09 Aprile 2021

La poesia è una battaglia. Yves Bonnefoy su Baudelaire

Perché Baudelaire? Ebbene, perché se “Dio è morto”, come si dice per indicare la scomparsa del divino dai significati e dalle figure con cui strutturiamo la realtà empirica, non bisogna tuttavia, insisto, che in quest’ultima vada perduto o semplicemente si diluisca il senso della trascendenza. La poesia è precisamente ciò che permette – l’unica a permettere – di rispondere efficacemente alla necessità di preservarla. In un essere al mondo istituito da lingue come le nostre, le lingue occidentali, fin dal principio altamente concettualizzate, le definizioni delle cose, le categorie di pensiero, le loro concatenazioni più o meno logiche costituiscono altrettante occasioni di dimenticare che ciascuna di esse nella sua generalità non può perdere di vista l’esistenza particolare del suo hic et nunc, nella sua finitezza – ma anche nella sua infinità. Un infimo tozzo di pane, la più piccola nuvola in cielo sono comunque eucaristici, cosa che i pittori riescono talvolta a significare. E che la poesia, più radicale dell’arte, essendo fatta di parole, può non solo esprimere ma riscoprire; mentre il discorso concettuale, che la circonda ma che essa rifiuta, rischia di cancellarne persino la memoria.

Il genio di Baudelaire è consistito nel fatto di avere avuto per primo l’intuizione della pienezza della poesia, ma anche di averne saputo esplorare la possibilità, sperimentandola non come uno sprazzo che baleni in una fantasticheria d’artista, ma fin dal principio come un lavoro da portare avanti fin dentro l’oscurità della psiche, là dove l’intricata morale vigente, di natura concettuale, vota l’esistenza alienata ad aporie, a conflitti senza sbocco, a speranze dapprima ostinate, poi rinunciatarie. Questa intuizione fu una luce, inizialmente un bagliore, fiammella che animerà le ombre in quei luoghi sotterranei che l’immaginario dei romanzi gotici, ricordiamolo, aveva presagito. Un desiderio di illuminazione, di presenza, ma anche l’accettazione, sotto un cielo presentemente “fangoso e nero”, di una ricerca che sarà per lungo tempo priva di punti di riferimento. Il lavoro poetico, trasgressione del piano della rappresentazione, non può che essere difficile, poiché è nel cuore dell’elemento concettuale, ossia su più livelli di lingua, cultura, conoscenza, e dunque nel luogo più segreto dell’esistenza vissuta che esso deve svolgersi, assumendo i limiti della persona, affrontando il suo destino, rivivendone i drammi, trasfigurandone i desideri. La grandezza dell’autore de I fiori del male consiste appunto nell’avere compreso che così doveva essere e, coraggiosamente, nel non essersi sottratto a un compito che non poteva che condannarlo, tra altre infelicità, all’incomprensione di chi lo circondava.

Baudelaire ha individuato nelle situazioni della sua esistenza intima – strutture edipiche, enigmi della maternità, fatalità di un temperamento, un ambiente sociale ostile a qualunque devianza – i dati del suo lavoro di poeta, il materiale di quella che chiamerà la sua alchimia. Ha fatto del rapporto difficile e burrascoso, ambivalente, con la sua compagna Jeanne Duval, il crogiolo di un’alchimia non più della materia, ma della vita, e ha così conseguito, almeno in momenti come quello de “Il balcone”, quel ricongiungimento della finitudine e dell’essere che la poesia non solo promette ma anche, come dimostra quella poesia, è in grado di offrire. La riflessione sul suo secolo non è tuttavia il luogo per soffermarsi su Baudelaire, cioè l’uomo che egli fu o la sua opera complessa e perfino contraddittoria. Oggi mi importa principalmente sottolineare la rivoluzione intrapresa dal suo pensiero e fors’anche, in primo luogo, dalla sua pratica di una scrittura impregnata di vita quotidiana. Un ampliamento, un’esaltazione dell’uso di parole appropriate per “cambiare la vita”, come ha affermato il più intenso e determinato dei suoi discepoli.

