21 Marzo 2024

Elena Garro, la scrittrice prodigiosa che ha lottato contro tutti

Per capire il personaggio. Quando la censirono tra i grandi protagonisti del realismo magico, Elena Garro si incattivì. Riteneva che quella fosse un’etichetta impropria, creata ad arte per ragioni di mero mercato. Secondo alcuni, la sua opera è più importante – decisiva, dicono – di quella di Gabriel García Márquez: una fotografia li ritrae mentre ballano insieme; la pensavano all’opposto quasi su tutto.

Nata a Puebla nel dicembre del 1916, studi a Città del Messico, di immediata bellezza, Elena Delfina Garro Navarro – così il nome per intero – si unì, dal 1937, a Octavio Paz, poeta, futuro Nobel per la letteratura, tra i più vigorosi intellettuali dell’epoca. Lui la portò con sé in Spagna, al Secondo congresso internazionale degli scrittori para la defensa de la cultura. Il congresso – replica di quello parigino del 1935, a matrice comunista – si teneva a Barcellona, Valencia, Madrid. Vi parteciparono, tra gli altri, menù alla mano, l’onnipresente André Malraux, Tristan Tzara, W.H. Auden, Pablo Neruda, Antonio Machado, José Bergamin, Rafael Alberti, Heinrich Mann. Per l’Italia, bastava Ambrogio Donini, storico, futuro senatore del PCI. Da quei giorni, molti anni dopo, Elena Garro trasse un libro corrosivo & suggestivo, tenero & violento, Memorias de España 1937. Non lesinò in pettegolezzi – l’invidia con cui Neruda omaggiava Huidobro e Vallejo, ad esempio – e in stoccate (“Era difficile immergersi d’improvviso nell’enigmatico linguaggio marxista; si direbbe che parlassero in un idioma cifrato”). Come sempre, difese un’unica parte, la propria:

“Senza sapere come né perché, capitai al Congresso degli Intellettuali Antifascisti, benché fossi anti nulla, men che meno una intellettuale, ma soltanto una studentessa universitaria e una coreografa”.

In Italia, il libro di memorie della Garro è stato tradotto da Jouvence nel 2020, pare “attualmente non disponibile”. Nel 2010, invece, Aracne ha pubblicato come I ricordi dell’avvenire il primo romanzo della Garro, uscito in origine nel 1963, uno dei suoi libri importanti – è previsto di prossima ri-uscita per Sur.

Elena Garro durante gli anni universitari

Eppure, nel suo mondo, la Garro è nota soprattutto per i racconti, capaci di imprimere un mutamento di rotta nella letteratura sudamericana. Giocava con gli enigmi e le allucinazioni, la Garro, con l’assurdo che ti divora dietro l’angolo, mostrò l’inconsistente tessuto che separa l’inganno dal vero, l’illusione dalla realtà, di per sé elusiva, complice in codici notturni, inspiegabili. In particolare – dicono i critici messicani – raccolte come La semana de colores (1964), Andamos huyendo, Lola (1980) costituiscono pietre miliari nella letteratura di laggiù, come i libri, distillati di spettri, di Juan Rulfo. Eppure, in Italia tali libri sono introvabili, intradotti. Non è difficile capirne la ragione: Elena Garro, pasionaria, donna di mondo, giornalista di primo piano, ha rifiutato di farsi imprigionare in un ruolo, qualsiasi esso sia. Antifemminista (“Il giorno in cui maneggeremo idee nostre, allora sarò femminista; finché ci occupiamo di intelletti maschili rifiuto di esserlo”), ha lottato, da sola, perché le donne avessero un ruolo di rilievo in un ambito prettamente ‘virile’: la letteratura. Il suo primo articolo è dedicato a Frida Kahlo, in diversi la ritengono – per esuberanza d’intelletto e lotte dalla parte perduta – una sorta di Juana Inés de la Cruz moderna. Vestiva in modo impeccabile, le piaceva intimidire; odiava

“la piccola borghesia, quella rappresentata dai Marx e dai Lenin, priva di grandezza economica e di potere divino, basata sulla politica e sugli intellettuali. La grande rivoluzione comunista, in fondo, non è che l’assalto al palazzo della classe più avida: la piccola borghesia”.   

Si sentiva, a prescindere, dalla parte dei contadini e dei sacerdoti: “Sono una agraria, perché sono cattolica. Devota all’Arcangelo Michele e alla Vergine di Guadalupe, patrona degli indios”.

