È strano che il sistema editoriale italiano si sia dimenticato di una figura tanto singolare come María Luisa Bombal. Credo giochino, grosso modo, le consuete questioni: appartenenza a un paese ‘minore’ nella ‘geopolitica’ della letteratura; incapacità di assorbire un linguaggio al di là del consueto; prepotenza di una scrittura ‘femminile’ che, per ardimento, poco si presta alla semplificazione ‘sociale’, alla mera manualistica etica.
Ad esempio, Trecce. Il racconto, uscito in origine su rivista, nel 1940 – qui tradotto grazie a Giulia Nardini –, è strutturato come una fiaba sapienziale. I capelli della donna sono connessi alle profondità della terra: alla natura del bosco, alle infuocate alghe. Perdendo contatto con i capelli, con le trecce, le donne hanno smarrito la propria naturale preveggenza, i loro poteri magici. I capelli: culla e oceano, prima materia della vita, portale che ammette alle stanze dei segreti e dei piaceri. Le trecce istruiscono il legame, lo distribuiscono; la treccia va tagliata in segno di lutto – o va consegnata, in forma di dono, analoga all’anello, al palco del cervo.
La critica all’oggi – il centro estetico che ha sostituito l’arte arcana della bellezza, la malizia in vece della malia, l’apparenza al posto dell’apparizione, la presenza che ha sostituito la prestanza – si svolge senza proclami, bensì istoriando una storia. La scrittura di María Luisa Bombal, soprattutto, sorprende; fin dalla prima frase, di eletta disarmonia, che va letta in originale: “Porque día a día los orgullosos humanos que ahora somos, tendemos a desprendernos de nuestro limbo inicial, es que las mujeres no cuidan ni aprecian ya de sus trenzas”. Slacciati dalla treccia, non si scatena altro che il vieto orgoglio umano.
Anche il racconto, in effetti, si dispone come una capigliatura, così pieno di snodi, di morbidezze fanciulle, irte di spine.
Nata nel 1910 a Viña del Mar, in Cile, da madre di origine tedesca, María Luisa Bombal viene svezzata alla letteratura leggendo le favole di Andersen e dei Grimm; crescendo, dichiarerà di essere stata influenzata da Rainer Maria Rilke, Knut Hamsun, Theodor Storm. Specie di iceberg in fiamme, aperta a tutte le contraddizioni, María Luisa studia a Parigi, alla Sorbona – il padre, morto che lei era bimba, ha ascendenti francesi – dove si laurea sull’opera di Mérimée, ma, soprattutto, conosce Antonin Artaud e l’attore Jean-Louis Barrault.
Negli anni Trenta, la ragazza, di spiazzante bellezza, ritorna in Cile. Pablo Neruda ne intende il talento e le fa da mentore: la ospita a Buenos Aires, dove è console, la chiama la mangusta, “la bestia d’Oriente che ovunque si accomoda, discreta e soave”. In quel rifugio, la Bombal scrive La última niebla – passato in Italia per Sellerio, a cura di Angelo Morino, come L’ultima nebbia, 1997 – il libro più noto, uscito con una nota di Norah Lange. Scrittrice dall’esasperata precocità, María entra nei gangli della rivista “Sur”, con cui pubblica il secondo romanzo, La amortajada (1938). Diventa amica di Borges; qualche anno prima Federico García Lorca le aveva presentato l’artista argentino Jorge Larco, omosessuale professo, che María sposa per gioco, “senza alcuna passione”, e da cui divorzia, poco dopo.
Donna abitudinaria, ma abitata da improvvise sregolatezze, la Bombal era stata marchiata, ventenne, dall’amore disordinato per Eulogio Sánchez Errázuriz: aviatore, imprentato con alti politici cileni, ricco, accasato. Incattivita dalla frustrazione, la ragazza aveva tentato di uccidersi con una pistola: riuscì a salvarsi; l’estremismo di una frase pronunciata tra i narcotici – “Mi ha rovinato la vita, non posso dimenticarlo” – ha il grandangolo della vendetta. Così, otto anni dopo, scrittrice ormai compiuta, María Luisa Bombal si presenta all’Hotel Crillón di Santiago del Cile, dove è ospite il suo antico amato. Sono le ore 17 del 27 gennaio 1941. L’uomo non la riconosce. María aveva scritto, negli ultimi mesi, una manciata di racconti di limpida bellezza, tra i grandi della letteratura sudamericana del Novecento. Juan Rulfo riconoscerà in lei il suo più diretto precursore: colono di un nuovo modo di guardare la realtà. Alla fine del gennaio del 1941, però, María Luisa Bombal è soltanto una donna disperata, preda di una ossessione senza assoluzioni: arma la rivoltella, spara a Eulogio, l’amore della giovinezza. Lo ferisce a un braccio; finirà in carcere per alcuni mesi; infine, si autoesilia negli Stati Uniti – “volevo ucciderlo per uccidere la mia sfortuna”, dirà.
