
“Essere capiti fino al limite disumano”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Nel 1981 “Paris Match” esce con una notizia esclusiva: Jean Kay, bandito pluriricercato, è stato visto in India. Secondo un suo antico complice, vive come un clochard ai piedi dell’Himalaya, “ha trovato la pace” e continua a ripetere, preda di raptus estatici, che “l’avvenire non esiste”. In effetti, se esiste un uomo che ha vissuto l’istante, illuminato dalle scintille della mitraglia più che dai detti del Buddha, questo è proprio Jean Kay. Di certo, l’anno dopo lo intercettano a Nuova Delhi: ha una nuova compagna, l’ennesima, da cui ha la quarta figlia. Nelle rare fotografie dall’India, Jean Kay ha il fascino degli estremisti: labbra importanti, capelli ricci, occhi profondi, mascella costruita con l’accetta. Con la nuova famiglia vivrà per lo più in barca, tra l’Australia e i Caraibi, spesso scomparendo.
Nato in Algeria nel ’43, figlio di un ufficiale francese, orfano di madre, con un fratello arruolato nella Legione straniera, a Jean Kay non resta che la carriera militare. Debutta come caporale nell’Algeria francese: diserta quasi subito, diciottenne, preferendo i gruppi clandestini di estrema destra dell’OAS, l’Organisation de l’armée secrète, anti-indipendentista, guidata dal generale Raoul Salan. Arrestato, in gabbia legge gli autori a cui dirà di ispirarsi: Drieu la Rochelle, Robert Brasillach, André Malraux. Soprattutto, in cella Jean Kay matura la propria identità da mercenario. Opera, da allora, in diversi teatri di guerra, tra le catacombe di gruppi eversivi, spesso in funzione anticomunista: nel 1964 è nello Yemen, nel 1967 è in Libano, poi sposta la sua azione in Biafra; nel ’75 è in Angola. Collabora con i più spietati mercenari dell’epoca: Roger Faulques, Rolf Steiner, Bob Denard. Nel 1971, a Parigi, ascolta le parole del suo mito, Malraux, impegnato a fondare una falange per realizzare l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan, e si mette, autonomamente, in moto. Lo fa a modo suo, sull’onda del rischio, con un gesto eclatante: il 3 dicembre, alle ore 11.45, all’aeroporto di Parigi Orly, Jean Kay fa irruzione in un Boeing 727 della Pakistan International Airlines, pronto a partire per Calcutta. Nell’aereo sono ospitati 28 passeggeri e 8 membri dell’equipaggio: il terrorista li tiene in ostaggio con una 9mm; nella borsa che indossa a tracolla dice di avere una bomba, che è pronto a far esplodere. Chiede che nell’aereo vengano stivate venti tonnellate di medicinali, “preferibilmente vaccini, antibiotici, vitamine. Questo volo è sequestrato a beneficio dei profughi bengalesi”, dice. I farmaci vengono imbarcati da alcuni poliziotti travestiti da medici che cercano di disarmare Kay: per difendersi, il terrorista ferisce una guardia.
Il processo intentato a Kay – che rischia dai cinque ai dieci anni di reclusione – diventa un caso politico: Malraux prende le sue parti in tribunale, ostentando la consueta ferocia retorica. “Se i pirati non avessero fatto altro che assalire i galeoni del re di Spagna per ottenere medicine, parleremmo di loro come di monaci ispirati da un qualche ordine religioso”, attacca lo scrittore de La condizione umana. “L’atto compiuto da Kay racconta di una grande generosità e di una certa dose di follia. Certo, la storia si sbarazza della generosità somministrandoci la follia. Eppure, se tre tonnellate di medicinali sono arrivate in India, ciò si deve a Jean Kay… Peccato non sia riuscito interamente nel suo intento. Al ritorno, noi dipendenti comunali gli avremmo offerto il vino che si deve agli uomini d’onore, quelli che rappresentano con grandezza il proprio paese”. Improvvisamente, Jean Kay divenne un eroe. Proprio negli anni del processo, nel 1972, esce da Denoel la sua autobiografia, L’Arme au cœur, la prima di una serie – ricordiamo, tra gli altri libri, inediti in Italia: Les Fous de Guerre, Le Guerrier De L’espoir, Les Saintes –, di cui traduciamo le prime pagine.