Nessuno le perdonò il divorzio da Octavio Paz, nel 1959, e i suoi attacchi, viscerali, contro l’intellighenzia messicana di sinistra (in parte rappresentata proprio dall’ex marito). Vicina a Carlos Madrazo, presidente del Partido Revolucionario Institucional, di centrodestra, accusò gli intellettuali di essere i responsabili dell’avventato movimentismo studentesco, sfociato nel drammatico “massacro di Tlatelolco”, il 2 ottobre del 1968, narrato in diretta da Oriana Fallaci. È la lunga coda di una polemica incessante (che ci riguarda da vicino):

“Gli intellettuali messicani, abituati a pensare poco per ottenere ottimi vantaggi si sono astenuti da tempo dall’esercizio del pensiero: all’incertezza della disoccupazione hanno preferito il portafogli ministeriale”.

Nell’agosto del 1968 aveva guidato una manifestazione davanti all’ambasciata sovietica per protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia. Dopo i fatti di Tlatelolco, tutta la sinistra messicana le dà addosso: Elena Garro riceve minacce, le viene squadernata la casa. La scrittrice risponde da par suo: “Io sono Elena Garro: insisto perché mi arrestiate e se sono colpevole che mi fuciliate”.

In ogni caso, è l’inizio della fine. Elena Garro sceglie la via dura dell’esilio autoimposto, prima negli Stati Uniti poi in Spagna, infine in Francia. Porta con sé la figlia avuta da Paz, Laura Helena, nata lo stesso giorno della madre – aveva trent’anni. Sono anni da apolide culturale, in cui pubblica poco, rosa dagli incubi e dall’indifferenza della stampa. Tuttavia, continua a esibirsi nel mondo dei diplomatici e degli artisti – continua a sedurre. Si infatuò, per un tot, di Régis Debray; ritornò in Messico, definitivamente, soltanto nel 1992, a Cuernavaca: abitava in una casa assediata dai gatti, in un appartamento miserrimo, cibandosi di caffè, Coca Cola, sigarette. Quando la invitavano a parlare della sua opera, parlava di sé, del complotto che le aveva divorato la vita: “Mi derubano, mi aggrediscono, mi odiano, vogliono eliminarmi, tutti, mi torturano”. Negli anni Sessanta, tra l’altro, era stata sotto osservazione della Cia.

Morì nell’agosto del 1998. “Vorrei non avere memoria o trasformarmi nella pietosa polvere per sfuggire alla condanna di guardarmi”, scrisse. Come i grandi, volle di fare di sé un idolo per trafiggersi, per distruggersi.

In uno dei suoi racconti più noti, Il bugiardo – qui proposto nella traduzione di Giulia Filiciotto – tratto da La semana de colores, Elena Garro scrive di un bambino che scende da un autobus per fare pipì, si perde e compie un viaggio nell’aldilà, in luoghi desunti da un immaginario paradisiaco, tra Vergini, cani parlanti, il Re del Mondo e San Giuseppe. Il racconto è una piena di luce, è il sole stritolato come un limone: la scrittrice s’impania del linguaggio di un bimbo e il metafisico ha la concretezza del fango. L’infanzia, qui, ha uno dei suoi tributi letterari più audaci; eppure, la pura verità del bimbo è trattata come vile bugia dagli adulti. Triste metafora, si dirà: ma questa scrittura gronda di gioia. Un tempo, Elena Garro è stata felice.

***

Il bugiardo

L’autobus Flecha Roja attraversava a gran velocità i campi verdi. Quando si è fermato accanto a degli alberi, ho detto a mia mamma: «Vado a fare pipì» e lei mi ha risposto: «Vai».

