francese più insigni.
Il suo esordio cade nel 1969 con Ma femme ô mon tombeau; dal 1990 lega la sua opera al mitico editore José Corti, come Julien Gracq, di cui, in qualche modo, costituisce l’analogo in lirica. Pierre Chappuis è una sorta di cronachista del paesaggio: le sue fibbie poetiche, tuttavia, dicono l’al di là delle cose, la loro segreta scaturigine – andare al cuore delle cose vuol dire: rialfabetizzarci ad ascoltarne il singolare singulto. In uno dei suoi ultimi libri, Battre le briquet (2018), dice proprio così:
“Sfregare l’accendino – eppure, perché emerga la fiamma dalla pietra focaia, occorre insistere più volte. Tale, nel suo instancabile rinnovarsi, è il nostro attaccamento a ciò che, estraneo o familiare, ci appare nostro, nello spazio di un lampo: le parole, senza poterlo cogliere, cercano l’illusione di un equivalente. Nell’intimo, poesia e paesaggio”.
La parola – a lungo tentata, con profusa destrezza – è un colpo di fiamma, mera imitazione del fuoco. In quello scampanio di lampi le cose sembrano apparirci, appropriate – per poi sparire.
Senza le manie del logoteta del linguaggio, Pierre Chappuis tenta la parola che sappia arpionare le cose, senza obnubilarle. Il principio: il linguaggio fraseggia fraintesi, menzogne. Al poeta – che infrange i tabù e sbriciola i totem – il compito di forgiare nuovi verbi, pur transitori, che ci riorientino al mondo. Di sé – insinuandosi in una tradizione che lega Pierre Reverdy e Jaccottet – diceva, di questa razzia da rabdomanti:
“Nostra sorte: né la chiarezza né l’oscurità, la penombra, piuttosto, la velata trasparenza in vece della pienezza, il luogo della precarietà, del buio: abisso e morte, l’irreparabile, è vero, ma domestico, per così dire”.
Questo lavorare tra gli spiragli – che ha dato esito a libri di sinistro fascino: Distance aveugle (1974; 2000); Dans la foulée (2007); Entailles (2014) – riguarda anche – come ogni scelta estetica – un’opzione etica:
“un’esemplare sottomissione alle cose più umili, di cui viviamo il privilegio – l’alba, lo straripare di sorgive fonti, il volo di un uccello, il profumo di un fiore –, catturate nei dati immediati del tempo, dell’istante, della luce”.
Si dirà: poesia impressionista, ad inseguimento della luce, come Claude Monet. Non so. Qui c’è l’azione di chi opera senza disturbare – per restare indisturbato. Dunque, bracconaggio del linguaggio.
In un libro del 2003, Tracés d’incertitude, Chappuis ha raccolto gli articoli dedicati negli anni ai suoi ‘maestri’. Da qui si rintraccia un suo incerto lignaggio che passa per Reverdy e René Char, per Michel Leiris e Henri Michaux, Yves Bonnefoy e Francis Ponge. Ad ogni modo, ogni studio è un addio, uno svalicare, un lasciarsi alle spalle gli statuari eroi.
Chi predilige le vite avventurose, non ama la poesia, perché dentro un libro vuole stanare l’uomo. L’avventatezza è di tutt’altra pasta: pretende il riserbo, uno stare ai margini per disacculturare la vista, l’occultarsi ai più per primeggiare in devozione. In uno degli interventi più lucidi, Chappuis parla del proprio operare come di
“un lavoro in profondità, in solitudine, come quello del guardiano del faro – né riparo lirico né concentrazione egotista… piuttosto, lasciare che la poesia si scriva da sé, per la forza elementare della parola viva”.
Esigere la parola, allora, nel suo grido primario, nient’altro. Ciò che a occhi velati appare oscuro, è esercizio di rivelazione. Il poeta è a guardia della luce: ascolti la marea, i moti ondosi del linguaggio, perché nessuno si sfracelli contro la scogliera. Non si turbi se infimo è il faro al cospetto della più tenue alba.
Imitare: seminagione di usignoli.
In un testo qui tradotto, Chappuis avvicina il genio del linguaggio a quello del furetto: dietro l’aspetto apparentemente carezzevole, si cela il predatore, audace nello stanare le prede ambite alle oscure tane, dall’avida mente, sinuoso, in grado di intrufolarsi laddove pare esista il gioiello della sicurezza. Siamo noi, il pasto del linguaggio, altro che impasto – e ne sentiamo i denti addosso.
***
Ombra e peluria.
Ostinati pini neri ostili alla pienezza del fiorire estivo, serrati, intruppati in gruppi, tronco scuro e fitto; severo, il loro ordine (rigorosamente, labirinto), mille bronchi secchi, mille gingilli lo embricano nel contrario, azzannano gli emaciati fusti.
Allo sguardo, perfino quello, grifagno.
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Nel più intimo, ferve il basculare a spintoni.
La notte o l’irrompere d’ombra, si rimodella, avvalla a terra, rintana tra le pieghe, si ripiega. Benché presi dal moto, gli alberi posano, non credono allo spostarsi, sul fianco del colle, di chiesa o convento, edificio sormontato da cupole.
