07 Novembre 2024

“Vago nel profondo”. Vita & versi di Santoka Taneda, l’asceta dell’haiku

Tornita di drammi, di inesplicabili fughe, la vita di Shōichi Taneda, pioniere – nonostante lui – della poesia nipponica. In particolare, praticò l’haiku, quella lirica sillabata a colibrì, a colpi d’ago. La rivoluzionò, rivestendone d’altro umore le elitre: si fece Bashō e Ryōkan, complicò i suoi vagabondaggi nell’umor nero, li impaniò nel dubbio, in una coltre di malinconie che ce lo rende prossimo, vicino, a un passo dal sussurro. Scrisse, diceva, ovunque: sull’erba, sui tronchi, nei greti, nei grati fiori, sul torso del vento. Di oltre ottomila haiku scritti nel corso delle sue perigliose peregrinazioni, ne ha raccolti ottocento, in libri spesso improbabili, d’austero nitore. Naturalmente, lo capirono diversi anni dopo la morte.

Ma andiamo con ordine.

Nato nella prefettura di Yamaguchi nel dicembre del 1882, da ricchi possidenti terrieri, Shōichi Taneda fu trafitto da infermità dell’anima, lutti, inettitudine, il virgulto del vuoto. Aveva undici anni quando la madre, straziata dai perpetui tradimenti del marito, si gettò in un pozzo, nel giardino di casa. L’evento folgorò il destino del poeta, dato alle cure della nonna.

Seguirono, infiniti sentieri interrotti. Taneda non riuscì a terminare l’università – si era iscritto a Tokyo, letteratura – era agito dall’ubriachezza. Subì diversi crolli nervosi, s’impegnò – con lacero desiderio – nell’impresa del padre: produzione di sakè. Traduceva Turgenev e Maupassant, il padre gli intimò di sposarsi, dopo avergli trovato una fanciulla, Sato. Va da sé che il matrimonio – pur ingentilito da un figlio – collassò tra affezione glaciale, il rettile dell’ira: la separazione accadde una decina di anni dopo. I genitori di lei volevano liberarsi dell’ingombrante, inetto poeta.

Nei suoi primi pezzi letterari, Taneda cominciò a firmarsi Santoka, che vuol dire “Fuoco sulle vette”; ma può significare anche “Pira funebre”, a imperterrita memoria della madre. Dal 1911 Santoka comincia a scrivere haiku, quasi subito secondo il nuovo metodo, la ‘forma libera’ (shinkeiko), scevra, cioè, dai codici tradizionali. Nel frattempo, la vita precipitava. L’azienda di sakè fallì; il padre perse il ricco patrimonio di famiglia, si diede alla macchia. Santoka tentò, trasferendosi nell’isola di Kyushu, di aprire un negozio di libri usati; si mise a vendere cornici. A trentasette anni, va a Tokyo per cercare fortuna: una sorta di perpetua incapacità lo fa peregrinare da un lavoro all’altro.

Nel 1924 accadde l’altro episodio centrale nella vita di Santoka. Travolto dall’alcol, l’uomo tentò di uccidersi, rovesciandosi sulle rotaie della stazione. Tuttavia, il treno che stava per maciullarlo riuscì miracolosamente a frenare, poco prima dello schianto. Santoka fu condotto da un amico in un tempio Zen; l’abate si prese cura di lui; a quarantadue anni il poeta fu ordinato monaco.

Da qui comincia la seconda parte della vita di Santoka. Preferì la via itinerante, il vagabondaggio di tempio in tempio, il duro mendicare. Indossava la tonaca, un cappello di paglia a schermarsi dal sole, i sandali; sfoderava la ciotola, secondo l’uso degli antichi maestri, chiedendo riso o qualche moneta. Privo di un monastero di appartenenza, slacciato da un ordine, tuttavia, Santoka era spesso considerato alla stregua di un vagabondo: vessato dai passanti, investigato dai poliziotti. Passò giorni in carcere.

Scelse – come il grande pellegrino russo – di stare nella latitanza, senza ripari, privo di sé. Quella nudità che spaura; il porgersi nelle mani a vespro di un altro.

Gli haiku – dalla leggiadria feroce – come quelli di Bashō – sono il minuto regesto dei suoi viaggi, non privi di tormento interiore. Amava i monti, Santoka, la vita selvaggia, libera dal servaggio dei tempi, dal lavoro che nutre l’infelicità dei poveri e l’insoddisfazione dei ricchi. I suoi versi, pieni di luce e di spine, non acclimatano alla quiete: irritano. Ci coinvolgono nell’industria del vagabondaggio. Amici e ammiratori gli permisero di allestire una capannuccia, “Gouchan”, in cui si ristorava tra un viaggio e l’altro. La tensione, continua, all’oscurità – tentò ancora il suicidio, afflitto da glaciali solitudini, con i farmaci –, lo fece risplendere. Non di rado, il figlio aiutò il padre con qualche sostegno.  

Santoka morì nell’ottobre del 1940, nel sonno, sfiancato dal continuo peregrinare.

I suoi scritti, raccolti nei primi anni Settanta, lo collocano tra i grandi asceti dell’haiku. Qui si è scelto di tradurre alcuni haiku e frammenti dal diario da For All my Walking, volume edito dalla Columbia University Press nel 2003, a cura di Burton Watson.