Sono passato lungo il corridoio dell’autobus e i passeggeri mi hanno guardato molto arrabbiati, li ho visti storcere la bocca. Perciò mi sono allontanato, non volevo mi vedessero mentre andavo a fare i miei bisogni. Ho cercato un albero che mi coprisse, ma nessuno mi dava tranquillità e sono sceso in una fossa da cui non riuscivo più a vedere il Flecha Roja. Mi sono tolto il cappello nuovo e poi con il piede ho gettato della terra nella pozzetta. Io, come tutti gli altri, porto le huarache[1], quando va bene, e so che non proverò mai la gioia di indossare delle scarpe. Nell’autobus solo l’autista aveva le scarpe. Certo che le ho notate! Per me deve essere molto ricco. Quando l’ho cercato, il Flecha Roja era sparito. Se scompaiono cose più grandi come le città, quanto più un Flecha Roja! Non volevo farmi prendere dalla paura, anche se qualcosa mi diceva che era pericoloso stare da solo su quella strada, e sono rimasto a guardare la mattina fresca persa in mezzo al campo e mi sono accorto che la mattina era rotonda. Se guardavo davanti a me, la vedevo curva e se facevo un giro intero era rotonda e racchiusa tra le montagne. È stato allora che ho cominciato a spaventarmi, ma ho sentito le cicale cantare e le vespe ronzare, e se non fosse stato per quell’uccello, che ha cantato più forte, non mi sarei impaurito. L’uccello mi ha gridato: «Tontototototò!»

Non ho fatto in tempo a rispondergli che subito ha cantato: «Solettototototò!». E qualcosa come la mano di un morto mi ha afferrato per la gola e l’uccello mi ha avvertito: «Corririririrì!».

Ho fatto finta di ascoltare il suo avvertimento, sono rimasto calmo, poi ho fatto qualche passettino e a un tratto ho cominciato a correre. Ho corso e corso per campi verdi dove non c’era traccia del Flecha Roja. Correndo sono arrivato alla periferia di una città di case mezze gialle e mezze arancioni e mi sono detto: «Sto vedendo il mondo». Ma ho imboccato una lunga strada e sono uscito dal mondo. «Ora sono fuori dal mondo!», e ho camminato per quella lunga strada a occhi bassi. Quasi non osavo guardare le finestre chiuse delle case. Dopo sono passato davanti a una chiesa con due torri e, da cattolico apostolico quale sono sempre stato e tuttora sono, mi sono fatto il segno della croce, ma non è uscito nessuno. Un attimo dopo sono passato davanti a un’altra chiesa con una sola torre e mi sono fatto di nuovo il segno della croce, ma non è uscito nessuno. «Qui non ci abita nessuno», mi sono detto.  

Un cagnolino giallo molto allegro è spuntato da un angolo e si è messo a fissarmi. «Non c’è un cristiano», ho detto, ed ero grato della presenza del cagnolino, un essere tanto buono, dato che è corso verso di me scodinzolando, e a seguirlo sono arrivati molti cani, poveri loro! Alcuni erano gialli, altri grigi, alcuni con piccole chiazze bianche e altri ancora nerissimi. Erano tutti intorno a me e saltavano di gioia. «Sono usciti dal mondo per liberarsi dei sassi», mi sono detto e ho camminato con loro: formavano un cerchio attorno a me. Siamo arrivati in una grande piazza con una chiesa molto grande, mi piaceva l’atrio e i suoi cancelli aperti e mi sono messo lì con i cani. «È la parrocchia», mi ha detto il cane giallo. Li ho allontanati con il cappello perché so che i cani entrano in chiesa solo il giorno della benedizione. Quando le campane hanno cominciato a suonare, glielo stavo dicendo. Non c’era nessun campanaro, io mi sono spaventato e i cani sono rimasti calmi. Mi sono fatto il segno della croce e sono uscito dall’atrio stordito dalle campane senza campanaro.

Sono arrivato in un’altra grande piazza, gialla come la polvere d’oro, con i suoi chioschi per i musicisti. Nella piazza ci sono prati secchi e pilastri di pietra o di zucchero bruciato, o almeno credo. In fondo alla piazza ci sono altri due atri e altre due chiese con i cancelli sbiaditi. Il muro di un atrio è in pietra, con pilastri. «San Francesco!» ha affermato il cagnolino giallo. Non ho mai visto atri tanto grandi, dentro ci vanno tutti i paesi! Dietro il muro di pilastri ci sono altre due chiese, cavolo, non posso contarle perché so contare solo fino a cinque! E ho proseguito discreto. “Non esiste al mondo un atrio grande come questo”, ho pensato, e mi sono ricordato che non ero nel mondo.

Mi sono messo proprio davanti alla porta di San Francesco, ed era così grande che nessun uomo l’avrebbe mai aperta, e sono andato alla chiesa accanto: «È la Cappella Reale», mi ha detto il cagnolino, e abbiamo fatto il giro del muro, passandoci vicino, e ci siamo fermati alle tombe a muro. Ho alzato gli occhi per vedere la fine dei contrafforti, ma non c’era fine… Come sono belle le tombe dei santi! Sono tutte lì, ma i santi sono liberi di vagare.

