01 Novembre 2024

“Gli perdono tutto, perché ho amato”. Guerra & pace tra Eleonora Duse e Gabriele d’Annunzio

Di che sostanza è fatto il sentimento che lega un narcisista sciupafemmine ad una passionale altruista? Di illusioni, rappresaglie, sfide, errori, e cocenti delusioni, di vittorie immeritate e penose sconfitte: una sostanza tossica dalla quale sale il miasma nauseabondo del troppo – chiunque lo affermerebbe; ma il parlarne negativamente diverrebbe meno disinvolto, se si sapesse che quelle due persone sono entrambe di talento. L’intelligenza rende complessi emozioni ed eventi, ma anche la reazione di chi li osserva, irresistibilmente tratto nel labirinto della seduzione che esercita il genio. Quell’intricarsi di vicende intellettuali e sentimentali esprime segni chiari sia nel tormento che nell’estatica gioia degli amanti, ma non meno nell’esaltazione dello spettatore che vi assiste, se i primi sono famosi e conosciuti. Chi si avveleni di più, quando si beve alla sorgente dei sentimenti più tumultuosi, nessuno lo può dire, perché non esistono parametri del dolore e della gioia, se non quelli che ciascuno conserva nel segreto del cuore, ma è certo che sentir narrare di certe vicende amorose influenza perennemente la concezione che ciascuno veicola in sé – della pace e della guerra d’amore. Se, tuttavia, si dovesse definire una scala della sofferenza e del gaudio basata solo su elementi misurabili, allora a stabilire i primati sarebbero sempre gli stessi: coloro che spettacolarizzano meglio – e di più – i loro moti d’animo e quelli che, di volta in volta, interpretano il ruolo del gioioso e del sofferente nel palcoscenico che il mondo imbastisce per loro.

Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio furono, senza dubbio alcuno, protagonisti di una vicenda amorosa che restituisce due verità: quella raccontata dal mondo e quella conosciuta da loro. Attori di una relazione che alimentò le cronache mondane per molti anni, tra la fine del diciannovesimo secolo e il principio del successivo, per loro il pubblico confezionò una narrazione degli eventi coerente con ciò che si ritiene avvenga – quando gli accadimenti tra un uomo ed una donna si presentano in quel modo: lei passionale e altruista, finita in disgrazia, sola, sfruttata, umiliata e dimenticata; lui scaltro e ambizioso, incostante e capriccioso, prodigo di sostanze e di sentimenti, avvezzo allo spreco di cose ed emozioni, con un’innata attitudine al protagonismo più grottesco e scellerato. Il mondo, quella strana entità che vive nascosta dietro l’immaginario collettivo e lo alimenta, attraverso l’eterno prodigioso (e periglioso) meccanismo di travaso delle idee da una generazione all’altra, davanti ad una relazione sentimentale come quella dei due, non fece che distribuire la disfatta e la vittoria come se fossero stati copioni di una rappresentazione teatrale, smarrendo tutto il resto: le possenti architetture che l’esperienza erige nell’intimo, l’infinita amplificazione delle potenze primigenie che i grandi sentimenti animano, durante il loro esprimersi e come seguito del loro estinguersi, il sussulto di perenni pensieri e ricordi che agita lo stato di intercettazione della follia altrui e del complementare sentirsi intercettati – nella propria follia – di cui solo l’amore è capace.

La premessa storica per cui l’incontro tra i due fu di interesse, nato dal bisogno di entrambi di offrire risposte nuove ad un’innata ambizione, non dice quasi nulla su quel legame. Molti incontri si originano per simili ragioni: dopotutto, quasi ogni accadimento del mondo lo fa. Pure maternità e paternità, considerati gesti puramente rivolti alla vita (del figlio), nascono per un interesse dei genitori. È la vita, la consumazione degli eventi a determinarne il senso, non (solo) la loro scintilla originaria. Semmai, l’impulso che spinge due persone ad unire le proprie forze alimenta i sentimenti, perché li sposta da un piano solamente contemplativo, profondamente involto a sé, verso uno edificativo, rivolto a quell’intercapedine esterna alla persona in cui si generano le miracolose alleanze di coppia.

Di D’Annunzio e della Duse, quasi tutti trovano facile ricordare – in ruoli ben precisi – le tempestose lettere, le ripicche, i voltafaccia, le delusioni, i tradimenti, la sconsolata via della sconfitta per cui si avvia il perdente e quella agghindata a festa, ricca di luci, per cui si avvia il vincitore; pochi, invece, ricordano le dediche, gli sforzi, la dedizione, la rinuncia e il sacrificio in cui si impegnarono entrambi; nessuno, poi, può sapere alcunché dei silenziosi dialoghi consumati tra le mura di una casa, dei desideri inespressi, del soliloquio interiore in cui spesso, due amanti, si trovano chiamati ad interrogarsi uno sull’altro. Nemmeno il sodalizio artistico, che è sicuramente il profilo in cui è emerso il maggior profitto oggettivo del loro incontro, li vede relegati ad un preciso ruolo – di vincitore o di perdente. Ricordare soltanto i molti soldi spesi dall’attrice per finanziare la rappresentazione teatrale delle opere del poeta significherebbe dimenticare gli sforzi fatti dallo scrittore per realizzarle e il simbolico gesto di fedeltà intellettuale espresso nel delegare a lei – e per molto tempo a lei soltanto – la grande responsabilità di metterle in scena e renderne celebri i protagonisti. Pare inverosimile che un uomo intelligente riponga il suo successo o il suo fallimento nelle mani di una sola persona e per solo interesse. Investire qualcuno a custode unico del proprio futuro di gloria o di oblio pretende una fiducia ed una stima che superano la diffidenza tipica dei calcolatori. Solo lo stato di perenne intuizione e conoscenza reciproca in cui l’amore sprofonda ed eleva due anime rende possibile il superamento del naturale sospetto che connota i rapporti umani. Qui, fuori di dubbio, l’incontro avvenne per convenienza, per capriccio e per gioco di seduzione, proprio come si verifica agli esordi di molte passioni, quando il fuoco ancora non brucia e i futuri amanti ne attizzano le braci in una costante provocazione di sussulti, lusinghe: le frane interiori che minacciano l’Io passato e lo soverchiano irrimediabilmente, gettando i semi di un Io congiunto, di un nuovo Noi.

