Per scrivere bisogna ignorare cosa vuol dire scrivere. Occorre abbracciare il Mistero, scardinare la scrittura dagli stage, dai corsi, dalle combriccole, dalle congreghe, dagli agganci, dalle associazioni, dalle app, dalle piattaforme, dai salotti, dagli assessorati, dalle segreterie, dalle redazioni, dagli appoggi, dalle segnalazioni, dalle spinte, dai passaparola, dalle accademie; una volta si diceva così, accademie, designando un potere, adesso non si sa cosa dire, per formalismo o per paura di dire la rabbia che abbiamo in corpo.
Mi chiedo cosa vuol dire avere un corpo, nell’estrema circostanza di perderlo, di vederlo segnato, caduto, di essere azzerati dietro a esso, trascinati lontano da qualcos’altro. Cosa? Subire la furia o la fine di se stessi insieme al proprio corpo (la fine!), o di subire l’estrema delicatezza di se stessi, l’estrema prossimità all’enigma, all’Eterno, saltando al di là, andando oltre, ma senza il ponte del corpo, senza la consistenza di un ponte, senza le arcate che descrivono il ponte, senza i pilastri, senza l’unione e senza il passaggio del ponte, senza l’idea del ponte, senza la grazia del ponte. Si tratta, dunque, di un attraversamento che prevede l’abbandono, o meglio, la grazia dell’abbandono, e questo avviene nella vita, nella circostanza. Se volete, potete leggere tutto questo in un racconto di Kafka, “Il ponte”, dove un uomo si protende fra due rive per unirle, prendendo e poi perdendo la sua forma.
Si vede bene che più si scrive, più la scrittura si sveste, si denuda, diventa umana, diventa seria, drammatica (nella sua speranza di verità), intrattabile (nel suo desiderio di vincere l’illusione). Non vuole intrattenere più nessuno, non vuole fare più finta, non vuole giocare, non vuole scherzare a far finta, non vuole modulare l’alto e il basso, l’antico e il moderno, l’ironia e il dramma, il fantastico e il sociale, la fiction e la storia. Insomma, non è più ibrida ma radicale, si afferma nella radicalità dell’atteggiamento, nello scardinare la scrittura da tutto, lasciando solo il filo di umanità che presenta, poggiando la vicenda sul filo sospeso su cui scorre la luce scintillante del racconto, che è il residuo di umanità che ancora ci tocca il cuore; nell’illusione cocente che viviamo, a causa del desiderio di successo che abbiamo coltivato, nell’inutile inseguimento di premi, presentazioni, strategie editoriali, bisogno di apparenza. Che è tutto quello che sanno insegnarci, che hanno la pretesa di insegnarci. Per me sarebbe già un successo riuscire a finire queste poche pagine, arrivare in fondo al loro significato. Lo dico considerando la situazione strutturale che viviamo, di commercializzazione di tutto, di negazione della realtà, con conseguente scelta di affidarsi a un sogno, il nostro sogno personale, non quello di Dio, quello che Dio sogna per noi, che sarà sempre migliore del nostro, mi spiego?, così come siamo condizionati dal tamburo battente delle mode a cui dobbiamo aderire, dobbiamo obbedire, a scapito di un pensiero nostro (quello sì!), critico, originale, che non sia dettato dalla pubblicità. “Cadaveri per la pubblicità” ha scritto Miguel Angel Asturias, un capolavoro della letteratura, andate a cercarlo, a un certo punto vi troverete davanti alla seguente frase: quanti più cadaveri, più notizie…
E le morti che non fanno notizia? Io credo nella preghiera, nell’affidamento a questa, nel pensiero e nel gesto che rappresenta, di voler affidare un qualunque uomo, un qualunque individuo o persona dimentica alla salvezza di Dio, alla Sua considerazione profonda, inimmaginabile per noi, per me, ma che evoca la sua forza caritatevole e di esempio, di modello, di continuo rinnovamento del dire, in quanto perenne dire, Eterno dire. Mi ha sempre colpito l’Ave Maria, quando recita: adesso e nell’ora della nostra morte, in cui si pone una distanza fra il momento presente (qualunque momento presente) e il momento, anzi l’ora, della fine, scorciando l’effetto prospettico del tempo, che induce al pensiero, alla riflessione di quello che vivo adesso e quello che vivrò, piegando il tempo fino a rendere un arco temporale grandioso, misterioso, che corre lontano. Solo in apparenza abbreviandone il tempo, la fatalità contenuta in quel tempo. Bensì rendendo ogni tempo il tempo che si confronta con tutto il tempo dilatato nello spazio di ogni esistenza e di ogni momento o ora che ci vengono concessi. Un’intuizione temporale sublime, formidabile, mai nessun testo è arrivato a dire in sintesi l’Eterno, mai nessun testo così convincente, in cui è detto l’Uomo Intero, la sua misura che è un palpito, è un soffio, la sua misura che sta dentro un palpito e un soffio di Eternità, perché scandito dal desiderio di Dio, desiderio assoluto di Bene.
Adesso e nell’ora della nostra morte, contrae, scorcia e dilata, unisce due punti lontani e li ribalta, provocando un’immagine di pensiero, di Speranza, che torneremo bambini, di nuovo, un giorno, torneremo bambini, torneremo all’inizio della nostra avventura, che è quella di credere, di avere la forza di credere, nonostante tutto, nonostante tutto ci trascini lontano da noi stessi, dal vero significato di quello che siamo.