Il grande ‘colpo’ lo realizzò pochi anni dopo, nel 1976. Attraverso la complicità di due donne, Jean Kay entra in contatto con Hervé de Vathaire, uomo di fiducia e direttore finanziario di Marcel Dassault, industriale aereonautico, gollista, deputato. Vathaire è affascinato dall’avventuriero che riesce a estorcergli un dossier finanziario imbarazzante per il gruppo diretto da Dassault. L’operazione è, al contempo, economica e politica. Jean Kay obbliga Vathaire a ritirare da un conto di Dassault otto milioni di franchi; Vathaire viene beccato quasi subito con una parte della somma, Kay si dilegua nel nulla. Implicato nei dossier di Vathaire (che denuncia i pagamenti occulti di Dassault per foraggiare il Rassemblement), Jacques Chirac si dimette dalle funzioni di Primo ministro, a governare è Giscard d’Estaing. Non si sa come Kay abbia usato i suoi soldi: probabilmente per supportare le finanze delle falangi cristiane libanesi e il colpo di Albert Spaggiari alla Société Générale di Nizza. Da allora, Kay è visto in Spagna, Portogallo, Svizzera, si sposta tra Singapore e Miami, spesso è in mare. L’era delle lotte nelle ex colonie francesi è finita. L’ultima donna, Fiona, si ammazza, nel 2000, in un fiume. Si erano trasferiti a Tolosa, sulla rude terra. Con la figlia, Kay torna a vivere in mare. Muore nel 2012, due giorni prima di Natale.
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“Gli dèi hanno venduto l’Algeria, dunque diventerò Catone”. Era una bella frase, ne ero soddisfatto. L’ho scritta a caratteri cubitali sopra una fotografia del generale Salan [Raoul Salan, 1899-1984, è stato generale francese, comandante in capo delle truppe in Indocina e in Algeria; ha organizzato l’OAS, Organisation de l’armée secrète, gruppo paramilitare, autore di numerosi attacchi terroristici, fondato nel tentativo di impedire l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia, ndr]: è di profilo, punteggiato di decorazioni, il volto sacro di un capo con le sue stelle.
Non vedo nessuno, sono solo. Non sono mai stato così solo. Non so dove andare né cosa fare. Alcuni tizi, in caserma, promettono mappe sicure e rifugi certi. Dicono: “La macchia necessita di soldati”. Mi guardano dritto negli occhi: “La macchia vuole volontari”. E mi chiedo perché non ci vadano loro, ora, allora, nella macchia, finché non mi trovo solo, alieno dai complotti, dalle congiure.
Penso a tutto questo, mentre il camion ci lascia, uno dopo l’altro, agli angoli delle strade, davanti a negozi, bar, ristoranti, in punti strategici come l’incrocio Alger-Maison-Blanche o il ponte dell’Arrach.
Nella jeep, sul retro, il sergente impartisce istruzioni a chi sbarca. Fa grandi movimenti con le braccia, urla a voce alta per farsi sentire e vincere il rumore della strada. Sono sul fondo del mezzo, incollato alla cabina. Godard è alla guida: mi piace sentire le sue bestemmie mentre scarta, gratta la frizione, spinge il mezzo al limite. Tra i latrati del motore, le armi sbattono, i caschi sfregano contro il telo. È mezzogiorno. L’ora in cui escono dagli uffici e il mercato si riempie. Le strade assolate si riempiono di gente, invadono le stazioni dei bus. Caldo. Calore palpabile, morbido sulla pelle come acqua tiepida. La città aspira il sole con tutte le sue spore e si sente, lontano, il fragore di un tuono. Questa è la mia ultima uscita regolare a Maison-Carrée [ora El-Harrach, Algeria, ndr], dove la nostra compagnia offre protezione civile quotidiana. Ho deciso: diserto, questa notte.
