24 Aprile 2024

Che cosa succede alle anime dei morti? Articolo pieno di granchi, vampiri e artisti fuori tempo

Di recente, su Netflix, mandano The Parades. La trama del film, giapponese – con sottotitoli – è facile: un gruppo di morti deve saldare i propri conti con la vita, con i vivi. I morti, diversamente morti – chi a causa di uno tsunami, chi nel corso di uno scontro armato, chi per malattia, chi tentando il suicidio – abitano in una specie di circo. Il film riassume, con vitrea semplicità, diverse forme d’amore – per la famiglia, per il figlio, per l’arte, per l’amica amata a metà – che lasciano tracce, lasciano ferite-sentieri che uniscono i morti ai vivi. Se vogliono andare nell’altro mondo, i morti devono sciogliere i loro residui legami con questo mondo.

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Che cosa succede alle anime nello stadio intermedio – il bardo, si direbbe alla tibetana – che separa la vita e la morte? È sufficiente leggere Dante per ricordarci che la morte è un addestramento a Dio, lento allontanarsi dalle spire del mondo. Le anime in pena sono ossessionate dalla vita: dal male che hanno inflitto, dal perdono che non hanno elargito. Le anime piene di pena, appiedate da sé, sono arse dal rancore, da un’ira irrisolta, da una curiosità a nitor di iena. The Parades mostra, infine, anime dolenti ma gentili: ma i morti irrequieti hanno gli artigli, continuano a intagliare l’opera dei vivi, tengono in scacco il mondo. Per questo si prega: fare memoria dei morti vuol dire accarezzarli, cioè sciogliere il legame, lenire il dolore con lacrime-coltello.  

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Quando muore qualcuno la vita non ‘va avanti’ – va da un’altra parte. A volte, si interrompe.

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Che i morti indirizzino le azioni dei vivi è certo. La morte è un lascito – spesso è un incarico, un compito da compiere. Ogni vita esiste perché un altro la testimonia; ogni morte si realizza perché qualcuno accoglie come un gioiello l’ultima parola. Un altro termina ciò che uno, morto, ha iniziato. Eppure: non puoi essere succube della morte, non puoi gratificare la vita con riti catacombali. I morti fioriscono altrove solo se disseccano le radici tese ancora su questa terra. Radici letali; radici trappola.

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Olio sul corpo morto: serve a rendere limpida la sua parola. Che non si confonda con quelle di questo mondo. A volte, la morte inaugura una nuova relazione, un nuovo amore. Qualcuno vive in virtù dei morti.

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Il Granchio nudo, il documentario sulla vita di Marco Pesaresi – mostrato di recente a Savignano sul Rubicone –, è un esempio su come i morti vivifichino la vita. Marco Pesaresi è stato un fotografo di genio: catturava volti. Non passava con il setaccio, no: Pesaresi usava la fotografia come un fil di ferro. Scassinava i volti. Vi entrava dentro. Entrava in un viso dalla finestra. Pesaresi faceva razzia di anime. Credo se ne cibasse. Ci sono uomini che vivono – ci sono uomini che hanno in ostilità l’avvelenata ostia della vita e si nutrono di vite altrui.

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Il Granchio nudo è un bel titolo (chi vedrà il documentario ne può capire la mitile – non mite – etimologia): dà l’idea di una creatura con le chele, in difesa, e della sua abbacinante nudità. Di un uomo – di un morto – alla fine, ci resta il guscio, ciarpame-carapace. La natura più dura di Pesaresi, però, è quella del vampiro. Il vampiro – angelo arretrato in lupo, che al genio del verbo sovrappone il genetliaco del sangue – non è, in questo caso, figura terrifica. È un vampiro bianco: sottraendo la vita – la fotografia, specchio al cubo, ha sempre qualcosa di demoniaco, va trattata con cauto rispetto: per questo l’idolatria instagram è macello dell’anima, frattaglie d’uomo – la restituisce. Succhia l’esatta stilla di sangue, il fotografo – natura lattea e nottambula quella di Pesaresi –: da allora, il fotografato, a cui è stato sottratto improvvidamente il viso, non sarà più lo stesso.