Accade nel romanzo “Morte precoce” di Cesare Greppi (Il Canneto Editore, 2020), preceduto da una precisa, rigorosa, intensa, nonché illuminante prefazione di Silvia De Laude, la quale ci informa che per metà (e ce lo conferma l’autore nella nota finale), il libro è una trascrizione di una cronaca antica, che si trova alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Mi ripeto: è quello che accade nel bellissimo “Morte precoce” di Cesare Greppi, quando, dopo un primo capitolo sulla cronaca della morte, della sofferenza, dell’agonia del novizio Niccolò, appena diciannovenne, in un monastero dell’Italia settentrionale del Seicento, ecco che nel secondo capitolo, si configura il richiamo alla precedente vita del giovane protagonista, attraverso brevi ma memorabili frammenti narrativi, del tutto conclusi, racconti che ci fanno conoscere o rievocano il tempo precedente di Niccolò, che ci è mancato nella prima parte del romanzo, dove tutto volge alla fine. Al titolo di Morte precoce, del primo capitolo, succede quindi il secondo, intitolato: Anamnesi: paradisi. “Non c’è bisogno di scomodare Erich Auerbach e il concetto di ‘interpretazione figurale’ per vedere nella storia di Niccolò una replica dell’imitatio Christi. Niccolò è un innocente rapito dal male” scrive Silvia De Laude nella prefazione.
Romanzo breve, piccolo libro di appena ottantacinque pagine, ma libro infinito, radicale, lirico, allo stesso tempo feroce, nel dire il male, il peccato, la colpa, e nello svolgere tutto questo in una vicenda altra, diversa da noi che leggiamo, dal nostro mondo. Eppure la straordinarietà di questo romanzo è pari alla Speranza che racchiude, rappresenta il suo cuore. Penso che sia nella radice la sua forza, o una particolare radicalità che consiste nel difendere la porta del cuore. La porta del cuore. Uso quest’espressione non per sentimentalismo, bensì per definire la maestà della parola, che è il centro di tutto lo spirito del libro.
Allo strazio del comparire della malattia nel protagonista (Niccolò negato, negato dalla sofferenza; dal carbonchio, che s’incide sotto l’occhio sinistro e porta una febbre pestilenziale), si aggiungono le allucinazioni, le tentazioni del male, provenienti da mostri, démoni, figure disumane, terrorizzanti, deformi, a cui Niccolò reagisce eroicamente: “‘Via’ disse, ‘sei un orrido mostro. Ho peccato, è vero, è difficile salire al cielo, è vero. Ma Dio è il testimone del mio pentimento, e la mia speranza non è una follia perché conosce la sua misericordia. Ora la terra si apre e vi inghiotte, voi siete quei folli che hanno perduto per sempre le soavissime delizie del paradiso’” (pag. 40).
Dunque la Speranza non è una follia, e non è nemmeno un’illusione, sarebbe come negare l’Eterno. Apprendiamo, però, che è difficile, è un combattimento duro. “La fede che più amo, dice Dio, è la speranza” scrive il grande Charles Peguy, nel “Portico del mistero della seconda virtù”; non smetteremo mai di ricordarci di lui. Così come è necessario ricordare la bella prefazione a “Morte precoce” di Silvia De Laude, dove si dice che Greppi è considerato uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, stimato dai critici più sapienti e avvertiti, ma nonostante ciò, il testo in questione, rifiutato dagli editori italiani, è uscito nel 2007, tradotto in francese, e solo adesso vede la luce in Italia, mentre “in Francia l’accoglienza è stata entusiastica. L’Humanité ha dedicato un’intera pagina allo scrittore italiano (…) Molti non si sono capacitati del fatto che simili gioielli fossero nel nostro paese del tutto sconosciuti anche ai letterati di professione” (pag. 13). Non era sfuggito, invece, al mio amico poeta Antonio Trucillo, che me ne parlava, essendo lui un estimatore di Cesare Greppi. Così vanno le cose.
Ma è il corpo, il vero protagonista di questo magnifico romanzo. Il corpo ammalato e poi felice, sognante, nel paradiso della prima esistenza, che è quello a cui siamo destinati, ricordo e approdo futuro, dell’altra vita, che cancellerà la prima. Un po’ come quando un’esperienza positiva, riuscita, cancella tutti i nostri crucci, i nostri difetti, le nostre paure, i nostri dubbi infernali, tortuosi, che non ci tormentano più, finché la seconda esperienza si sostituisce alla prima. È questo, mi pare, il senso più profondo di “Morte precoce”: che cosa vuol dire avere un corpo, per noi umani, per noi sensibili, per noi esseri umani sensibili, significa avere l’estrema e sconcertante percezione di perderlo, ma in cui consiste la vera smentita, la vera promessa futura. Corpo di prodigi, di benefici del cielo, corpo che arde nel pensiero della morte, corpo di litanie, corpo di preghiera, corpo che sente fremere le ginocchia sul legno, corpo di moribondo e corpo di gioia, corpo vittorioso, corpo sconfitto, corpo di rinnovamento, corpo di insidie, corpo di dolore, corpo odoroso e corpo di grazie, corpo di salvezza, corpo soprannaturale, che aspira alla terra e ai sensi, corpo di rugiada, corpo di letizia, corpo di festa, corpo di rivelazione, corpo lirico, corpo di poesia… Ma non riesco più ad andare avanti, lo sapevo che non ce l’avrei fatta, tutto quello che mi viene non è mio: il libro è infinito, infinito!, è un mare aperto.
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Giovanni Bellini, “Pietà Martinengo”, 1505