
“Ho visto gli occhi degli alberi”. Discorso sulla poesia di Franca Mancinelli
Poesia
Michele Montanari
Quando inizia a leggere le sue opere, Marina Cvetaeva comprende che Rilke è il suo poeta più caro. Nessun comparativo né superlativo pare adeguato: Rilke, per lei, è semplicemente il più grande poeta di tutti i tempi, l’ultimo romantico, l’ultima vera incarnazione di Orfeo. Il Poeta. No: la Poesia stessa. Traduce in russo le sue Lettere a un giovane poeta, posiziona la sua foto sulla scrivania, decide di scrivere un giorno un libro su di lui. “Sì Rainer! Se scrivessi qualcosa su di te, il titolo sarebbe: Sulla montagna” [1]. È lo spirito di Rilke ad interessarla, lo spirito-Rilke, che è ancora più grande del poeta e dell’uomo. “Un libro su Rilke – sì, un giorno, quando sarò vecchia (età particolarmente cara a Rilke, al pari della giovinezza), quando mi sarò elevata un po’ di più fino a lui. Non un libro di saggi – un libro della Vita, della vita in lui” [2].
Non riuscirà a scriverlo, quel libro, ma ciò non le impedisce di sintetizzare, da lontano, in poche, ma intensissime parole – di chirurgica perfezione – l’essenza di Rilke:
“L’aldilà (non quello religioso, ma quello geografico) Tu lo conosci meglio dell’aldiquà, del qui, ne conosci la topografia con tutti i suoi monti e isole e castelli. Una topografia dell’anima, questo Tu sei. E col tuo libro (oh non era un libro, è diventato un libro!) di povertà, pellegrinaggio e morte, Tu hai fatto per Dio più di tutti i filosofi e predicatori messi insieme”.
(12 maggio 1926)
Marina allude al Libro d’ore – raccolta di mistica bellezza – in cui Rilke affida la sua voce ad un giovane monaco pittore di icone, protagonista di un percorso che, dalla vita monastica (primo libro), lo porta al pellegrinaggio nella vastità della Russia (secondo libro) per arrivare alla contemplazione della povertà e della morte nei sobborghi parigini (terzo libro). Le quasi duecento liriche della raccolta si rivolgono a Dio con umiltà e irruenza, incalzanti, imploranti; lo cercano, lo costruiscono e sfociano nella grande ricchezza della povertà “una luce intensa ch’è dall’intimo” [3].
Citando a memoria versi tratti dal Libro d’ore ai Vergers, dai Sonetti alle Elegie, Marina ricompone, nel suo dialogo con Rilke, l’intero paesaggio del suo universo poetico, coltivato in tensione con l’assoluto, quell’assoluto che lei stessa inseguiva. Del resto, il mondo di Marina e Rilke si svolgeva nel comune spazio della poesia “in senso non religioso, ma piuttosto geografico”, un mondo che riuscirono a condividere per pochi mesi nel 1926, l’anno in cui Rilke morì. Un carteggio breve ma potentissimo – esiziale – dove qualcosa di definitivo si compie per i due poeti. Qualcosa sigillato nel “centro del Sempre” – abissale e celestiale – della poesia.
Come ha inizio l’epistolario? Siamo nel maggio del 1926: Marina si trova in esilio in Francia, in Vandea, a Saint Gilles-sur-Vie, un paesino di pescatori sulla costa atlantica. Rilke risiede temporaneamente presso il sanatorio di Val-Mont, in Svizzera, nel Canton Vallese; non conosce Marina, sa soltanto, attraverso Boris Pasternak, che lei legge con grande ammirazione i suoi versi. Approfittando di un contatto epistolare tra suo padre e Rilke, Pasternak lo prega, da Mosca, di inviare alla giovane poetessa russa un suo libro con dedica.