La porta della Cappella Reale era semiaperta, l’ho spinta e ha fatto un cigolio, l’ho spinta ancora e ho aperto un buono spiraglio e sono riuscito a entrare. C’era uno stridio di uccelli, turbinii di uccelli e molte, molte cupole gialle e una fitta schiera di colonne bianche. Non è una chiesa qualsiasi, ha molte navate, ne ho contate cinque, ma ne ha di più. Ero calmo, tra i turbinii degli uccelli e le colonne bianche, quando ho sentito il cigolio di una porticina, da cui è uscita una vecchietta con le trecce e uno scialle. Volevo nascondermi, ma non ci sono altari e gli uccelli fanno il nido in cima alle colonne.

La vecchietta mi si è avvicinata: «Dove mi trovo, signora?». «A Cholula, nella Cappella Reale, che ha quarantanove cupole» mi ha risposto. «Ho già visto molte cappelle» le ho detto. «Qui ci sono trecentosessantacinque chiese, qui Dio ha una casa per ogni giorno dell’anno», mi ha detto con riserbo.

«E tantissimi uccelli?» le ho chiesto. «Questi uccellini vivono qui». «E lei… chi è?». «Rita…» ha risposto.

L’ho vista allontanarsi tra i turbinii degli uccelli e le sono andato dietro, pensando che in quella città Dio fosse tanto ricco da aver donato una delle sue case agli uccelli. Me l’ha detto Santa Rita, anche lei vive lì e mi ha trattato con gentilezza. C’è solo un altarino di legno, con una scala molto piccola e il corrimano di legno, che si trova vicino a un muro ed è così piccolo che gli uccelli possono pregare lì. Santa Rita mi ha condotto alla porta da cui era apparsa e ho scoperto che portava alla torre. «Sali, così potrai vedere dall’alto tutte le case di Dio», mi ha detto. Siamo saliti sul lastrico solare della chiesa e abbiamo visto le sue quarantanove cupole che spuntavano come enormi uova dal tetto e anche il cielo azzurrissimo, con piumette di nuvole, la sua aria fresca e azzurrissima e tante, tante torri e cupole di tutte le chiese del posto. Siamo rimasti a guardare quella mattina dell’altro mondo e poi Santa Rita mi ha accompagnato alla porta della Cappella Reale e mi sono ritrovato nell’atrio, dove c’è una croce grande come un albero e, sdraiati alla sua ombra, i cagnolini che erano contenti di rivedermi. Così è apparsa e scomparsa Santa Rita, che vive da sola in quella torre e ne esce solo per pregare con gli uccellini.

Sono andato nell’atrio di San Francesco, dove si trova il pantheon con le sue lastre di pietra, le croci, le ghirlande e le scritture, tutte in ottima pietra, poiché sono le tombe dei Magi e di altri re altrettanto magnifici. Era tutto calmo, non si sentiva neanche un rumore, e mi sono seduto su una tomba ad aspettare. Entrambi i lati erano chiusi da mura e in ognuna di queste c’era una piccola porta inferriata ed entrambe erano socchiuse. Le due porte puntano al cielo e la chiesa è dall’altra parte, su una collina. Le osservavo e che cosa ho visto? Un bambino come me che si è affacciato dalla porta di sinistra e mi ha guardato. Era uguale a me, ma non era me e quando è sparito, mi sono alzato e mi sono avvicinato in punta di piedi all’inferriata e mi sono affacciato e ho visto che giù c’era una stradina e un cumulo di paglia e sopra la paglia era sdraiato l’altro bambino e siamo tornati a guardarci senza dire niente. Mi sono allontanato con molta cautela e sono andato nell’atrio, con l’intenzione di aprire la porta della chiesa.

«È bruciata…» ho sentito la voce del bambino dietro di me. Mi sono preso un po’ di tempo prima di affrontarlo, mi sono girato e gli ho chiesto: «E tu chi sei, come ti chiami?». «Facondo Cielo» ha risposto.

E se n’è andato verso la porta principale della chiesa e io gli sono andato dietro. Sopra la porta c’è un balcone con un parapetto di pietra che permette a Dio di guardarci dall’alto. Facondo Cielo ha spinto la porta ed è entrato, io ho fatto lo stesso solo per ritrovarmi in una stanza in pietra malridotta. Da lì siamo usciti in un piccolo cortile in pietra e con panchine sempre in pietra. Il cortile è delimitato da mura molto alte e da una scala in pietra e sotto la scala ci sono cumuli di vecchie sedie e santi. Facondo ha afferrato il braccio di un santo con la manica della veste bordeaux e oro e l’ha teso verso l’alto. «L’ hanno bruciato», mi ha detto.

