«Uno strano romanzo in cui succedono solo i pensieri di due amanti al risveglio»: è la definizione de L’infinito di amare (La Nave di Teseo, 2020), testo che Sergio Claudio Perroni affida a Elisabetta Sgarbi, amica e editor dei suoi libri, nella mail del 22 maggio 2019, l’ultima. «Per il solo piacere assoluto di scrivere, senza pensare a niente», aggiungeva. Si congedava con un «grazie, ciao», e tornava con la mente all’oggetto del suo amore, tornava a contemplare la forma che prendeva l’infinito di me, di notte. «Pour qu’une chose soit intéressante, il suffit de la regarder». Sarebbe interessante scoprire quale forma prenderebbe la vita se ci impegnassimo davvero ad osservare le cose, come insegna Flaubert, a conservare le parole con cura, custodendole, come si fa con le persone care. Giova scoprire, infine, che – al di là del bene e del male –, si riservano le cose grandi ai grandi e le rarità ai rari.
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«Dopo una perenne tregua con le cose», il siciliano «di ritorno» che aveva scelto di vivere nella sua isola continente, a Taormina, mette a frutto la visione rara di un contesto familiare, col consueto sguardo ipermetrope che opera per «eccesso di serietà». L’osservazione fissa e insistita dell’occhio scrutatore rimane addosso, sulla pelle, scortica la buccia delle cose, ne intacca la polpa, scoprendo il nocciolo duro e misterioso. Con straordinaria capacità narrativa e raffinata acuità lessicale, Sergio Claudio Perroni s’impegna a formulare i pensieri con giusta misura e distacco, facendo della scrittura un’impresa privata, profondamente intima: un lavorio trentennale «fonda un passato» e genera pagine riservate e ben scritte, in un romanzo breve e intenso, con «la vanità concentrata sul viso» e l’eleganza della sua anima in serbo per la Poetessa preferita, «la seconda», dopo Wislawa Szymborska. A lei dedica le finezze più sottili e ostiche, ricompone gli attimi vissuti, quieti e leggeri come in un passo a due – un andantino amoroso, la seconda volta –, pensieri rivelati con purezza, abbozzando un’anatomia d’istanti fintanto che non prende il largo per mare.
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Procede lentamente – non ama le trame largheggianti e lo stile affettato –, con scioltezza piega la prosa alle regole del verso poetico, nel racconto di due vite piene d’amore e una notte da svelare. Pone l’accento sul rapporto tra un uomo e una donna, articolando il ritmo come si fa con gli endecasillabi piani, tronchi, sdruccioli e bisdruccioli. Non è un rapporto a due, ma a quattro: maschio e femmina, uomo e donna. Prodotti di natura e di cultura, i protagonisti si incrociano in una partita svolta dal chiasmo, una partita giocosa in cui parole e suoni si contrappongono in modo speculare. Ci si inerpica, a strappi, tra le sinuosità della mente e gli scarti emotivi di un chiavistello, «lungo la piega obliqua delle labbra di lei», alla scoperta delle misteriose cavità del cuore umano. La tenerezza della coppia cede il passo all’emozione di fronte a una figura sublime – intelligenza che rima con timidezza –, scrutata «con sguardo cauto e un po’ stupito della mente che sogna»: una figura che è un incanto.
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Declina la voce verbale all’infinito, attivo e passivo: dall’infinito presente di Oggi (amare ed essere amato) passa per il perfetto latino, ossia il finito, Ieri (avere amato ed essere stato amato) e approda all’indefinibilità di un futuro, Domani, in cui stare per amare coincide con lo stare per essere amato. Con passo incerto e vacillante, Sergio Claudio Perroni rivela la forma della sua natura umana – perfettiva – che assiste con stupore al fascino del dettaglio, vertigine afferrata un attimo prima che si compia il miracolo. La bellezza a ridosso del coronamento di un sogno scopre il sublime di alcuni dettagli fisici: la vanità in un collo di donna, premurosamente velato da un foulard di seta, resistente a sguardi indiscreti; la consistenza densa e docile – come di un metallo – dei capelli corposi e duri; il languore, che sa di nostalgia, per l’assenza tangibile di una chioma da accarezzare; la beatitudine riflessa, finalmente, nella vibrante consistenza vetrosa di schegge nocciola degli occhi di lei.
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L’infinito di amare rima con restare, aderisce perfettamente a un amore di testa – il suo –, una testa amorosa – di lei –, che galvanizza il sentimento e resta addosso come un odore, sparso, all’infinito. La prima di copertina è un profilo di donna, il lato migliore del risveglio, bellezza e temperanza che rimano con stupore e piacere: gioia pacata davanti a una nuca in tensione e meraviglia sospesa di una ciocca di capelli, spiovuta davanti agli occhi e subito soffiata via. È anche il peso di lei contro la schiena di lui, a ridosso delle sue spalle, «l’ombra finita sotto il truce piglio da solitario». Un libro che fa metafora con sfidare: interrogare le stelle e conquistare uno spazio sereno dove godersi un amore sterminato, affrontando gli abissi del blu oltremare. Spropositata come pretesa, ma non per chi «era agile a capirlo sino a prevenirlo». Lascia in custodia la sua anima lunatica e consegna un libro sottile e minuto: un atto di riconoscenza che è anche memoria del cuore. E dopo aver conquistato la luna, si prende una vacanza improvvisa.
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«L’infinito di amare è la dimostrazione della sua passione per la bellezza e il rigore della lingua: è la prova della sua brillante capacità di descrivere e raccontare i movimenti dell’anima, e di seguirne la traccia fino in fondo», scrive Cettina Caliò Perroni, l’infinito di me, l’unica voce che «resta con lui, qualunque cosa faccia».
Ermira Shurdha