Rilke, che in giovinezza ha viaggiato in Russia con Lou Salomé e da allora l’ha eletta a sua patria spirituale, esaudisce la richiesta e indirizza a Marina i suoi ultimi due volumi di poesie, le Elegie Duinesi e i Sonetti Orfeo, con questa dedica:
“Ci sfioriamo. Con cosa? Con le ali/ Traiamo da lontano la nostra parentela./ Solo è il poeta. E chi porta lui/ incontra i tempi che portano”.
(3 maggio 1926)
La risposta alla sua lettera non tarda ad arrivare: Marina risponde subito e con quale gioia! “Che cosa resta da fare ad un poeta dopo di Lei? Un maestro (come Goethe per esempio) lo si supera, ma superare Lei – significa (significherebbe) superare la poesia stessa” (9 maggio 1926).
Senza incontrarsi, i due poeti vivono, attraverso le loro lettere, un amor de lohn che trova espressione in versi altissimi. Ma vi è di più – molto di più – di un amor cortese: siamo trasportati in un carteggio vertiginoso, dove due anime affini – due poeti dell’assoluto – dialogano senza filtri: per la prima volta Rilke si rivolge a una poetessa che abita le sue stesse vette e può comprendere i suoi versi come nessun’altro, nella loro più segreta e profonda risonanza; lo stesso vale per Marina. Tra loro si instaura un’alchimia tale da sembrare un miracolo [4].
Quando incontrai il loro carteggio compresi che quel dialogo fu davvero un oceano in cui due gocce si riflettevano finalmente l’una nell’altra, dopo essere state in ascolto delle reciproche ondate. Circa vent’anni li separano anagraficamente (Rilke ha cinquant’anni, Marina trentatré), ma poco conta, qui, il tempo degli orologi: siamo nel “paese dell’anima”, dell’assenza fisica, nello spazio libero e sgombro della zaocnost russa, la sconfinata contrada che si estende al di là dello sguardo e “confina con Dio”, l’interminata distesa dell’assenza-vicina, quella che – da lontano – riunisce l’essenza più profonda di ciò che siamo, come e più della vicinanza fisica. E in questo “paese”, Rilke può davvero essere “la Poesia”.
Quando riceve le Elegie Duinesi, il letto di Marina diventa una nuvola: “Lei deve vedersi dai/con miei occhi: la Sua grandezza attraverso la loro grandezza quando io La guardo: la Sua grandezza attraverso tutta la lontananza… Leggevo la Tua lettera in riva all’oceano, l’oceano leggeva con me, leggevamo insieme. Non Ti disturba un simile compagno di lettura?” (9 maggio 1926)
Anche Rilke è profondamente coinvolto:
“Ti ho ricevuta nell’animo mio, in tutta la mia consapevolezza che freme di Te, della Tua venuta, come se il tuo grande compagno di lettura, l’oceano, insieme con te, marea del cuore, mi avesse travolto sommergendomi (…) L’atlante è stato aperto (la geografia per me non è una scienza, ma un insieme di rapporti che subito metto in pratica) e Tu sei già segnata, Marina, nella carta del mio intimo: in qualche posto tra Mosca e Toledo ho fatto spazio perché il Tuo oceano v’irrompesse”.
(10 maggio 1926)
Un riverbero di stelle, un’estate di parole, il dialogo tra Marina e Rilke – così lo definisce lui stesso. I punti esclamativi, le parentesi a cercare espressioni migliori, più calzanti, quasi in un moto perpendicolare che cala dall’alto la verità istintiva in una sorta di necessità ed urgenza, per poi declinarla in un moto discendente di successivi passaggi logici e lessicali, per renderla più chiara all’altro, quasi tangibile, pur sapendo che non ce ne sarebbe stato invero bisogno. Avevano cercato lo stesso pane spirituale. E quel pane era ora sullo stesso tavolo. Potevano condividerlo.
Immancabili le domande sui loro passaggi temporali tra Mosca, Praga e Parigi, gli stessi luoghi calpestati dai loro piedi in momenti speculari o di poco diversi, senza incontrarsi.