«Chi l’ha bruciato?» ho chiesto, impaurito.

«E Chi lo sa! Dicono che sia stato ai tempi in cui Giuda vagava in compagnia degli ebrei, ma ora è sparito…». Mi ha detto e ha cominciato a salire la scala e siamo arrivati al balcone e abbiamo scorto il cortile. Da lì, Facondo Cielo ha preso un’altra scala più tortuosa, mi faceva paura, ma ho continuato a salire la scala della torre finché non siamo usciti sul lastrico solare, che puntava anch’esso al cielo. Facondo si è arrampicato sulla cupola e io con lui e ci siamo aggrappati a una finestrella per vedere com’era l’interno della chiesa: tutta bianca, con le impalcature e gli stracci sporchi di calce, gli altari erano bianchi, per me li stavano intonacando, ma non c’era nessuno. Mi stavo chiedendo chi stesse facendo i lavori, quando mi sono sentito guardare e dire: «Intruso!», ho alzato gli occhi verso il soffitto della cupola e lì ho visto una ghirlanda di angioletti d’oro che mi guardavano molto arrabbiati con i loro occhi neri. Sono scivolato giù e per poco non sono morto.

«Gli angeli si sono già arrabbiati» ho detto a Facondo.

E siamo tornati alle scale della torre, siamo arrivati al balcone di Dio, abbiamo preso l’altra scala e siamo scesi nel cortile dove si trova il braccio del santo che ha bruciato Giuda. “Forse mi hanno scambiato per Giuda”, ho pensato, mentre ci dirigevamo verso l’atrio, dove ci sono le tombe dei Magi. Facondo Cielo si è seduto sui gradini.

«Non vieni con me?» gli ho chiesto, confortato dalla sua compagnia. «Non posso attraversare la strada» ha risposto ed è rimasto seduto.

Me ne sono andato con i cagnolini che mi stavano aspettando e che erano molto contenti di vedermi. Abbiamo camminato controvoglia e ci siamo imbattuti in un’altra chiesa chiusa. “È Santa Maria Tonantzintla”, ha detto il cagnolino giallo, che è buonissimo! Così buono che ho persino pensato che fosse il mio angelo custode. Poi mi sono ricordato di Facondo Cielo e delle sue parole: «Dio si è arrabbiato e ha lasciato che Giuda bruciasse la sua casa, ma a Lui non importa, in fondo gliene sono rimaste tante». Ho attraversato l’atrio e ho spinto la porta e appena sono entrato a Santa Maria sono rimasto sbalordito da tanta lucentezza e da tanti colori come l’arcobaleno. Migliaia di angioletti mi hanno guardato dalle pareti ricoperte di colonnine con donne uguali ai fiori, anche loro mi hanno guardato. Ho visto che alcune stavano per danzare e alcune per volare, mentre le altre rimanevano ferme. Tutte portavano ghirlande di fiori profumati e tra tanti fiorellini, tante vergini vestite di rosa, di azzurro o di giallo che, quando mi hanno visto, si sono messe a ridere, la paura era sparita e ho capito di essere nella gloria, nella casa delle undicimila vergini, che hanno detto contente: «Guarda questo indianino d’America»… «Guarda com’è piccolo», e hanno volteggiato intorno a me e sono tornate alle loro colonnine. Gli angeli, che erano più piccoli di loro, volavano come farfalle d’oro e si sono fermati non appena abbiamo sentito chiudere il catenaccio. “Starei da Dio se restassi tra le undicimila vergini”, ho pensato. Ma una di loro è atterrata e si è messa a camminare davanti a me, era piccolissima! Mi arrivava a malapena a metà polpaccio. La Vergine mi ha condotto a un’altra porta, l’ho ringraziata e l’ho vista triste. Mi sono ritrovato in un cortile interno in pietra, dietro il quale c’era una scala. Al centro del cortile c’è un tavolo di pino e intorno, seduti su sedie di paglia, ci sono dodici vecchietti. I loro cappelli in stuoia sono a terra. Erano pensierosi e tristi e uno di loro aveva un foglio in mano. Un altro vecchietto ha alzato la mano e poi l’hanno alzata tutti e quello con il foglio ha segnato qualcosa: “Giuda!”. Io non so leggere, ma a cos’altro potevano alludere i dodici apostoli, che avevano appena saputo che Giuda era tra loro? Non mi piace vedere ciò che non dovrei, così me ne sono andato in punta di piedi e mi sono ritrovato in una strada con recinzioni di fichi d’india. All’angolo c’era Facondo Cielo, che vedendomi si è nascosto e io, arrabbiato, mi sono allontanato dalle Undicimila Vergini e dai Dodici Apostoli, che ora sono vecchietti, o forse lo sono sempre stati, non l’ho chiesto al prete.