Nel lignaggio dei poeti erranti, l’opera di Santoka ha uno spazio unico. I suoi versi? Lanugine sulla neve, vele di ragno, tintura verbale che diventa ululato, urlo.

***

sgombro di nubi
visto da un bicchiere di vino
il cielo ha un colore possente!

*

dal mare, il vento:
farfalle tra i cespi a riva
non si fermano mai

*

ruggiscono i coniugi
è notte
ragni a pendolo

*

è quell’enorme buca
appena scavata
a immobilizzare il sentiero

*

torna a casa
e proprio perché nevica
scrivi una lettera a tua moglie

*

nel profondo vado
vago nel profondo:
vertigine di verdi monti

*

il cielo fiammeggia
mentre cammino
e mendico

*

sono fiacco
ma riconosco il dolce
sapore dell’acqua

*

la pioggia esplode
da quella nube
e mi ci tuffo dentro

*

la mia tonaca
è strappata
come turgori d’erba

*

ubriaco
ho dormito
con le cicale!

*

fa caldo: qualcuno
mi ha coperto
in una stuoia di paglia

*

nessuno sopporta
quelli come me: così
continuo a camminare

*

di quel fiume resta
il malinconico
greto: lo varco

*

esistono mani
atte a grattare
dov’è il prurito

*

mattino: nuoto
nella quiete
e l’acqua è calda

*

altre case oltre
quei vertiginosi picchi?
una mucca mi scorta

*

qualcosa cade
alle mie spalle – monti
che non vedrò mai più

*

finalmente bruciati
dei miei diari restano
trafitture di cenere

*

si rasserena la mente
sa che mi coricherò
tra queste montagne

*

dormire all’addiaccio
ogni tanto: in pace
come una zolla di terra

*

neppure una nube
sopra di me:
mi levo il cappello.

*

9 settembre 1930. Ancora in cammino per un altro viaggio. Non sono che un monaco che mendica, per questo parto per un altro viaggio… e ancora e ancora… Camminerò finché saprò camminare, andrò fino al punto in cui potrò andare.

*

mattina rapace, limpida:
questi sandali di paglia
mi fanno stare bene

*

rumore di onde
viene e va: quanto
è lunga una vita?

*

a volte non voglio
più mendicare:
contemplo i monti

*

16 settembre 1930, viaggio a piedi nel Kyushu settentrionale. Nuvole, pioggerella. Mendico nella città di Hitoyoshi. Ho imparato la pazienza. Il mio comportamento non è malvagio, ma incontro qualche ostacolo. Nonostante alcuni incontri spiacevoli, non ho perso la calma. Hitoyoshi è piena di locande, di osterie: ovunque, le donne sono agghindate come prostitute. La gente è invadente, ma è più generosa di quella che abita altrove. Accetto con gratitudine la moneta di rame di 1 sen che mi offrono queste donne: hanno i volti pittati di cipria, piatti, sono scarmigliate e prego per la loro felicità. Hai avuto sfortuna? Spero che ti unirai a un uomo che ami, che sia gioia la tua vita!

Un bracciante che suda dalla mattina alla sera, se è uomo, può guadagnare anche 80 sen; se è donna 50. Un carbonaio che lavora tutto il giorno ne guadagna al massimo 25; un pescatore su fiume Kuma (celebre per i suoi pesci dolciastri) può guadagnare 70 o 80 sen al giorno. Tutti sopravvivono a malapena. Di certo, non si godono la vita. Quando ci penso, penso che la mia esistenza è un privilegio, è più di quanto possa meritarmi.

20 settembre 1930. Gli occidentali cercano di conquistare le montagne. Le genti dell’Est le contemplano.  Per noi, le montagne non sono oggetto di studio scientifico ma un’opera d’arte. Con pazienza, assaporo la montagna.

*

nessuna casa nessuno
a cui elemosinare: nubi
fendono le rocche

*

vento notturno
qualcuno bussa
alla mia porta

*

se piove
non m’importa –
piove

*

1 ottobre 1930. Oggi, camminando, continuavo a pensare tra me e me: da quando esistono i treni e le automobili, camminare, e per giunta camminare con sandali di paglia, è un modo antiquato, inefficace, gravoso di viaggiare! Sulla strada passano di tanto in tanto automobili e biciclette: in pochi camminano. Eppure, proprio questo azzardo, questa azione tanto ridicola compiuta da un uomo tanto poco intelligente, giustifica la mia esistenza.

*

cucino da solo
mangio da solo
la zuppa di Capodanno

*

nessuno si cura
di me tranne
la pioggia all’orizzonte

*

cassetta postale:
rossa, ritta
nella nebbia

*

vorrei bere
proprio ora che
il sole tramonta

*

accendo il fuoco
come se aspettassi
un ospite

*

al piano di sopra
una donna fischietta:
piove

*

chissà chi mi vede
mentre vado
drappeggiato di pioggia

*

28 dicembre 1931. Ah – sakè sakè sakè – ho vissuto soltanto per il sakè – sakè: demonio e Buddha, veleno e lenitivo.

1 gennaio 1932. Ciò a cui aspiro da sempre è una mente pacificata, libera da preoccupazioni; il regno della sfera, una pienezza che trascende se stessi e gli altri. La fede ne è la fonte, la poesia l’espressione. Dunque: camminare camminare camminare finché non la ottengo.

Santōka Taneda

Gruppo MAGOG