31 Ottobre 2024

Pungere, rigonfiare, bruciare: appunti sull’arte di torturare la tela

Castellani

Prima del punto di non ritorno della modificazione della tela, rigonfiata o depressa tramite elementi posti al di sotto di essa o chiodi, Enrico Castellani ha indagato effetti di vibrazione superficiale attraverso fili, solchi e increspature filiformi. Così, allontanandosi dalla rumorosa gestualità informale degli esordi, l’artista raggiungeva la silenziosa eloquenza di una superficie monocroma che – tramite la modificazione strutturale della tela resa da spessori, centine o chiodi – acquisiva valori chiaroscurali e percettivi. Nell’idea che la tela non fosse soltanto il supporto per un disegno, ma diventasse essa stessa il campo dell’espressione energetica di un valore artistico e teoretico, e nell’intendimento di attribuire valore spaziale al fare pittura, Castellani viene a giusto titolo avvicinato a Lucio Fontana, Agostino Bonalumi e Piero Manzoni (con cui nel 1959 aveva fondato la rivista Azimuth).

Le estroflessioni relative alla prima metà degli anni ’60 si caratterizzano perlopiù per una presenza piuttosto discreta dei rigonfiamenti, che lasciano spazio a vaste porzioni di tela prive di deformazioni. Successivamente, i punti di estroflessione o introflessione aumentano di frequenza, molto spesso fino a riempire l’intera superficie della tela. Contestualmente le flessioni tendono a non essere disposte per file parallele e ordinate e si registra un maggior effetto di movimento ottenuto dalla loro disposizione irregolare.

Enrico Castellani. Estroflessione (1968)

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Bonalumi

Dopo alcuni tentativi nel campo dell’informale – in cui si registra un impiego di materiali diversificati, l’attenzione per un effetto organico della materia e una vocazione per lo sviluppo spaziale di superfici in rilievo – Bonalumi realizza la sua prima estroflessione, la tela Rosso del 1959. Nel conferire calcolate tridimensionalità alla tela, e nel pensare la pittura come un’operazione spaziale, l’artista viene spesso accostato a Lucio Fontana o a Enrico Castellani. Benché Castellani e Bonalumi siano spesso paragonati, nel modo in cui i due conducono la deformazione della superficie sentiamo la distanza di temperamenti artistici molto diversi. Nelle flessioni della tela realizzate da Castellani, il ritmo eufonico di pieni e di vuoti non sconfina in una violenta modificazione della superficie che, piuttosto, viene accesa da punti di energia, come gocce che cadono in uno stagno diffondendo silenziosi cerchi d’urto. Nelle estroflessioni di Agostino Bonalumi, soprattutto quelle relative agli anni ’60 e ’90, impressiona lo spettacolo di una materia-tela turgida e rigonfia, come in un’escrescenza che si fermi all’istante prima della lacerazione del tessuto che la trattiene. Così, dove in Castellani sentiamo una discreta armonia da metronomo, in molte opere di Bonalumi emerge un elemento sessuale: una morbosa eccitazione della materia non pienamente disinnescata dall’assoluto rigore formale e tecnico dei suoi lavori (un rigore, questo, in cui possiamo intuire la formazione nel disegno tecnico degli anni giovanili dell’artista). Nonostante l’omogeneità della superficie levigata e monocroma delle estroflessioni di Bonalumi, è possibile scorgere nella crescita biomorfica delle flessioni della tela quell’elemento organico che l’artista indagava negli anni del suo apprendistato informale. Non ci sono dubbi che parte del fascino di queste opere, così come la loro singolare sensualità, derivi anche dal mistero di elementi che si celano dietro la tela, come forme intuite sotto una veste attillata.

Agostino Bonalumi, Estroflessione, 1964

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Aubertin

L’intera vicenda artistica di Bernard Aubertin può essere letta per la sua febbrile volontà di svelare i segreti del colore e della materia. Desiderio che lo condusse verso un’insoddisfazione che possiamo ritenere all’origine dei suoi particolari processi creativi di natura iconoclastica. Questa volontà di indagine profonda sembra confermata dal convincimento espresso da Aubertin stesso, per cui gli artisti dovrebbero agire come ricercatori, ispirandosi al metodo degli studiosi e senza provare piacere mentre lavorano, ma portando avanti la loro missione con inflessibile tenacia (D. Stella e J. P. Lemée, Bernard Aubertin, Brescia 2007, p. 51). Il percorso dell’artista è contraddistinto da alcuni scarti improvvisi, che pure rientrano nella logica di un pensiero creativo coerente. Dopo il fondamentale incontro con l’arte di Yves Klein nel 1957, Aubertin comincia la sua avventura nel campo della monocromia. Inizialmente i suoi dipinti vanno nella direzione di una materia-colore di “eccezionale brillantezza”: una “materia sublime”, creata per raggiungere “un’espressione ontologica delle proprietà fisiche del colore” (2007, p. 51). La speranza di arrivare a una tale rarefazione resta però disattesa e così, concependo l’opera come il corpo dove esercitare azioni tra il chirurgico e la tortura, egli avvia una morbosa manipolazione dei supporti che lo impegnerà per decenni. Contestualmente all’usuale adozione del rosso e del nero – i colori del fuoco e della carbonizzazione – chiodi, fili di ferro, fiammiferi e viti compaiono nelle sue tavole, fissandosi in sistemi raffinati e geometrici. Da subito, poi, l’artista si serve di procedimenti incendiari per l’esecuzione dei suoi lavori: sono del 1961 i primi tableaux feu (quadri fuoco) che, tradendo uno spirito iconoclasta, suggeriscono il risentimento verso una materia che non si lascia mai afferrare del tutto. Questa dinamica raggiunge il parossismo al termine degli anni ’80, quando Aubertin rivolge le sue spettacolari performance incendiarie verso pianoforti e automobili. Nonostante una caratteristica di rigore e pulizia formale, nell’idea di realizzare arte attraverso una tortura della materia, Aubertin potrebbe forse essere avvicinato – oltre che ad altri artisti che si sono serviti del fuoco – ad Alberto Burri, senza tuttavia manifestare la stessa dimensione tragica.

Bernard Aubertin. Tableau clous (1971)

La dolorosa passione della materia delle opere di Burri non torna nei lavori di Aubertin dove, piuttosto, le ferite inferte dall’artista risultano in un cinismo elegante e creativo. Sarebbe, però, errato cercare l’anticipazione di una palingenesi che seguirebbe l’operazione ignea: nelle opere di Aubertin non c’è nessun segno di rinascita, e la distruzione è sadicamente fermata nel momento della sua massima capacità creativa, poco prima della totale compromissione di un ordine generale.

Antonio Soldi

*In copertina: Bernard Aubertin, Dessin de feu, 1974

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