I cagnolini mi hanno condotto a una collina circondata da scale e abbiamo cominciato a salire verso il “Santuario” fino a raggiungere l’atrio e le sue terrazze, da dove ho visto la Valle degli Ulivi, molto luminosa, con tanta luce azzurra, molto rotonda. Da lì si vedono solo le cupole e le torri delle case di Dio e il sole si trova proprio al centro del cielo, affinché tutto risplenda. Abbiamo girato intorno alla chiesa e siamo arrivati alla sacrestia dove Marta e Maria stiravano le vesti di Dio e dei santi. A malapena sono riuscito a vedere i bordini d’oro che una delle due sorelle quasi si è arrabbiata e sono corso giù per le scale che circondano la collina. I cagnolini mi hanno seguito senza abbaiare e in quel momento il teponaztli[2] ha cominciato a suonare, avvisando della mia presenza. Ogni colpo risuonava nella valle e, per sicurezza, ho abbandonato le scale e ho tagliato dritto tra i cespugli della collina. Ma i colpi forti del teponaztli non si fermavano e ho varcato una porta aperta nel pendio. Quella porta era diversa e lì c’era una sedia vuota. Sono entrato e mi sono ritrovato nel monte. Accidenti! Non sapevo che nei monti ci fossero tunnel lunghissimi, molto bui, di pietra bagnata. Non potevo correre al buio e solo ogni tanto trovavo una lucina accesa: chissà chi ce le ha messe! Il tunnel buio si apre in molti tunnel e alcuni salgono e altri scendono. Mi sono perso nella montagna e all’improvviso mi sono fermato, perché ero inseguito dai passi di un gigante: thump! Thump! Thump! Ho aumentato il passo e anche i passi. Mi sono spaventato e ho corso anche a rischio di uccidermi contro le pareti di pietra bagnata e i passi mi rincorrevano, poi mi sono fermato e una manona mi è cascata addosso e una voce simile a una campana mi ha detto:

«Che ci fai qui?»

Non ho osato voltarmi per vedere il volto del nemico e mi sono limitato a chiedergli: «Chi sei?»

«Sono un Uomo, sono Cholulteca» ha risposto con la sua voce da campana.

«Dove mi trovo?» gli ho chiesto ancora tremante.

«Nella piramide degli Antichi» ha risposto la voce.

«Gli Antichi? E dove sono gli Antichi?» ho chiesto senza guardarlo.

«Gli Antichi sono morti» ha detto la voce.

«E tu?» ho chiesto alla voce e alla mano che mi teneva per la spalla.

«Io me ne occupo. Vuoi vederla? Vieni!»

Mi ha preso per mano e mi ha condotto lungo tunnel bui che non finiscono mai. Era l’Uomo, e ogni tanto tirava fuori una torcia e l’illuminava, e ogni tanto la nascondeva. «Pitture degli Antichi», mi ha detto, accendendo la torcia su una parete mezza bagnata, su cui riuscivo a vedere solo macchie che sembravano di sangue, e ho ripreso a tremare di nuovo. «Sono belle» ho detto, ma non ho visto nulla, avevo la vista offuscata.

L’Uomo mi ha portato fuori su una terrazza dove c’era la luce del giorno. La terrazza è in pietra e ho visto che l’Uomo aveva con sé una carabina. «Guarda le tombe, le tombe degli Antichi» ha detto, e si è sporto verso una tomba aperta piena di ossa e me le ha mostrate. «Il re… la regina… e il suo cagnolino» ha spiegato.

E ho visto i due morti senza carne, solo ossa, che giacevano accanto a un cagnolino, anche lui morto, senza carne, solo ossa. Mi sono spaventato e ho visto che i cagnolini mi stavano aspettando tra i cespugli, sicuri di non voler essere uccisi dalla carabina dell’Uomo. Gli ho chiesto: «E il bambino?»