Le parole sono state fin dagli albori dell’Occidente l’ausilio del pensiero, la cui vocazione è analitica, vuoi come struttura di conoscenza vuoi come guida dell’azione o addirittura come sua limitazione. Ognuno carica di uno o più concetti, le parole hanno messo le loro capacità relazionali al servizio di significazioni con cui il pensiero erige ciò che chiamiamo il nostro mondo… Ma come non percepire nelle più semplici parole della vita quotidiana un residuo della presenza immediata di ciò che è, quella presenza originale che si provava nell’infanzia di fronte agli alberi, le pietre, o dialogando con gli altri? La capacità dei grandi vocaboli di evocare una realtà nella sua pienezza ci coglie di sorpresa, ci commuove, talora persino ci sconvolge quando ascoltiamo particolari versi.

Le parole hanno dunque un potere; ma sono tenute sotto controllo. La cosiddetta retorica non ha altra funzione, fin dalla nascita in Grecia del pensiero concettuale, che di mantenerle sottomesse al compito di coordinare, analizzare, significare, laddove l’eloquenza non è che il modo più abile e insidioso di privare l’impulso poetico della coscienza di sé. E quale efficacia ha dispiegato l’incessante lavoro dei retori! Ancora all’epoca del romanticismo, quando molti poeti sanno comunque cogliere l’afflato dell’unità negli animi, Victor Hugo immagina che sia sufficiente utilizzare un maggior numero di parole per rinvigorire il rapporto con il mondo. Vuole differenziare la rappresentazione, poiché dimentica, almeno a momenti, che ciò che conta è la presenza.

Mettere “un berretto rosso al vecchio dizionario”, rafforzare ulteriormente gli aspetti dell’apprensione concettuale della realtà, non fu certo l’auspicio di Baudelaire, il quale ben comprese che è grazie alla memoria del referente e non al gioco dei significati che le parole possono rinnovare l’esistenza e che, nel restituire loro questo potere, la forma, nella poesia, è creatrice, e le libera dall’obbligo di limitarsi a significare. La parola, la grande parola libera e sonora de “Il balcone”, de “Il cigno”, è dunque il cuore della poesia, il suo decisivo, possibile contributo a quel nuovo “dire” cui aspirarono Baudelaire, Rimbaud, e prima ancora Leopardi, Wordsworth o Nerval, e a breve Yeats nella sua lingua: è il luogo della battaglia che bisogna continuare. Se il XIX secolo ha un futuro sul piano del “cambiare la vita” che mi sembra essenziale, è perché la parola ritornata poesia è stata riconosciuta come il suo lascito fondamentale; è in primo luogo questa la battaglia, questo il dovere supremo dell’essere parlante in preda alle contraddizioni, o addirittura alle aporie, del linguaggio.

Ma quanto è difficile condurre questa battaglia! Andare all’albero nella parola “albero” all’inizio è semplice, quando il verso decasillabo o alessandrino prende questo nome o qualunque altro nella sua maestà augurale; ma bisogna poi abbandonare questo rifugio costituito dal dizionario, entrare là dove gli esseri vivono e moriranno, affrontando l’ordalia della finitezza, benché da sempre la mente – diciamo piuttosto l’intelletto – si siano sottratti a questo compito, una pigrizia spirituale che non sembra prossima a scomparire… Il XX secolo ha ereditato l’interesse che la parola risveglia, ma solo per vedere nel nome proprio delle cose un crocevia di concetti. Di nuovo, un forte rinchiudersi nell’astrazione con tutti i pericoli di uno spazio dove non vi è altro che finzione narrativa. Non sapremo più difenderci dalle ideologie: la grande parola, quella che rende la vita un luogo di alleanza anzitutto tra presenze, ne sarà vittima, ancora una volta.

Dobbiamo fare attenzione a ciò che è accaduto ne I fiori del male: è in gioco la poesia. Il suo contributo decisivo a quel soprassalto di coscienza che dobbiamo tentare.

Yves Bonnefoy

*Il testo è tratto da: Yves Bonnefoy, “Il secolo di Baudelaire”, Moretti & Vitali, 2016, traduzione di Anna Chiara Peduzzi

Gruppo MAGOG