Batté sul tempo i Beat, Robert Lowry. Alveolato dai fumi dell’alcol, sfumò nella dissoluzione polmonare. Si consumò, settantenne, errando fra sanatori e ricoveri per veterani. Aveva servito la bandiera americana in Italia e in Africa – la guerra funse da arto fantasma della sua scrittura. Morì dov’era nato, a Cincinnati, nel 1994. Al tempo, tutti i suoi libri erano proscritti, fuori catalogo. S’era professato antisemita – la seconda moglie, ebrea, l’aveva fatto internare in manicomio. Ne sposò altre due. Amava le lune di miele. A dolcificare l’oblio editoriale del Postwar Novelist dell’Ohio, il «New York Times» elargì il suo necrologio.
Considerazioni di Thomas Mann, il gingillo editoriale di Robert Lowry – e del suo sodale, l’illustratore Jim Flora –, The Little Man, deteneva gli attributi per volgersi in gioiellino artistico-letterario della stampa indipendente. “Il materiale che avete raccolto finora per la vostra rivista mi sembra quanto mai interessante e ho l’impressione che The Little Man possa diventare il centro di interesse delle giovani, nuove aspirazioni artistiche in America. Forse non è un caso che questa coraggiosa avventura abbia luogo a Cincinnati, una città in cui ho potuto percepire, anche durante il mio breve soggiorno, un’atmosfera di insolita attività amichevole-culturale” – è stampato, in doppia lingua, sul retro di copertina di uno dei minuti volumi tirati in copie ridotte.
“[Thomas Mann] era in città per una conferenza e alloggiava a casa di un banchiere. Così prendemmo il tram fino a lì, riuscimmo a parlare con lui per un po’, gli lasciammo alcune copie della rivista e lui ci scrisse una lettera di raccomandazione che usammo per sollecitare gli abbonamenti” – racconta Jim Flora, artista dal tratto di inquieta stravaganza.
Militi da stampa nel seminterrato di casa, lui e Lowry parcellizzarono ogni numero della rivista in libretti separati – ciascuno con un solo scritto –, il lettore poteva poi assemblarli da sé per completare il numero. Di scarsità, virtù.
The Little Man incasellò futuri talenti – William Saroyan e Jesse Stuart nel primo numero, nell’estate 1939; James T. Farrell e il poeta Weldon Kees; Charles Henri Ford e William Edward March Campbell. Lowry si schermò dietro pseudonimo – firmò come James Caldwell un pezzo sulle sue esperienze immaginarie nella guerra civile spagnola, “In Defense of University City”. Convinse pure Ezra Pound, che lo lodò come autentico.
Nel 1942 The Little Man si sciolse, orizzontale – era l’orizzonte della fine. Lowry era stato arruolato fra le maglie dell’esercito. Trascorse la maggior parte del conflitto a redigere e progettare giornali.
Anni dopo, Flora ne stringò un ritratto:
“Ero incuriosito dalla sua verve e dallo sguardo selvaggio che aveva negli occhi. […] Ho imparato più da Bob Lowry che da qualsiasi altra persona. Aveva una tale profondità di vedute. Un cervello come pochi”.
Le donne e l’alcol, però, colpirono alla carotide dello scrittore. Poi, la schizofrenia. Alla dissipazione patinata degli habitué del Greenwich Village, ai mescolati alla mescalina alla Charles Bukowski, Lowry preferì poi le austere linee del partito nazista americano. Strinse legami col suo fondatore, George Lincoln Rockwell. La sua carriera si suicidò in quell’attimo.
L’istante prima, per Ernest Hemingway, era “uno dei migliori giovani scrittori americani”. Il ‘Papa’ lodò il suo primo romanzo, Casualty. Lo pubblicò nel 1946 la New Directions, dove Lowry fu assunto da James Laughlin – disegnò le copertine dei libri di Tennessee Williams, James T. Farrell, Christopher Isherwood, Thomas Merton, Dylan Thomas, Pablo Neruda, Henry Miller.
Ideò storie fin da bambino, Robert Lowry, sedotto dalle vibrazioni della macchina da scrivere – “Tranne che all’ora dei pasti, la mia famiglia non mi vedeva quasi più. Avevo divorziato da loro. Avevo trovato il mio vero amore” (dal romanzo autobiografico The Big Cage, Doubleday, 1947). A nove anni i suoi racconti finirono sul «Cincinnati Times Star».
Mi troverai nel fuoco è nostalgia di una mancata nostalgia, pregio del tornare dove non bisogna tornare, porosa similitudine dei giorni – esercito o sanatorio che sia. È apolidia in patria. Sepoltura in utero.
“Era tornato al grembo originario, a Doanville, perché aveva finito, perché non voleva più viaggiare, non voleva più provare emozioni, non voleva più nulla. Il grembo o la morte, il principio o la fine: ignorava quale Doanville fosse giusta per lui. Forse entrambe, erano uguali”.
Mi troverai nel fuoco èviolenza del ritorno, più che del conflitto. Del rientro da mutilato. Non veterano, né eroe. Forse, poeta mancato.
E il fuoco cammina con Lowry, nel 1949, quando vede la luce The Wolf That Fed Us (Doubleday) – nel capitolo “The War Poet” rivela, per mezzo di rari versi, che della guerra non soffre il combattimento, ma la negata frivolezza della scrittura.
“Eri un poeta prima di entrare nell’esercito?” “Volevo esserlo”.
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Non posso scrivere una poesia, stanotte
Muore ovunque la gente, stanotte suda il freddo e la fame, milioni senza casa. Spari piagano l’Europa. Morte atterra sugli uomini. Perché, non sanno.
Soldati si sparano addosso. Militari americani, inglesi, sudafricani, polacchi, tedeschi, austriaci, italiani, brasiliani, cechi, russi,
jugoslavi, francesi, norvegesi. Alcuni in agonia. Altri feriti. Si ammazzano a vicenda, stanotte. Perché dovrei scrivere una poesia?
Mi chiamo Andrew J. Purdy. Sono soldato in Italia. Non verrò ucciso perché sono nell’equipaggio di terra dell’Aeronautica. Mi sento in colpa.
Mi sento in colpa perché non sarò ucciso. Sono ben nutrito. Staziono ben distante dalle linee. Tornerò vivo in America. Mi sento in colpa perché non morirò anch’io.
Mi sento in colpa perché ho voglia di scrivere poesie. Mi sento in colpa perché sono pulito, non infangato. Mi sento in colpa perché sono intero, non squarciato in due. Mi sento in colpa perché non ho ucciso nessuno.
Mi sento in colpa perché sono un uomo. Mi sento in colpa perché non odio il nemico. Mi sento in colpa perché non credo nella guerra. Mi sento in colpa perché non ho colpe.
Non posso scrivere una poesia, stanotte In troppi muoiono e io ho troppe colpe.
*L’articolo, la scelta e la traduzione della poesia di Robert Lowry sono di Fabrizia Sabbatini