Rilke si racconta a Marina; con raffinata intimità riassume la sua vita, la sua incessante ed ossessiva ricerca di solitudine:
“abito da solo (…) solo come sempre ho vissuto (…) in un isolamento portato all’estremo e ultimo limite”. Perché si confinò nell’eremo di Muzot? Per poter meglio cogliere la voce segreta del mondo e degli uomini: là dove il rumore della vita si allenta, la sensibilità si allarga e si avvicina al mistero “il salto a picco nell’Aperto, l’ascesa al cielo, dentro di me, di tutta la terra…”.
(17 maggio 1926)
Marina incalza e assalta le risacche dell’anima, infuoca le parole, non esita a definire “amore” quello che la lega a Rilke:
“Il mio amore per Te si è sminuzzato in giorni e lettere, in ore e righe. Di qui l’inquietudine (…) Tu vivi, io voglio vederTi. Trapianto del Sempre all’Adesso. Di qui il tormento, la conta dei giorni, l’insignificanza di ogni singola ora, l’ora soltanto come passo innanzi…verso la lettera. Essere nell’altro o avere l’altro (…) Quando me ne accorsi, tacqui. Adesso è tutto passato. Dei miei desideri vengo presto a capo. Che cosa volevo da Te? Nulla. Semmai: essere accanto a Te (…) Dunque, Rainer, è tutto passato. Non voglio venire da Te. Non voglio volere”.
(3 giugno 1926)
Toccato nel profondo da quel “non-voglio-volere”, simbolo della rinuncia – folle spossessamento di ogni cosa – che non si è stancato di cantare nella sua opera – e di vivere nella sua vita – Rilke concepisce la sua Elegia a Marina, un componimento che lei sola può comprendere fino in fondo; “siccome siamo giunti al “non-volere” ci meritiamo un po’ di conforto” le scrive nella lettera che accompagna la sua grande Elegia:
Onde, Marina, noi mare! Abissi, Marina, noi cielo.
Terra, Marina, noi terra, noi mille primavere che, come allodole,
il sorgere di un canto lancia nell’invisibile.
Le onde ritornano nel mare, gli abissi ritornano nel cielo, il lamento ritorna nel giubilo, la caduta diventa ascesa: la verità che si cela nella suprema perfezione trova completamento nel suo contrario; ciò che è perduto è sempre e di nuovo raggiunto nel “centro del Sempre”, nel cerchio della totalità, nel quale il poema colloca Marina: il luogo dell’eterna e invisibile pienezza della parola poetica, faticosamente conquistata per essere “liberata” e donata.
Lodiamo, amore, lascia che sperperiamo in lodi.
Nulla ci appartiene. Lieve posiamo la mano sul collo
di fiori mai colti. Lo vidi a Kôm-Ombo sul Nilo.
Così, Marina, consacrano i re, rinunciandovi la libagione (…)
Ah, Marina, quanto già lontani, già quanto distratti,
foss’anche per intimo pretesto. Dispensatori di segni, e nulla più.
Quest’opera lieve, quando uno di noi
più non regge e s’induce alla presa,
si vendica e uccide. Che possegga potenza ferale
l’abbiam tutti visto dal suo riserbo e dalla sua dolcezza
e dall’insolita forza che noi viventi
in sopravvissuti trasforma. Non-essere. Sai quante volte
un cieco comando ci traeva traverso il gelido atrio
di una nascita nuova… Traeva – noi? Un corpo d’occhi
sotto palpebre innumeri, riluttante. Traeva
il cuore, in noi prostrato di un’intera stirpe. A una meta d’uccelli migratori
traeva la schiera, l’immagine della nostra incerta mutazione.