Caso particolare di scrittrice radicata nella rarità, redenta da uno spazientito pudore. Sparando al suo amato, María Luisa Bombal spara a se stesse, uccide la scrittrice. Non scriverà più. A 31 anni María Luisa Bombal abbandona la scrittura – pubblicherà, nel 1946, un proprio manoscritto ritrovato, La historia de María Griselda. Negli Usa, amerà Willa Cather e Sherwood Anderson; occupandosi, a tratti, di doppiaggio (tra l’altro, prestando la voce a Judy Garland in The Clock, film di Vicente Minnelli del 1945). Si sposa con un francese, Raphaël de Saint-Phalle, più grande di lei, abbiente, che la lascia vedova nel 1969. Da tempo, aveva inaugurato una profonda amicizia con Gabriela Mistral.
Il ritorno in Cile, nel 1973, è punteggiato da uno stuolo di premi letterari, che non la aiutano a trovare rinnovata ispirazione. Al giogo di una solitudine ostile, a un talento omicida e al contempo suicidale, María scoscende nell’alcolismo; muore in una casa di riposo, a Santiago del Cile, nel 1980.
La figlia Brigitte spedisce ai parenti un abito da far indossare al cadavere. Non partecipa al funerale della madre: litigavano spesso, Brigitte compiva 35 anni quell’anno, preferì starsene negli Stati Uniti; malsopportava le donne che si lanciano in amori obliqui, snidati dall’infelicità – le donne che intrecciano e strecciano i loro capelli come si leggono le stelle e le loro inferme seguaci, le comete.
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Trecce
Originalmente pubblicato sulla rivista “Sobre Vivir” (2 settembre 1940)
Dato che le donne non curano e non apprezzano più le loro trecce, giorno dopo giorno, orgogliosi umani che ora siamo, tendiamo a staccarci dal nostro limbo iniziale.
Felici, ignorano che con lo staccarsi delle trecce, interrompono le magiche correnti che sbocciano dal cuore della terra.
Perché la capigliatura della donna parte da ciò che è più profondo e misterioso; da lì dove nasce e trema la prima bolla; ed è da lì che si districa, lotta e cresce tra molte forze aggrovigliate, fino alla superficie di ciò che è vegetale, dell’aria e addirittura delle privilegiate fronti che lei sceglie.
Le oscure e lucide trecce di Isotta, principessa d’Irlanda, non hanno forse assorbito quella prima bolla mentre le sue labbra bevevano la prima goccia di quel filtro incantato!
Non fu, per caso, lungo queste trecce che le radici di quel filtro fluttuarono veloci verso il loro umano destino? Perché non ci sono dubbi che nessun’altra capigliatura gode di un tale rumore di fonti sotterranee, di un tale sospiro di brezze e di foglie. Rumore e sospiro che in quelle notti di amore e luna, Tristano scioglieva per ascoltare estasiato il canto lontano, persistente e segreto… il canto naturale di quella capigliatura.
E so e devo dirlo, che fino a quando Isotta dormiva, la sua capigliatura continuava a respirare semiaperta, che fosse sul guanciale del castello di Tintagel, che fosse nei campi di grano dell’esilio… e fioriva con strani fiori che lei intimorita strappava ogni mattina.
*
E le bionde trecce di Mélisande, più lunghe del suo corpo delicato.
Trecce che, sporgendosi imprudenti, durante un tramonto autunnale, caddero dall’alto del torrione, proprio sopra le forti spalle del fratello del Re… suo marito.
Mélisande, grida Pelléas spaventato. Poi scosso e infine facendo parlare il suo cuore… Mélisande mormora… le tue trecce, le tue trecce che finalmente posso toccare, baciare, avvolgermi in loro.
In risposta solo un sospiro dall’alto del torrione. Le trecce avevano già confessato, senza saperlo, quella verità timida e ardente, che la loro padrona si portava così ben nascosta nel cuore.
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E perché non ricordare ora le trecce della nostra dolce María di Jorge Isaac! Trecce mozzate e avvolte nel grembiule azzurro con il quale annaffiava il suo piccolo angolo di giardino.
Trecce piene di farfalle secce e di ricordi con le quali Efraín ha dormito sotto il guanciale la sua lunga notte di angoscia.
