Frantumazione, infermità: parole fatali, un ingresso in Clemente Rebora. Per le edizioni della “Voce” Rebora pubblica, nel 1913, i Frammenti lirici. Della Prima guerra coglie la frattura, il miasma di ciò che è rotto. “Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d’ordine; file perdute: barcollii di volumi spossati ricurvi, spossati e cacciati nel buio dal flutto dei morti che non è libero ancora, che non sarà libero mai”. Anche la scrittura è frantumata e inferma. In onore alla sparizione – il rischio di non essere compresi, una calligrafia così piccola che il foglio la ingoia – “fin dagli anni della giovinezza” Rebora ha l’abitudine “di appuntare note in calligrafia minuta su foglietti di carta altrettanto piccoli, spesso riciclati” (Roberto Cicala e Valerio Rossi).
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Infermità, frattura, frammento. Rebora ama come il fuoco di una cometa, per consumarsi. Dalla trincea passa al “manicomio di Mombello”, “nel grande caos della psiche”, tra uomini sbrindellati, “gente scaduta a tutte le possibili minorazioni… Lo psichiatra, a Reggio, che mi diagnosticò, forse sentendomi parlare la definì con parola greca, mania dell’eterno” (cito dal Diario intimo, Interlinea, 2006). Andare all’eterno, per difetto d’atmosfera ed eccesso di vertigine, procura ferite in sbriciolamento. Scrivendo della sua morte, Eugenio Montale, sul “Corriere della sera”, sottolinea la “distruzione fisica” di Rebora, “il calvario”. Ripetuti ictus gli impediscono di muoversi, gli tolgono la parola. Rebora lavora, per tutta la vita, a colpi di taglierino, per togliersi la voce. Consegnare anche quella all’Alto.
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Prima tenta di radicare i frantumi in Oriente. Conosce Tagore, a Milano, gli scrive: “La possibilità, fattami balenare, di poter poi venire alla Sua università di Sankti-Niketan è per me un’alta speranza, che alimento col rendermene intanto degno”; è il 18 settembre 1921. Più tardi il suo giudizio sarà laconico: “grande poeta, ma fallace profeta”. Nel 1929, Rebora si rompe in pianto. Al Lyceum milanese deve tenere una conferenza. La ‘cosa’ esplode. “Io avevo da poco iniziato il mio dire e lessi il verbale dei Martiri Scillitani: ed ecco che mi prese una commozione tale che non potei più proseguire e a stento non scoppiai in singhiozzi palesi. […] In fine io mi levai come folgorato di pianto – e pensarono i più ch’io mi fossi sentito male per l’eccessivo lavoro, ecc. Da quel momento Dio mi tolse il dono della parola in pubblico, come già da tempo quello dello scrivere – e me lo concesse soltanto nella carità e nell’insegnamento”. Darsi a Dio che è colui che toglie: la scrittura, la parola.
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Clemente Rebora è come un Rimbaud: la sua Africa è il Sacro Monte Calvario di Domodossola, dove è novizio. In entrambi, la necessità di distaccarsi dall’opera, di renderla inoperosa, di cancellarla. E avventarsi nell’ignoto – geografico o di una topografia dell’assenza – di vivere la norma di ciò che è abnorme, anormale. Rebora si prepara alla distruzione con l’anonimato: nel 1922 pubblica i Canti anonimi; poi sparisce. Nel 1930 lascia la scuola dove insegna, lascia l’abitazione, distrugge le proprie carte. Tutto è vanità nella dimora dell’eterno. “A eccezione di pochi libri e oggetti consegnati ai familiari, le sue carte e libri finirono nelle mani di uno straccivendolo di passaggio” (Eleonora Cardinale). Per rinascere, occorre annientare.
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Frantumi, frammenti, infermità, annientamento. “Infermo a Stresa, con mano un po’ paralitica, riscrivo e confermo, come non mai, il voto… di chiedere incessantemente al Signore la grazia di patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’opera del tuo Amore”. Non annientato, polverizzato. La polvere è l’unità minima del creato, la cosa più piccola: “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo…”, dice Genesi. Ci si polverizza per tornare nelle mani di Dio, che ci riplasmi. Il ritorno alla polvere è grazia. Rebora polverizzato mi ricorda l’elogio della cenere di Robert Walser: “La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile”.
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Legato alla pianista russa Lydia Natus, traduce Lev Tolstoj, La felicità domestica. Che paradosso: la sua felicità è rotta da una lacerazione ulteriore. Nel 1915 Lydia è incinta, la gravidanza le può essere fatale, accade l’aborto. Con il bambino possibile va in frantumi la possibilità dell’alcova, della famiglia.
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Nel diario, in data 1946, un frammento che pare estratto da Tolstoj. “Ho conosciuto… un’autentica santa: una vecchia montanara, di 83 anni, curva, piena di dolori, senza un occhio per le battiture del suo defunto marito che era una belva; tuttora in servizio per sfamarsi e poter fino all’ultimo servire (secondo la sua richiesta al Signore 10 anni prima quand’era gravemente inferma all’ospedale: poter sempre lavorare); tribolata come aveva fatto fin da piccola nella famiglia poverissima, e poi, sposata, che doveva scappare con le sue piccole dal coniuge violento e bestiale (che teneva il coltello sotto il cuscino), lasciata agli stremi dell’indigenza, fino a dormire in un sacco; poi, per scampare da lui, fuggire e servire, in Germania, e via via… Eppure la divina Provvidenza non le è mai mancata, ricca della grazia di camminare sempre nella giustizia e onestà; e si sentiva felice”. Piuttosto, Rebora pare una specie di Padre Sergij, che consuma tutti i nomi e tutte le ambizioni fino a polverizzarsi in puro “servo di Dio”.
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La Libreria Editoriale “Sodalitas” di Stresa ha pubblicato nel 1990 “Le pagine del Messale” di Rebora. Il libro, scarno, è commovente: Rebora riempie le pagine sante di frasi, sottolineature, pensieri. Siamo nel pieno della lotta; le notizie di Vincenzo Sala ci informano che il Messale è “usato da lui negli anni che vanno dal 1931, sua entrata in religione, al 1936, anno della sua ordinanza sacerdotale”. La scrittura è fitta, inquieta – prima di diventare Bibbia bisogna ulcerarla, divorarla; sarà il testo a emendarmi o io a cancellarlo? “Più l’ora del mondo è disperata, più cresce l’ora di Dio secondo il disegno della carità salvatrice, santificatrice, glorificatrice in Cristo Gesù”, scrive Rebora. Poi, sul margine di Luca, sottolinea in rosso mysterium regni Dei e Semen est verbum Dei. E scrive: “Chi non stima la vita non la merita”. Spesso Rebora riscrive dei versetti perché solo così possono saldarsi nelle ossa, fino a dissipare ogni passato. Scrivere, ora, è tortura blu. Infine, non serve più nulla. “Quando i superiori gli dissero di non continuare a prendere troppi appunti, Rebora fu ubbidiente e chiese un messale nuovo perché quello vecchio era pieno di annotazioni”. Il poeta – non più poeta o autenticamente tale – obbedisce alla sparizione, si azzera. In questo caso, però, i frantumi sono fuochi, la polvere una stellata, il niente l’evidenza del tutto – Rebora è nello spazio irraggiungibile, nell’enormità. (d.b.)