Il “noi” riunisce i due poeti nella creazione artistica, avvince le due voci nel cerchio perfetto della poesia, che non teme di bruciare per il tempo di una candela, divenire “incerta mutazione”, “un corpo d’occhi sotto palpebre innumeri”, “non-essere”, “meta d’uccelli migratori”: una condivisa, orfica sapienza di poeti – amore per la totalità. Nulla appartiene ai poeti “dispensatori di segni”, concentrati su singole parole che svelano all’uomo inestimabili e superiori verità.
(…) Noi, nell’orbita tratti,
siamo giunti alla pienezza come il disco della luna.
Anche nella fase calante, anche nelle settimane di svolta,
nulla ci aiuterà a ritrovare la pienezza più
del proprio andare per contrade insonni.
(Elegia a Marina Cvetaeva Efron, 8 giugno 1926)
Alle domande incalzanti delle Elegie e alle esortazioni dei Sonetti a Orfeo, subentra qui un tono diverso: dopo aver tanto forzato la sua parola poetica verso lo spossessamento, la rinuncia, la sottrazione, il vuoto, il poeta che qui scrive a Marina raggiunge il possesso tramite il suo contrario, come se una “rinuncia corrisposta” divenisse definitiva – e più alta – conquista, condivisa con Marina: abbraccio infinito con il proprio destino di poeti: “nulla ci aiuterà a ritrovare la pienezza più/ del proprio andare per contrade insonni”.
Cosa può provare Marina di fronte ad una simile Elegia? “Per tutta la vita, Rainer, io mi sono data nei versi, a tutti. Anche ai poeti. Ma ho sempre dato troppo, il tono della mia voce ha sempre superato ogni possibile risposta. La risposta se ne impauriva. Io le sottraevo in anticipo tutta l’eco. Per questo i poeti non hanno mai scritto poesie per me” (14 giugno 1926). Ma questo non succede con Rilke. Lui non è un poeta qualsiasi: lui è l’anima della poesia, lui può e sa accogliere nella sua “volta sonora” l’eco unica della sua voce russa:
“Ulula un treno. I treni sono i lupi, i lupi sono la Russia. Non è un treno, è tutta la Russia che ulula verso di te”.
(2 agosto 1926)
Un dialogo ultimo quello tra Rilke e Marina, un epistolario orfico, una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, sottile ma infinita – dove si può vivere un sentimento unico, anche “senza mani”, dormendo uno accanto all’altro; solo questo vuole Marina: “Io voglio dormirti accanto – addormentarmi e dormire. Splendida parola popolare: com’è profondo, giusto, privo di doppi sensi quello che dice. Semplicemente – dormire” (2 agosto 1926). E qui si compie uno di quei rari prodigi – intangibili, inconcepibili – che accadono nel cerchio misterioso della poesia: in quel dormire senza doppi sensi, in quella rinuncia ad essere-corpo, in quell’amore slegato dal possesso, Rilke trova la grande amante così ricolma di forza e di assoluto da poter rinunciare all’amato, cantata anni addietro nelle pagine del Malte, nelle figure di Gaspara Stampa, Bettina Brentano, Louise Labé, Marianna Alcoforado e di tutte le amanti vissute nella fedeltà di un amore non corrisposto, figure di donne che, nella loro solitudine, compirono la suprema metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto dall’oggetto alla pura contemplazione dell’amore, tanto più vicino all’assoluto in quanto privo dell’ansia del possesso.
Nell’incontro con Marina qualcosa di definitivo si compie per Rilke: un cerchio di carne e spirito sigilla i versi che, nel gennaio del 1912, scrisse a Duino:
Hai cantato abbastanza
di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
cui sfugga l’amato, all’esempio esaltato
di questa innamorata, senta: posso essere anch’io
come lei?
Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
diventar più fecondi per noi? non è tempo che amando,
ci liberiamo dall’essere amato, lo reggiamo fremendo:
come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.
(Prima Elegia Duinese)
“Come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo/ per superarsi”, così Marina si dona a Rilke; crea spazio, si allarga in un abbraccio infinito che tutto accoglie fino alle estreme conseguenze (la sua opera e la sua stessa esistenza – colma d’amore e di dolore, segnata da rivoluzioni, guerre, esilio, miseria – ne sono testimoni).