Trecce morte, comunque testamento vivo che lo obbligava a continuare a vivere, anche solo per ricordarsi di lei.
L’ottava moglie di Barbablù… ve la siete dimenticata? e di come l’eccentrico e severo marito partito per un viaggio inaspettato affidava alla sagace sposa le chiavi e l’accesso a tutte le stanze della sua sontuosa e vasta dimora, salvo proibirle di usare quella minuscola e arrugginita che portava all’ultima stanza di un abbandonato corridoio senza tappeti.
In più non occorre ricordare che durante questa gradita assenza, in mezzo a così tanto divertimento, amiche ridenti e ospiti eleganti, il gioco che più la intrigava e tentava, era l’unico gioco proibito. Quello di introdurre nella serratura corrispondente la misteriosa chiavetta di quell’intima stanza abbandonata.
È risaputo che la curiosità ha sempre trionfato su ogni altra passione sia nelle donne che nei gatti. Quindi, quando il suo padrone e signore tornò d’improvviso, la sposa disobbediente dovette consegnargli tremante il mazzo di chiavi, tra le quali anche se maliziosamente nascosta, il temibile uomo scoprì la chiave non solo arrugginita… ma anche macchiata di sangue.
«Lei, signora, mi ha tradito» ruggì, «non le resta altro destino che riunirsi con le sue tristi amiche alla fine del corridoio».
Detto questo sguainò la spada…
E a cosa serve questo racconto che conosciamo dalla nostra più tenera età, vi starete chiedendo? Non ha niente a che vedere con nessuna treccia…
Sì che ce l’ha, rispondo con forza. Non capite che non era la piccolissima tregua concessa dal marito indignato alla sua incosciente sposa, perché pregasse per l’ultima volta; e non erano né i lamenti né i richiami che Ana terrorizzata lanciava dalla torre chiedendo aiuto per la sorella.
E nemmeno il cavalcare forsennato e capriccioso che in quei momenti portava due fratelli guerrieri in visita al castello.
No, non è stato niente di tutto questo a salvarla.
Furono le sue trecce e niente più che le sue trecce complicatamente pettinate in più di cento vipere setose e capricciose, quelle che, quando l’implacabile marito la lanciava in modo brutale ai suoi piedi, per rispettare i suoi doveri, bloccavano e ostacolavano le sue dita criminali, aggrovigliandosi in una disperata matassa lungo il filo della spada, ostinandosi a proteggere quella nuca delicata fino alla provvidenziale comparsa dei due cosiddetti guerrieri, anche loro fratelli carissimi, invitati in precedenza dalla nostra povera curiosa.
Quindi, non invano per diciotto innocenti e allegre primavere, questa ragazza che poi sarà l’insensata castellana e ultima moglie di Barbablù, ha spazzolato questa sua capigliatura cantando, trasmettendole vigore e bellezza.
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«Era molto pallida come le donne che hanno i capelli molto lunghi»: così Balzac descrive una delle sue enigmatiche eroine.
Non era un capriccio verbale.
Balzac aveva senza dubbio intuito questa corrispondenza intima che si stabilisce tra gli esseri umani e il profondo mistero della terra.
E io sono qui per comprovare e illustrare questa sua affermazione con lo strano avvenimento che tanti di noi hanno vissuto e a cui abbiamo assistito non molti anni fa.
Perché dire nomi e luoghi? Chi li conosce li sa; gli altri, possono benissimo indovinare.
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Due sorelle.
Ultime di una lunga famiglia, brillante e potente, anche se sempre perseguitata da passioni nascoste, morti inaspettate, suicidi.
La sorella maggiore, appassita già da molto giovane si tagliò i capelli, si mise un poncho di vigogna e nonostante le proteste addolorate dei mondani genitori, si ritirò nell’immensa tenuta del sud, che lei stessa si dedicò ad amministrare con un pugno di ferro. I contadini raffinati la chiamarono subito l’Amazzone. Era testarda ma giusta. Brutta ma con un portamento attraente e un sorriso generoso. Zitella… nessuno sa perché.
La minore al contrario era vedova per sua scelta, di donna ferita nell’orgoglio del cuore. Era bella ma di salute fragile.
Anche lei viveva sola, ma nell’antica residenza di famiglia in città. Aveva una voce soave, occhi castano-tranquilli, ma la treccia rossa che schiacciava in una pettinatura intorno alla piccola testa, gettava violenti bagliori sulla sua carnagione pallida.
Sì, era una donna dolce e terribile. Si innamorava e amava perdutamente.