Il camion si ferma di nuovo, Godard lascia rombare il motore. “Il cane, il bastardo”, grida il sergente, dal fondo. Il bastardo sono io. Galloni freschi di una settimana. Mi allaccio il casco, salto giù dal portellone. “Porta i ragazzi presso il ponte, a distanza, e vienimi incontro da lì”.
Fa il solito, ampio movimento con le braccia, oltre la fila di macchine, poi sparisce, inghiottito dal camion. Cammino per strada, dispongo i miei uomini a caso. Ne ho quattro. Un gioco grottesco, inutile. Non difendiamo nulla, non controlliamo nulla. Ci mescoliamo alla folla in una specie di parata nella quale non abbiamo parte. Quando ho posizionato l’ultimo uomo, torno sui miei passi, verso il ponte. Il marciapiede scintilla, il traffico è bloccato. Le macchine si muovono a scatti, i corpi sono arsi dal sole, vedo davanti a me il bus di Algeri, azzurro. La porta di un bar si apre e si chiude: odore di anice. Mezzogiorno: l’ora di cristallo a Maison-Carrée.
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Tutti mi conoscono, nessuno si muove. Una sorta di muta acquiescenza lacera questi volti, gravi, sotto una tenda di luci, nell’improvviso silenzio che segue il mio ingresso. Poi la conversazione riprende, metto la borsa tra i piedi, contro il bancone. Ho le gambe molli. Slaccio la giacca, alzo il bavero. La stoffa ha ancora i segni dei galloni. Buon Dio! Ho appena disertato e la sola sensazione che provo è questo rilassamento imprevisto alle gambe, e la fame, aguzza, che tortura lo stomaco.
Volevo andare a Bab-el-Oued, dove so che c’è un punto di raccolta, ma non ho resistito a venire qui, a Pointe-Pescade, dove so di incontrare volti amici. Un’occasione per perdere l’ultima macchina! Che sensazione di vuoto! Mi aggrappo a quella fotografia. Prima di partire, le ho dato un’ultima occhiata: mi pento di non aver scritto una citazione in latino, per intrigare il sergente che frugherà tra le mie cose.
Gonzales mi fissa incuriosito. “Hai visto Hugo?”. Indica in modo evasivo un angolo della sala dove alcuni uomini giocano a carte. Il padre di Hugo alza gli occhi socchiusi verso di me. Attende un segno, non faccio nulla. Respiro profondamente. L’atmosfera brucia; è come se volessi riempire un vuoto, sempre un vuoto, sempre lo stesso vuoto. Respiro sentore di crostacei, tabacco e anice. L’odore di un bar sulla spiaggia. Sulla lingua il sapore è viola.
“Che aspetto ha?”, mi domanda Gonzales. Taglia la schiuma sul bicchiere di birra con una lama, poi lo spinge verso di me. “E Hugo?”. Quasi rispondendo a una chiamata, Hugo appare. Lo vedo nello specchio, tra le bottiglie di liquore. Alto, pelle scura, tra il siciliano e il gitano. Ha gli occhi neri, aperti. Bevo un lungo sorso di birra. Hugo capisce rapidamente, è più scaltro di Gonzales. Bracciali di cotone scivolano sulle ginocchia. Mi mette una mano sulla spalla. Dice qualcosa. Riguarda Notre-Dame d’Afrique, quindi bevo un altro lungo sorso di birra, la mano di quel tizio sulla spalla mi fa tremare le ginocchia. Lui, Hugo, rappresenta tutto ciò per cui ho disertato. Mi guarda con i suoi occhi scuri come se fossi un angelo del cielo. È straordinario. Mi dà l’impressione di avere polverizzato una parete di vetro, di essere giunto in uno spazio che mi è sempre parso inaccessibile. Hugo è un amico. Abbiamo entrambi diciotto anni. È figlio di un muratore, viene da una famiglia che conta i giorni di lavoro come fossero provviste. Suo padre gioca a carte, ci guarda, sembra approvare, e dire, “Noi lavoriamo, moriamo ed è bene morire su questa terra di Maria”.
Jean Kay