Dove incontrarsi? Marina chiede a Rilke di indicarle un luogo che sia nuovo per entrambi. Un luogo solo loro, che appartenga alla loro topografia interiore. Rilke acconsente a suo modo:
“Sì, Sì e ancora Sì Marina, tutti i Sì possibili per tutto ciò che vuoi e sei, così grandi che presi insieme sono come il Sì alla vita stessa…ma nel quale ci sono anche quei diecimila imprevedibili No”.
(19 agosto 1926)
Forse con quei “diecimila imprevedibili No” allude alla leucemia che lo aveva colpito e di cui non fa cenno a Marina? O forse un tratto inesorabile di quella “frattura insanabile” che Rilke sentiva tra vita e poesia – e che, invece, per Marina combaciano? Rilke teme la vita; Marina la divora, la brucia, vi si getta a capofitto. Come non deluderla troppo? Come non smorzare il suo slancio vertiginoso? Lo stesso giorno le scrive:
“Se io sono meno sicuro che ci sia concesso di essere come due fogli, due strati, teneramente combacianti, due metà di uno stesso nido (…) se io sono meno (di Te) sicuro (…) non per questo sento meno il bisogno (anzi, ancor di più) di ri-animarmi proprio in quel modo a quanto v’è di più profondo, alla fonte delle fonti. Ma, insieme, paura dei molti giorni e della loro ripetitività, paura (improvvisa) dei casi che fin allora potrebbero capitare, che nulla sanno e nulla vogliono sapere di tutto ciò (…) Adesso, cara, cancella ciò che fu chiesto e le risposte date, mettilo (quale ne sia la sorte) sotto la protezione, sotto il potere della gioia che Tu arrechi, di cui io ho bisogno, che pure io forse arreco, se a tutto questo Tu darai inizio (ma è già stato dato)”.
(19 agosto 1926)
Il sogno di incontrarsi svanisce con la fine dell’anno: Rilke soccombe alla leucemia presso il sanatorio di Val-Mont nelle prime ore del mattino del 29 dicembre 1926. Marina scopre l’irreparabile mentre sta andando ad una festa, la vigilia di Capodanno. Il dolore della perdita è straziante, ma diventa canto: Euridice e Orfeo si scambiano i ruoli. Come in una catabasi, nella sua Lettera per l’anno nuovo, Marina continua a parlare con Rilke come se fosse vivo e gli chiede di parlarle del suo viaggio, di descriverle il panorama che vede da lassù: lo immagina come uno spazio alpino, lei, uno spazio fatto di montagne e terrazze, dove volano cavalli, aquile e aquiloni; uno spazio dove cresce il baobab, cioè Dio:
Buon anno (altrove – approdo –varco) nuovo!
Ora dimmi, com’è andato il viaggio?
Quanto batteva e quanto teneva
il cuore? Lo trattenevi il respiro
sui cavalli di Orlov – aquiloni –
tu lo hai detto, più alto delle aquile?
L’ambiente com’è?
Anzi, mi è indispensabile:
la tua prima impressione sull’universo
(incluso il poeta
ovviamente) e l’ultima – sul pianeta,
tutto insieme in una sola volta!
Che fiume ci scorre?
Belle le lande senza turisti?
Non mi sbagliavo, Rainer, il paradiso
è freddo alpino? Non di pretese vedovili –
non è uno solo, il paradiso, vero? Ce n’è un altro
ancora più su? A terrazze? (…)
Non mi sbagliavo, Rainer, Dio è un baobab
che cresce? Non è un Luigi di Francia,
non è uno solo, Dio, vero? Ce n’è un altro
ancora più su?
A presto! A rivederci!
Forse senza incontro – solo accordo! (…)
Per ritrovarci, manda prima due righe.