«Quale bambino? Ah, è vero, manca» ha detto e mi ha guardato con i suoi occhi neri ed è scoppiato a ridere.

Mi sono reso conto che voleva mettermi nella tomba degli Antichi e ho cominciato a tremare più forte e l’Uomo ha cominciato a ridere più forte. Poi il teponaztli ha suonato di nuovo: «Senti!» ha detto l’Uomo, ma io ho cominciato a correre lungo il pendio, seguito dai cagnolini, che scappavano come me. Siamo arrivati giù, dietro il “Santuario”, eravamo impauriti perché avevamo visto l’Uomo, l’unico che vive lì, nascosto nella montagna. Ci siamo ritrovati in una strada con di fronte un edificio che non sembrava una chiesa. La porta era aperta e io e i cagnolini siamo entrati, loro sono rimasti in mezzo a dei mucchi di vestiti bianchi e io mi sono messo a curiosare. Sono passato davanti a una cucina dove c’erano enormi pentole, più che altro pentoloni, che mi ricordavano quello dell’inferno. “Non è che l’Uomo mi ha spinto all’inferno?” ho pensato e ho varcato un cancello con i vetri e mi sono imbattuto in un cortile quadrato con corridoi con ringhiere di ferro. Al centro c’erano prati secchi e una fontana asciutta. Seduto su una panchina di ferro c’era lui! Indossava pantaloni grigi a righine, un gilet bianco con fili d’argento, una cravatta nera, una giacca nera e una valigia nera piena di fogli. Non mi ha guardato, stava osservando il giorno, molto annoiato, con la bocca triste e gli occhi rossi. Sulla panchina di fronte c’era un altro uomo, vestito di grigio e con i capelli molto lunghi. L’uomo componeva numeri di telefono e parlava molto indaffarato: «Pronto? Pronto? Pronto? Sì, è l’Agenzia Universale del Regalo… sì, la Fiera di Chicago… intendo, Chi-ca-go», parlava molto al telefono, solo che non c’era nessun telefono, o forse era invisibile, è così che di solito va fuori dal mondo. Stavo pensando al telefono invisibile quando lui! mi ha visto, è scattato in piedi, ha preso la valigia ed è arrivato di corsa. È molto grande. Si è messo di fronte a me e ha gridato:

«Povero bambino!» e ha aperto la valigia e ha tirato fuori un sacco di fogli colorati e una matita. Si è chinato e mi ha chiesto con voce buona: «Bimbo, che regalo vuoi? Un circo? Un leone? Un’arena? Un albero?»

Non sapevo cosa scegliere, l’ho guardato con gratitudine e lui! mi ha detto: «Come ti chiami, piccolo amico?». «Carmelo» ho risposto, perché questo è il mio nome.

E lui! si è messo a scrivere sui fogli colorati a gran velocità, poi ha alzato la testa, si è passato la mano tra i capelli, ha guardato una nuvola e ha detto: «Carmelo… bel nome. Carmelo, io sono il Re del Mondo! Guarda, questo è il mio segretario – e ha indicato l’uomo al telefono. Io ho detto: «Ah!» e poi lui! mi ha chiesto: «Guarda quest’albero, di che colore è?»

Ho guardato l’eucalipto che mi stava indicando, pieno di polvere, e ho risposto: «È verde, Signore Re del Mondo». «Per mia volontà, per la volontà del Re del Mondo, è… rosa!» ha ordinato. E l’eucalipto è diventato tutto rosa: il tronco, i rami e le foglie. «Sì… è rosa» ho detto.

Il Re del Mondo si è messo a scrivere sui fogli e mi ha dato molte strisce di carta blu, verde, gialla, viola e rosa. Prendevo le strisce di carta senza distogliere lo sguardo dall’albero rosa, perché in verità non avevo mai visto un albero di quel colore. Il Re del Mondo a ogni striscia di carta che mi dava, mi diceva: «Ecco a te: un circo, un leone, una carrozza, un levriero, un’arena, una ballerina, un cannone, un generale, un arcobaleno, una stella, una palla, una lucertola magica, un libro…». E mentre mi faceva tanti regali, sull’albero rosa era comparsa agganciata una preziosissima gabbietta d’oro e io continuavo a ricevere strisce di regali e l’albero continuava a ricoprirsi di gabbiette d’oro.

