Qualche settimana fa ho ripreso in mano, dopo alcuni mesi di interruzione, Underworld di Don DeLillo e sono finalmente arrivato alla fine.
Non è stato facile, motivo per cui temo di non essere riuscito, per limiti miei, ad immergermi totalmente nello straordinario intreccio che l’autore italo-americano ha realizzato con questo romanzo. A volte ho fatto fatica ad andare avanti, a mantenere la concentrazione, a trovare il lampo di genio all’interno dell’ampia verbosità, a convivere con alcune tecniche narrative postmoderne portate all’estremo. Ho trovato più sintonia con il suo primo lavoro, Americana, in cui con uno stile asciutto ma pur sempre raffinato ci veniva raccontata l’America profonda dalla prospettiva di un giovane e cinico manager di Manhattan che decide di intraprendere un viaggio nel cuore del paese. Sempre in tema di letteratura americana, autori come Philip Roth e, ancor di più, Jonathan Franzen, sono riusciti a coinvolgermi con la loro narrativa in maggior modo, tratteggiando personaggi indimenticabili come quello dello Svedese il primo e illuminanti storie di famiglie e conflitti valoriali il secondo.
Sarebbe quindi opportuno, date le premesse, astenersi da un breve commento su Underworld, ma la potenza del volume – che trascende i limiti dell’approccio del lettore – risiede proprio nel fatto che, a posteriori, ci si rende conto di aver inconsciamente assorbito schegge, frammenti e piccoli tasselli che assieme formano un ricordo vivo dell’opera, una [sua] interpretazione. D’altronde è DeLillo stesso, mentre scrive le quasi novecento pagine prive di una trama vera e propria, ad essere più che consapevole di star lasciando il lettore senza coordinate precise, in balia dell’infinità dei possibili, della moltitudine di significati e interpretazioni che se ne possono trarre.
Rimane quindi inevitabilmente qualcosa dopo questa lettura, di cui si può, seppur con le dovute precauzioni, parlare.
Underworld di DeLillo racconta la storia americana che va dagli anni Cinquanta alla fine della guerra fredda attraverso il passaggio di mano in mano di una pallina da baseball, cimelio di una famosa partita tra Giants e Dodgers del 1951. Lo fa con un’impostazione temporale peculiare, che dà il senso della grandezza dell’opera: partendo dalla fine, i numerosi personaggi ci vengono fatti conoscere andando indietro nel tempo, in un continuo intreccio di storie e volti.
In questo ampio arco temporale, in cui fatti e personaggi storici convivono con l’inventiva dell’autore, DeLillo mostra al lettore l’America quotidiana, quella dell’immaginario collettivo, dei piccoli e medi conflitti, delle teorie del complotto tipiche dell’atmosfera della guerra fredda, dei tanti abitanti che hanno formato il paese senza scriverne ufficialmente la storia.
Sarebbe forse questo, a sentire alcune interpretazioni, l’“underworld” del titolo: il piccolo mondo trascurato delle persone comuni, con il loro sentire, i loro problemi, le loro tensioni.
Oppure, seguendo un’altra traccia, lo è il sottosuolo in cui sono state negli anni riversate scorie nucleari, rifiuti, scarti, tutte le produzioni artificiali nascoste nei vari deserti e luoghi dimenticati in cui DeLillo porta il lettore, simbolo del processo di accumulazione e scarto che ha caratterizzato il secondo dopoguerra. Noi siamo l’immondizia che produciamo, sembra dirci l’autore, denunciando così i sotterranei e silenziosi mutamenti che hanno caratterizzato la società americana nella sua transizione verso il consumismo sfrenato.
La disgregazione del tessuto sociale descrittaci culmina nella fredda egemonia dell’economico (l’epilogo titolato Das Kapital) degli anni Novanta, che segna la fine di un’era e l’inizio di un’altra:
«Il capitale elimina le sfumature di una cultura. Investimenti esteri, mercati globali, acquisizioni societarie, il flusso di informazioni dei media transnazionali, l’influenza attenuante del denaro elettronico e del sesso virtuale, denaro mai passato di mano e sesso sicuro al computer, la convergenza del desiderio dei consumatori – non che la gente voglia le stesse cose, necessariamente, ma vuole la stessa gamma di possibilità di scelta».
Forse è proprio in opposizione alla realtà che stava andandosi a formare in quegli anni (il volume è stato scritto in quel periodo e pubblicato nel 1997) – fredda, artificiale, che ricorda la futuristica ambientazione grigia e inumana del libro sulla crioconservazione Zero K – che l’autore decide di rendere centrale nel romanzo la pallina da baseball: simbolo dell’unità, dell’integrità, ultimo collante di una società smarrita, frammentatasi in una miriade di monadi. La storia dell’America ci viene così raccontata attraverso un punto fermo che si oppone alla disgregazione, che passa compatto da una mano all’altra portando con sé schegge di passato, di tempi perduti – non a caso il personaggio di Nick Shay, probabilmente l’alter ego dell’autore, comprerà la pallina e sarà il suo ultimo possessore non tanto per particolare interesse verso la famosa partita del 1951, quanto perché rappresentativa di un passato che non c’è più, di un tempo ormai inafferrabile.
L’unità della pallina ripercorre quindi la storia americana, tra consumi, immondizia, spettacoli, pop art, portando ad un non-finale che può sì lasciare perplessi, ma che allo stesso tempo rappresenta la naturale conclusione per un’opera così ambiziosa e monumentale: un flusso di coscienza apparentemente slegato da tutto che termina con la parola pace. Un computer e uno sguardo oltre il monitor, verso il reale. La serenità nella visione.
Pace, questa è l’ultima parola dell’autore. Sembra il silenzioso grido di chi è arrivato al termine di un lavoro che l’ha coinvolto interamente, in tutto il suo essere. Pace, fine: la storia americana dagli anni Cinquanta alla caduta del Muro è stata riavvolta nel filo conduttore della pallina e ha trovato una parvenza di senso, una docile spiegazione. Pare quindi un grido innanzitutto rivolto a sé stesso e alle novecento pagine prodotte. Ora toccherà a qualcun altro raccontare la nuova era.
Pace, inoltre, indica una tregua all’interno dei tumulti che hanno interessato la società americana nel periodo della guerra fredda, delle contraddizioni che nel loro presente storico apparivano inspiegabili e che ora vengono comprese con lenti diverse. Anche qui, finita un’era ne deve iniziare un’altra. Vi è una pausa, un momento di riflessione.
Ed è in questo momento che, strizzando anche un po’ l’occhio alle teorie del complotto che caratterizzano la sua opera, DeLillo si sente di affermare che tutto è collegato. Che vi è un nesso per ogni cosa, un filo che unisce i destini e che, se non appare agli occhi di tutti nella sua grandezza, si può quantomeno intravedere, sentire. È il filo che passa sotterraneo nel suo racconto e che descrive un’America ormai disgregata, collegando i punti, mettendo in ordine i tasselli del mosaico.
Un’illusione? Forse. Le infinite interpretazioni che possono seguire al romanzo lo testimonierebbero.
Ma, per il momento, si può accettare questa illusione, tregua, pausa, fermandosi e guardandosi fuori, «cogliendo il tenore denso e vissuto delle cose», trovando la pace.
Anche perché, nello straordinario finale che culmina con questa potente parola, pace, appare silenzioso ad aspettarci l’artificiale monitor del computer, che sembra presagire, nella sua inquietante neutralità, le nuove inquietanti sfide del ventunesimo secolo.
Luca Picotti