Buona scala di nuovi suoni, Rainer! [5]
Non avevano creduto nel loro incontro in questa vita, Rilke e Marina: la vita dei giorni era uno spazio troppo stretto per loro. Ora deve pur essere possibile ritrovarsi: sotto forma di suono? Accordo? È commovente l’intima malinconia con cui Marina gli chiede di inviarle prima due righe, così da ritrovarsi nell’aldilà… inventa anche un hotel delle Anime in cui è possibile un incontro perfetto, perché immateriale.
Tutto crescerà,
niente paura, niente affanno.
Ritrovarsi all’insegna
ma: di cosa?
Di una complicità
indistricabile –
Benvenuti all’hotel
Incontro d’Anime.
Casa dell’incontro, del congedo –
cosmico tra il nord e lo zenith.
Le mani fanno al nostro caso?
No, senza mani, con qualcosa
di più leggero, più aereo
delle mani. Facciamo a meno
di tanto servile ciarpame!
Non è che uggia soffocante!
Sì, qui siamo intoccabili
e a ragione: siamo messaggi
delle mani, idee, indennità
delle mani – estremità…
Senza i convulsi “ma dove sei?”
ti aspetto. Parenti del silenzio,
i gesti fanno al nostro caso
dentro la dimora di Psiche. (…)
Sopra il nulla di due corpi
il soffitto canta – sono sicura – come coro
di angeli [6]
È il suo Tentativo di stanza, lungo poema geniale sul non-incontro dei corpi e sul vero incontro: quello delle Anime. Una rêverie, un sogno lirico dedicato in un primo momento a Boris Pasternak, dopo la morte di Rilke diventa un poema anche per lui, come se si fosse verificata una curiosa sostituzione, una sorta di presentimento, mentre lo componeva.
La perdita (terrena) di Rilke – il poeta più di tutti amato – segna profondamente Marina. Si sente orfana nel suo esilio terreno; da tempo, ormai, la vita e la storia le premono pesantemente alle spalle: vive spostandosi tra Boemia, Germania e Francia, conosce l’esilio, l’umiliazione, la miseria, la fame. Nel 1939 torna in Russia. Dopo l’arresto del marito e della figlia primogenita, Ariadna, la morte dell’altra figlia, Irina, per denutrizione, in un orfanotrofio, Marina porrà tragicamente fine ai suoi giorni a Elabuga, un posto sperduto nella Repubblica socialista sovietica di Tataria, dove le autorità l’avevano spedita. Qui si era offerta addirittura come lavapiatti alla mensa degli scrittori, senza ottenere nemmeno una risposta. Sfinita, consumata nel corpo e nello spirito dalla più totale indigenza, si toglierà la vita il 31 agosto 1941, una domenica mattina, lasciando tre lettere strazianti: la prima per l’amato figlio Georgij (detto Mur) e le altre due per gli amici che erano evacuati con loro, implorandoli di aiutare suo figlio: “prendetelo come fosse vostro figlio, garantitegli un’educazione (…) Con me sarebbe perduto” [7]. Sarà sepolta in una sorta di fossa comune nel cimitero di Elabuga, lei che avrebbe tanto voluto riposare sotto un cespuglio di sambuco, dove crescono le fragole più rosse…
Ho osservato da lontano le rive del fiume Kama, dove si affacciava l’isba in cui Marina si tolse la vita. E quei prati verdi intorno all’acqua grigia sono d’un tratto diventati il letto-nuvola che anni addietro la condusse da Rilke, quello stesso letto-nuvola da cui gli scrisse parole di leggendaria bellezza: “Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero? Tu mi hai preceduto (è stato più bello!) e per accogliermi bene mi hai prenotato non una stanza, non una casa, ma un intero paesaggio” [8].