Ciò che accadde dopo è in larga misura noto: per reazione alle sue ripetute incostanze e infedeltà, la Duse si rifiutò di produrre La figlia di Iorio e a seguire la sua acida frase “Ti auguro oblio nell’arte”, il poeta, per ripicca, scritturò al suo posto Irma Gramatica per il ruolo della selvaggia Mila di Codro. Dalla dedica de La pioggia nel pineto, dal sapore dell’omaggio che sfiora la venerazione, alla distruzione assoluta della sua musa nel romanzo Il fuoco, in cui la protagonista ha le sembianze e il carattere di Eleonora, si può dire che il vate completi l’intero arco del sentimento, dalla fiabesca aurora al tragico tramonto.

Quando si incontrano per l’ultima volta, nel 1922, si può immaginare un confronto impari, a ruoli invertiti rispetto a quelli in cui si erano conosciuti per la prima volta nel lontano 1894, all’Hotel Danieli di Venezia: lei sul viale del tramonto, in precarie condizioni economiche e di salute; lui ormai celebre e ancora in forze. Le cieche lusinghe dell’amore ormai lontane, l’ambizione superata, le diatribe, le ripicche e le rivalità ormai degradate al rango di polverosi ed inutili ricordi. La vita aveva pronto il conto per Eleonora, mentre per Gabriele c’era ancora tempo. 

Nel carteggio amoroso è narrata la storia d’amore, ma nulla v’è del seguito, dell’eredità esistenziale di quell’esperienza. Forse è necessario recarsi ad Asolo e a Gardone Riviera per intuirne qualcosa. Di D’Annunzio si sa che presso la sua ultima dimora aveva allestito una stanza presso la quale si recava, ad ogni anniversario della morte di lei, per pensarla e ricordare, ma anche che nello studio di lavoro teneva un suo busto e che lo copriva con un velo, poiché ella “non doveva osservarlo mentre scriveva”. Della Duse si sa che ripose in Asolo le sue speranze umane di trovare un luogo di pace e riflessione e che lì spesso trovò il necessario raccoglimento nella chiesa di Sant’Anna, presso il cimitero. Si affidò, solitaria, alla fede e alle imponenti montagne che circondano il paese perché accogliessero i doni e le condanne che la vita le aveva piantato nel petto.

Della memoria e dell’incanto, invece, nessuno sa nulla poiché hanno quale unico testimone il tempo trascorso, che così fragoroso risuona eternamente negli amanti, durante e oltre la loro fine. E a chi si reca in quei luoghi per avvertirne il soffio, rispondono la sfolgorante rigogliosità della natura lacustre intessuta con l’originalità di arredi, oggetti e architetture, al Vittoriale; la forza irremovibile di montagne blu, digradanti per verdi e vorticose valli fino alle fatate casette di una via che conduce ad una solitaria chiesetta, ad Asolo.

Tra le famose frasi da loro profferite, sono celebri “Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato”, di lei ed “è morta quella che non meritai”, di lui. In esse pare riposare per sempre l’epilogo, il senso ultimo che quella burrascosa relazione ebbe per loro: un contenimento interiore dell’empia prodigalità e un pentimento sincero per gli abusi, gli eccessi, i tradimenti e gli inganni, per il poeta; l’accettazione del dolore e dalla sconfitta, nella luce della consapevolezza, nell’irremovibile potenza del sentimento, che sovrasta e definisce le regole dell’esistenza, per lei.

Se per Eleonora l’amore non fu mai discusso, nemmeno dalla storia, forse ha senso meditare sul fatto che, per quanto sia inutile un pentimento tardivo, non giunge mai da chi non si sente colpevole. Solo il fardello della responsabilità – per non aver saputo accogliere l’amore – può spingere una persona a dirne.

La verità, in questo caso, è consegnata al mistero, ma il senso delle poche parole bisbigliate dal D’Annunzio maturo, solo davanti al silenzio che segue la fine e il tramonto di tutte le possibilità, hanno meno il suono del puro vezzo e più quello dell’eco profonda.

I luoghi ammettono sempre un ascolto, purché prudente e silenzioso, poiché i morti lasciano segni, nelle cose, che sono per noi eventi interiori. Il loro non esser più rivive, così, nel prodigio del cuore e nel mistero della ricordanza. In quel collegamento, che ci vede protagonisti dell’infinito trapasso si sigilla l’infinito legame che serbiamo con essi. I morti ci insegnano ogni giorno a morire, consumando la vita. Eleonora e Gabriele, in questo, furono maestri.

Riccardo Peratoner

*In copertina: Ritratto di Eleonora Duse nel ruolo di Santuzza nella Cavalleria rusticana, Wolkoff Muromcov Alexander (attribuito)

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