«Una chitarra, un monopattino, un mare, una bicicletta, una fabbrica di dolci e un… aereo! E ora, Carmelo, scappa, scappa, non lasciare che ti rubino i tuoi tesori» mi ha detto.

Ho infilato i foglietti tra la camicia e il petto e ho seguito la rotta indicata dal braccio del Re del Mondo, che non assomigliava al braccio del santo, e sono scappato via. Qui porto tutti i suoi regali. Lì vive il Re del Mondo in compagnia di Dio, delle Undicimila Vergini, degli Apostoli e di tutti i Santi. Ho corso e sono arrivato in fondo al cortile e ho trovato un’altra porta e l’ho varcata e sono entrato in un orto con vari ortaggi. C’erano cavoli, carote, prezzemolo, lattuga e mi sono accorto che i cagnolini non erano più con me e che il sole stava tramontando e i solchi con i cavoli erano scuri, ma dorati. Nell’orto c’era solo un sacerdotino che raccoglieva la lattuga. Ha avvertito la mia presenza, si è raddrizzato e con la lattuga in mano mi si è avvicinato. Non era un sacerdote, perché era vestito da santo, con la tunica e il cordiglio legato in vita, e quando l’ho visto mi sono fermato in devozione. Il sole ingrandiva la sua aureola di raggi d’oro che illuminava l’orto. Il santo mi ha detto: «Figliolo, cosa ci fai in questo manicomio?». Anche se mi sembra che avesse detto “manicomio”, gli ho risposto: «Ero con il Re del Mondo, e tu chi sei?» Gli ho dato del tu, perché un santo non fa mai paura.

«Frate Giuseppe» ha risposto.

E così ho capito di trovarmi alla presenza di San Giuseppe, lo stesso che ha protetto la Vergine e Nostro Signore Gesù Cristo e me, Carmelo Calzada. San Giuseppe mi ha detto: «Ti porterò al Flecha Roja affinché tu possa tornare a casa». Mi ha preso per mano, mi ha condotto fuori dal manicomio, perché loro pregano tanto, e mi ha portato in quella lunga strada da cui ero uscito dal mondo, finché non siamo arrivati a una fermata del Flecha Roja. Prima non c’era alcun Flecha Roja, ma San Giuseppe l’ha messo affinché io potessi arrivare a casa mia, e ora che ci sono arrivato, lui, papà, non fa altro che urlarmi contro e guardarmi arrabbiato. Vedo la sua rabbia alla luce della candela e mia mamma mi ha già dato del cattivo e non mi è permesso di coricarmi sul giaciglio di stuoia. «Bugiardo! Bugiardo!», mi ha gridato lui, papà, perché sono uscito dal mondo, e poi mi ha ordinato: «Vai in quell’angolo! Inginocchiati! Mettiti con le braccia in croce e chiedi a Dio di perdonarti per le tantissime bugie che hai detto in questa triste notte in cui ti abbiamo aspettato senza speranza di ritrovarti».  

Ed eccomi nell’angolo, a guardare la mia ombra sul muro di mattoni crudi, con le ginocchia e le braccia molto stanche, con le strisce di regali gettate sul pavimento, sentendo i miei genitori che russano, mentre sono crocifisso solo perché ho visto le trecentosessantacinque case di Dio, ho visto Marta e Maria che stiravano le sue vesti, ho visto Santa Rita, i turbinii degli uccelli, il loro altarino per farli pregare, ho visto le undicimila vergini, tutte piccoline, coperte di fiori rosa, ho visto il Re del Mondo che è stato così gentile da farmi tanti regali, ho visto l’Uomo, nascosto nella collina con la sua carabina e che esce solo per vedere le ossa dei morti Antichi, che ora credo abbia ucciso lui stesso, ho visto gli Apostoli e se non ho visto Giuda è perché era già fuggito, e ho visto San Giuseppe… E anche se vi dà fastidio, li ho visti e li ho visti e li ho visti! Papà, non spegnere la candela. L’hai già spenta! Papà, non chiamarmi bugiardo, perché li ho visti, li ho visti e li ho visti… per questo ora sono crocifisso in questo angolo buio…

Elena Garro

*La traduzione è di Giulia Filiciotto


[1] Huarache: tipo di sandali tipici del Messico. [N.d.T]

[2] Teponaztli: strumento a percussione e nello specifico un tamburo. Usato presso gli Aztechi, è ancora oggi presente in alcune zone del Messico. [N.d.T]

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