Riaggiornare il giorno: il paesaggio o il suo doppio, sfilaccia, appena lo afferri a volo, in voga di voto, lo baci (con colpo d’ala e nei più piccoli dettagli), salutandolo con un grande gesto, come se potessi trascinarlo nella mia corsa.
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Risveglio
Sbriciolato, come il mio sogno (al singolare?), ancora sotto accusa, in arresto brutale, rotto, trascinato senza cerimoniale da barellieri imbarcati a fortuna, la cui unica preoccupazione è tornare alla propria occupazione il più rapidamente possibile.
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Corre, rincorre
Della lingua – è lei, giusto? – come di un furetto ovunque presente – è passato di qui, è andato là – in fuga perenne da chi cerca di catturarla, continuamente in moto, del suo andirivieni (a frammenti) si sa poco, del suo allontanarsi senza destinazione: scompare con la stessa velocità con cui è apparsa, prorompendo, nel silente labirinto del bosco.
È nella sua natura – è la sua ragion d’essere – non avere itinerari fissi – nessuna origine né fine –, confondere le tracce, modellate a seconda degli ostacoli incontrati lungo il percorso, alla mercé del cacciatore o del curioso che la scimmiotta, la delizia, la tormenta.
La lingua, la diversa, la molteplice e libera. Sorge dal nulla, è al nostro servizio, ma è pronta a farci fallire, a tradirci pur di mantenere il suo segreto.
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Insonnia
Bisogno di poesia: continua o in momenti precisi, fissata su un oggetto, sorda, lancinante. Assenza e disappunto, istinto inappagato, terra invano piantumata finché a nulla dottrina si adatta. Come si resta infoiati nelle reti dell’insonnia. Chi ne è vittima: più si dibatte più resta invischiato, più lotta più allontana da sé ciò che cerca di ottenere. In caccia, cercando di cancellare i pensieri, le ossessioni occasionali o meschine, che assiderano lo spirito e occupano la mente, e non fa che ancorarsi ad esse. Si crede libero, ed è al cospetto di uno schermo opaco, completamente nero. Niente immagini, niente di niente, ma nessuna formula per dormire, a meno di non svuotare la mente, e nulla volere e nulla cercare. Il peggio: ne è consapevole ma lotta, il malaccorto, cerca di stabilirsi nell’assenza di veglia (eppure resta vigile), nell’inattitudine all’attesa (eppure, attenda); ma questo tendaggio di attese è senza sorte né oggetto.
Poesia: allora, è ciò che giunge senza preavviso…
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Al limite
Sul limite o quasi: nella nebbia che spezza il sentiero innevato, lì dove troneggiano i frutteti. E oltre: i tetti ancora bianchi che si allontanano, si avvicinano. Oltre: il nulla. Accerchiato dal giorno. Bascula il fianco della montagna: punta al termine, punta alla vetta il canto degli uccelli, schierati alla stessa altezza del sole?
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Cieche distanze
D’improvviso, entro nell’aura dell’inverno (il sole, crolla), una valle che plana serena e racchiusa da alture (la neve, sfera che ruota). Marcio a passo che romba, percorro sentieri bordeggiati da oracoli vernacolari e da staccionate, gli specchi di gennaio a portata di mano. Confini, estensioni. Il freddo mi invade, chiaro, nuovo, vasto (qui regna il bianco, l’accecante). Sul bordo della neve, le nervature di un paese altro (fuori portata, ormai, le montagne, gli arieggiati altipiani), e poi stoppie e piantine, contrariate dai solchi che orlano la via e scattano sotto le redini del vento.
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operai in gioia
prima dell’opera
(lime, instancabili frulli)
poi cala il freddo
a sbloccare
le serrature dell’alba
(i capezzoli di metà febbraio)
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Il minore, l’ultimogenito sentiero, perduto e ritrovato, ritrovato e perduto.
E poi, in alto: il ghiacciaio è un oceano che attornia le rocce…
piste inurbate nel niente, ogni volta riferite nei percorsi più esatti, ancestrali.
Poi soltanto l’alto.
L’assoluto specchio.
Di ritorno nel giorno dimezzato dalla pioggia ci rispondono le grandi umide lastre.
Le finestre scoppiarono, appena prima della notte.
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Fervore
Mentre andiamo avanti, è semplicemente impossibile scrivere poesia. Ci aspettano siccità, l’opera del prosciugare, la cosa che abbevera dal fondo. Occorrono, ovunque, fervore e destrezza. Più che produrre è necessario (trascinare le cose dove falliranno?) reclutare il limite, e smuoverlo.
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Serrare le serrature
Nel profondo del sé (nessuna contraddizione ci intimidisca) serrare la serratura della realtà, al cuore del verbo, cercando il punto in cui converge. Non il reale (nessuno confidi nel filosofare), ma la realtà, a torto detta esteriore; non proprio il cuore del verbo, ma l’oscura origine da cui, nella migliore delle ipotesi, può essere tratto in superficie.
Pierre Chappuis