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Del cataclisma umano Pesaresi ha fatto scorta. Dal sottosuolo – le metropolitane, la vampiresca civiltà delle discoteche anni Novanta – al purgatorio del mare d’inverno, dei borghi incapsulati in una cesaricida eternità, al paradisiaco corpo del cristo ligneo esposto in processione a Montefiore, malatestiana rocca nei recessi riccionesi. Quel corpo, baciato da volti transfughi, zingari, è zattera, certo – costole-chiglie, costole-navigli, figli velieri – ma soprattutto partoriente. Padre nostro, quel flagellato figlio, nascituri, noi, da ogni sua piaga. I fedeli, nottole del credo, succhiano le ferite, le labbra – e Pesaresi è lì, arcangelo a contrario, ogni scatto un annuncio, un magnificat.

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A Montefiore bisogna arrivare a piedi, dai campi, poi in dura ascensione. I sentieri, come in trincea, costeggiano i campi; formicai, tane di talpe, covi. Forse i morti si accalcano in ampi formicai – solaio dei cieli. Con il fumo e con il fuoco alcuni vorrebbero azzerare i rifugi e stanare i morti. Esercizio brutale: lascia riposare chi non è più qui, onoralo con gesti di carità. Quand’è il tempo in cui i morti gettano le gemme, sbocciano? E il fiore di cui è tatuata la mano dei morti, che odore ha?

Contro i dettami del mercato, i libri-totem in tiratura unica di Angelo Borgese

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Morte per acqua, quella di Pesaresi, per scelta, ad affondare. Resa irrequieta dalla sua scelta, l’anima di Pesaresi morde tra noi – la madre, Isa, ne è segnata, ovunque, con crudele bellezza: madre immolata al figlio che si è sbriciolato in migliaia di scatti. Seminagione di volti. L’artista opera per sparire: la sua opera – se autentica – è già corpo redento, purissimo monile che salva chi lo indossa. Superato dal suo fare, l’artista non muore: svanisce.

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Angelo Borgese è l’uomo più vivo che conosca. Lontano dal nostro tempo, a me pare uno scalpellino dell’anno mille, che con destrezza trae, dalla stessa pietra, sagaci mostri, vergini dai capelli che divagano in oceano, corpi claustrali. Ora il suo desco è il tavolo della sala. Con esasperata mania, Angelo sta costruendo un libro assoluto: le figure toccate dall’acquerello e dall’oro – draghi, amanti che si intrecciano, volti-totem, lieti steli e decorazioni tra astro e gelsomino – sono pari a miniature. In sottofondo, spesso, le canzoni di Paolo Conte o di De André. Con monacale costanza, Angelo sta realizzando uno straordinario libro d’ore, di quelli che hanno illuminato il Medioevo, pari a cattedrali. Il gesto popolare si fa sacro; l’anonimato ha artistica originalità; il libro va spezzato come il pane.

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Incurante, da sempre, per indole, dei palanchi della fama e dei suoi baratti & burattini, roba da palestrati dell’arte, Angelo sta miniando un libro fatato. Intorno ai disegni, ci sono gli spazi per uno scritto che forse accadrà. Un libro in copia unica: per chi?, perché? Poco fa, insieme a Angelo, abbiamo costruito libri-santuari in cinque e sette copie. Nell’epoca in cui tutto è numerabile e misurato in numero di copie vendute, in like ottenuti – parola che per assonanza rimanda a ‘lacchè’ – un libro fatto a mano in cinque copie. Un libro unico, irreplicabile, irripetibile; un po’ come si aprono le mani del fuoco, lo si scava tentando un auspicio, benaugurale.

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Libro apotropaico: tra poco si alzerà su due gambe per divorarci tutti.

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Il dono: morire consegnandosi nelle mani di un altro. Farsi dottrina di quelle mani. L’opera sfugge, si rivolta contro l’artista: esiste in grazia di chi la opera, il lettore.

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Spesso Angelo fa disegni-amuleto, lavori scacciamostri. In uno di questi: due enormi mani blu, bordate di punti d’oro, proteggono due piccoli amanti. Come la bocca di un dio capodoglio. Angelo forse ignora i suoi poteri sciamanici: accarezza i morti, li ammansisce. Protegge i viventi. Le sue opere hanno proprietà di quiete.

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Ciascuno ha il proprio morto da offrire. Siamo postulanti e ogni ricordo ha odore di erba tagliata. Anche il sole mendica: ha il cappello di paglia, idolo che adorna il nostro terrore pagano.  

*In copertina: una fotografia di Marco Pesaresi, 1996; Archivio Fotografico Marco Pesaresi, Comune di Savignano sul Rubicone

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