Rainer e Marina, due cavalieri dell’invisibile, troppo entusiasti e troppo presto sottratti l’uno all’altra dalle tante trappole stese a terra nel bosco. Entrambi accesi dal genio poetico; entrambi consapevoli della presenza nell’assenza, della vita dei giorni e dell’esistenza poetica; entrambi affamati di assoluto, affannati, affrettati, inseguiti da una vita che presto, troppo presto, si logora e si spegne, come una candela che ci abbandona quando il pennino è ancora carico di inchiostro… Ma Rilke e Marina sapevano in anticipo cosa sarebbe rimasto: il loro canto, la nostra gioia. “Qui non si tratta di scopi. Si tratta di scadenze. Fra cinquant’anni, quando tutto ciò sarà passato, del tutto passato, e i corpi saranno decomposti e l’inchiostro sbiadito; (…) quando le lettere di Rilke diverranno, né più né meno, le lettere di Rilke, non già quelle inviate a me, bensì a tutti; quando io stessa mi sarò completamente dissolta, e – questo l’importante! – quando non mi saranno più necessarie le lettere di Rilke perché lui mi apparterrà – tutto Rilke” [9].
Marilena Garis
[1] Lettera del 14 giugno 1926, in Marina Cvetaeva, Rainer Maria Rilke, Lettere, a cura di Pina De Luca e Amelia Valtolina, traduzione di Ugo Persi, SE, Milano, 2010
[2] Marina Cvetaeva, A Rainer Maria Rilke nelle sue mani, a cura di Marilena Rea, Passigli Editori, Bagno a Ripoli (Fi), 2012, p. 138
[3] In argomento, Alberto Destro, Rilke, il dio oscuro di un giovane poeta, Edizioni Messaggero, Padova, 2003; Alberto Destro, Per un nuovo inizio. La riflessione religiosa nel Rilke maturo in AA.VV., Alla ricerca dello “spazio interiore del mondo” tra arti figurative, musica e poesia, Cives Universi Centro Internazionale di Cultura – Alberto Frigerio, Milano, 2008, p. 38, nota 7, ove Destro traccia il percorso spirituale di Rilke e documenta cronologicamente le letture mistiche del Rilke della maturità: Francesco d’Assisi (dal 1903), Meister Eckhart (1905), Thomas von Kempten, De imitatione Christi (1905), Martin Buber sul chassidismo (1908) e le sue Ekstatische Konfessionem (1910), Buddha (1908), Mechthild von Magdeburg (1909), Teresa d’Avila (1910), Caterina da Siena (1910), Angela da Foligno (1911), Agostino, Le confessioni (1911), Seuse (1913), Angelus Silesius (1917), Giovanni della Croce (1926), a cui si aggiungono varie letture di vite di santi.
[4] Un miracolo che diventa un triangolo epistolare tra giganti della poesia: Marina Cvetaeva, Boris Pasternak, Rainer Maria Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926 a cura di Serena Vitale, Editori Riuniti, Roma, 1980. Uno scambio di lettere avvenuto in pochi mesi, dal maggio al dicembre 1926. Un dialogo tra tre grandi anime, che tocca l’apice della poesia; una testimonianza unica, tra le pagine più alte della letteratura epistolare di tutti i tempi. In argomento, Giorgio Anelli, Essere poeti, dunque, non è un vezzo, ma una responsabilità, l’affidarsi cieco a qualcosa di più grande dell’uomo in Pangea, 7 febbraio 2021.
[5] Marina Cvetaeva, A Rainer Maria Rilke nelle sue mani, op. cit., pp. 45, 49, 55, 57
[6] Ibidem, pp. 31 e 41
[7] Marina Cvetaeva, Georgij Efron, Grida dai tetti il suo amore per me, a cura di Davide Brullo e Fabrizia Sabbatini, Magog, edizione digitale, 2022, p. 78
[8] Lettera del 31 dicembre 1926, in Marina Cvetaeva, Boris Pasternak, Rainer Maria Rilke, Il settimo sogno. op. cit.
[9] Marina Cvetaeva, Alcune lettere di Rainer Maria Rilke, in Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke, Lettere, op. cit., p. 67