Tutto iniziò quella notte d’autunno, quando il guardaboschi scese a valle urlando: «Incendio!».
Era da un po’ che con la fronte incollata al vetro della finestra, l’Amazzone osservava intrigata quella precoce alba purpurea, che spuntava là sopra, dentro i colli della proprietà… con la sua solita calma diede ordini al personale delle case, chiese il suo cavallo e si diresse verso l’incendio, in compagnia dei maggiordomi.
Intanto, in città, la sorella minore, tornata da un ballo, giaceva sul tappeto del salone, colpita da un improvviso svenimento.
Gli ospiti congedati, i servitori che dormivano e lei, per la prima volta, sommersa, abbandonata nell’ombra dei candelabri che aveva iniziato a spegnere. Un cattivo complice pareva quella raffica di vento gelido, che soffia e fa rabbrividire i tendaggi degli alti balconi, socchiudendoli per andare a posarsi su fronte, spalle e seni scoperti dell’indifesa.
Nella tenuta del sud l’Amazzone e il suo seguito salivano pendii, addentrandosi nel bosco e nei suoi incendi. Un altro soffio, ardente e acre, li investì, stormi di foglie bruciacchiate, uccelli accecati e nidi in fiamme.
Sapeva già di aver perso. In che modo e chi potrebbe riuscire a trattenere la furia di questa vampata!
L’Amazzone seduta sul tronco di un albero morto e caduto già da molti anni, rassegnata stoicamente allo spettacolo della catastrofe, con la tetra dignità con la quale un magnate oltraggiato assiste al saccheggio e alla distruzione dei propri beni.
Il bosco bruciava senza rumore e di fronte all’Amazzone impassibile gli alberi cadevano uno a uno silenziosamente e lei contemplava l’incendio come fosse un sogno: si annerivano, si sgretolavano, navata dopo navata, le colonne selvatiche di quella cattedrale familiare… e lei si permetteva di ricordare, pensare e soffrire per la prima volta…
Quell’enorme nocciolo che si consumava… non era sotto la valanga di quei frutti secchi che i suoi fratelli e le bambinaie si riunivano per assaporare il picnic tanto agognato?
E dietro quel gigantesco tronco… albero il cui nome dimentico, andava a nascondersi dopo le sue malefatte… e quei poveri funghi tremanti, che sotto il cedro strappavano e calpestavano senza pietà… e quell’eucalipto al quale si abbracciava – da piccola – piangendo stupidamente dopo aver capito e provato la prima delusione, questo dolore che mai confessò, questo dolore che la spinse a tagliarsi i capelli, a diventare l’Amazzone e a non amare mai… mai…
In città spuntava l’alba, sopra il tappeto del corpo inerte della sorella – la quale sempre aveva osato amare –, sprofondando con lievi spasmi in quella che chiamano la morte… ma siccome nessuno sapeva, non si trovò nessuno che potesse intervenire in tempo per salvare quella treccia rossa che persisteva anche dopo la sua pazza notte di balli.
E all’improvviso, laggiù nella tenuta, ci fu il crollo finale, l’esodo dei valorosi cavalli che tornavano con il manto e le criniere rizzati, a salvare i cavalieri quasi asfissiati.
Dall’immenso bosco in rovina cominciarono a sbocciare enormi lingue di fumo, in massa, dritte come alberi, irte nello stesso posto.
Per un breve istante, quel bosco fantasma ondeggiò e visse di fronte alla sua padrona e ai suoi servitori che piangevano. Lei no.
Dopo macerie, ceneri e silenzio.
Quando in città serrarono i balconi, sollevando la fragilissima per stenderla sul letto provando invano a rianimarla, a coprirla, era già tardi.
Il medico assicurò che aveva agonizzato per tutta la notte.
Ma il bosco doveva agonizzare e morire insieme a lei e alla sua capigliatura, le cui radici erano identiche.
Le verdi piante rampicanti che si avvolgono agli alberi, le dolci alghe arroccate agli scogli, sono capigliature fragili, sono la parola, l’arrivo e l’aleggiare della natura, sono la sua allegria e la sua malinconia, sono l’espressione con cui la natura introduce confusamente la propria magia e il proprio sapere nelle persone.
Ed è per questo che le donne di oggi, staccandosi dalle proprie trecce, hanno perso la loro forza veggente: non hanno più premonizioni né piaceri assurdi, non hanno più alcun potere magnetico.
Oggi, i loro sogni non sono che una triste marea che porta e riporta immagini stanche, statiche – o qualche altro incubo domestico.
María Luisa Bombal