Non è ancora il tempo della dissoluzione di Jours parisiens e neppure dell’ascetica abiezione di Ho scelto l’oppio. È il 1942 e Banine Thillet – adornata di cognome maritale come d’un giro di perle – si appresta a pubblicare per casa Gallimard il suo primo romanzo, Nami. Epifania d’una scissione, storia di petrolio e non-amore.
Si riproduce di seguito il primo capitolo.
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Gennaio 1916
Per quanto sia doloroso ammetterlo, non posso far altro che riconoscere questa penosa realtà. Mio padre, come in un romanzo d’infima qualità, vuole “vendermi” a Mourad.
«Mourad» mi ha detto, «è uno dei pochissimi musulmani che avrai la fortuna di incontrare – in altre parole, le possibilità di trovare un pretendente sono piuttosto scarse. Perché sai bene che finché vivrò, non ti permetterò certo di sposare un cristiano. Non che soffra di alcun pregiudizio; anzi, i miei migliori amici come sai sono tutti cristiani; ma il fatto di appartenere a un’antica e gloriosa famiglia musulmana, che si è battuta per l’Islam, mi impedisce di darti in pasto a coloro che erano nostri nemici e ora sono i nostri padroni.
«Mourad non sarà un intellettuale, ma è un uomo di bell’aspetto e dai modi gentili. Lo dici anche tu che ha un suo fascino. I figli del primo matrimonio? Non preoccuparti, i bambini vengono allevati da tate, governanti e il resto della servitù: non dovrai prenderti cura di loro in alcun modo. Il fatto che abbia scelto te, tra decine e decine di donne, te, priva di dote nonché di particolare bellezza, semplicemente perché sei colta e aggraziata, dimostra che è un uomo di gusto e non è certo cosa trascurabile. Gli uomini di buon gusto sono una rarità e meritano rispetto».
Una volta finito di parlare, si è alzato dalla poltrona in cui sembrava sprofondato e si è diretto alla finestra. Negli ultimi tempi è invecchiato, ma il suo aspetto di gran signore non ne ha risentito, anzi. Il suo viso risulta ancora più nobile sotto la chioma incanutita, lo sguardo duro, limpido e penetrante come un tempo, le mani, candide e sottili, così precise nei gesti. Guardò a lungo fuori dalla finestra, i grigi alberghi e la Neva cominciavano a confondersi nella livida foschia di Pietroburgo. Il bellissimo orologio Luigi XV che avevamo comprato insieme a Parigi, da un antiquario sul Quai Malaquais, prese a suonare. Rammentai la scena che seguì quell’acquisto. Gli avevo fatto notare che lo stava pagando troppo: «Povera bambina mia, diventi ogni giorno più tolstoiana. Rimpiangi il denaro speso per le cose belle, e sono certo che starai facendo un calcolo mentale, in questo preciso istante, per scoprire quanti giorni, esattamente, potrebbe vivere un’onesta famiglia di lavoratori composta da due genitori e quattro figli con il costo di quest’orologio!». Avvampai, perché mi aveva colta in flagrante, solo che l’onesta famiglia di lavoratori era stata sostituita dalla mia amica Yvonne e da sua madre, che versavano in condizioni di indigenza.
«Inoltre», proseguì mio padre, «è giunto il momento che cominci a occuparti un po’ di più del tuo aspetto. Hai forse fatto voto di non toglierti mai quell’impermeabile? Non pensi sia possibile far convivere la tua intelligenza, i corsi alla Sorbona e un abbigliamento adeguato? Il sapere esclude forse la grazia? Finché siamo a Parigi, nell’ambito della tua cerchia studentesca, puoi anche continuare a girare infagottata nel tuo impermeabile e liberartene solo per andare a letto, ma a Pietroburgo penso proprio che non tollererò questo tipo di abbigliamento. Dovrai fare il tuo debutto in società, e quindi vestirti come si conviene»… sottolineò.
Mio padre sapeva assumere un’aria marziale e tossire con questa tosse particolare, foriera di cose serie.
«Un altro punto importante: Mourad è ricco. Talmente ricco che anche solo per gioco può aiutarmi a superare le difficoltà con cui sono costretto a fare i conti, come sai, da molti anni. Se rifiuti questo matrimonio, l’unica risorsa che intravedo per entrambi è un ritiro forzato nel mio paese natale sulle montagne del Caucaso. Adorabile prospettiva, per carità!… Ma preferirei la morte; almeno sarebbe cosa inedita, mentre la prospettiva di vita al paese non lascia spazio alla speranza.
Mi hai confidato di avere il cuore libero, e sebbene tu sia mia figlia e in quanto tale ovviamente saresti libera di mentire sulla tua vita sentimentale, non ho difficoltà a crederti. Sei una ragazza così saggia, talmente razionale che ti serviranno almeno altri dieci anni per decidere di innamorarti. E se tra dieci anni ti dovesse accadere, te la caverai, ne sono certo, con l’aiuto di questo famoso equilibrio interiore di cui sembri oltremodo amplificare l’importanza e il cui solo pensiero mi annoia a morte. Ma più verosimilmente darai alla luce dei figli, molti, mi auguro, e i tuoi doveri verso di loro ti separeranno dal mondo esterno, in cui non avrai più nulla da cercare. Quindi, sul fronte amoroso, nessun ostacolo.
Ciò detto, rifletti con calma. Chiaramente, non ti sto costringendo a nulla. Se ci ho tenuto a darti una rigorosa educazione nei migliori istituti di Pietroburgo e di Parigi, un’educazione ben più avanzata di quella della maggior parte delle ragazze russe o europee che conosciamo, non è certo per vincolarti ora. Sono un padre liberale che desidera come figlia un essere libero e pensante, non una schiava. Tutto dipende da te…, ma ancora una volta ragiona su tutti i pro e i contro, e vedrai che i primi sono numerosi, i secondi pressoché inesistenti».
Ovviamente acconsentirò a questo matrimonio, anche se sarà piacevole quanto un salto in un fiume ghiacciato, pur avendo la certezza di salvarmi.
Non ho alcun desiderio di sposarmi, men che meno con Mourad. Sfortunatamente, mio padre sembra non notare che i nostri pro e contro non coincidono. Il fatto che Mourad non sia né giovane né bello non costituisce un “contro” per mio padre, ma per me è un problema importante. Il fatto che, dopo aver vissuto tutta la vita a Pietroburgo o a Parigi, sia costretta a trasferirmi a Baku, una città semi-barbara, a mio padre non provoca alcun fastidio, visto che vi si reca solo di rado. E che la famiglia di Mourad sia talmente numerosa che basterebbe a popolare un piccolo paese, e sia una famiglia esigente, di un islamismo feroce, una famiglia che sembra avere solo due obiettivi nella vita: il denaro e una malevola opposizione a qualsiasi tipo di civilizzazione, non lo tormenta affatto, visto che non sarà lui a doversi sottomettere alla Famiglia (la maiuscola è uscita da sola).
E, viceversa, ciò che rappresenta un “pro” dal suo punto di vista non lo è per me. La ricchezza di Mourad non mi lascia nemmeno indifferente, mi risulta odiosa. Odio e temo il denaro, la cui ossessione alberga nei recessi più oscuri del cervello di persone che non mi piacciono. Mentre coloro che amo e stimo ci pensano solo quando è necessario: il denaro non è né il loro obiettivo né il loro padrone.
Ma, detto ciò, non posso rifiutare questo matrimonio. Cosa sarebbe la mia vita, dopo, con mio padre! Ovviamente mi odierebbe per non averlo “salvato”. Dirgli che potrebbe tranquillamente ridurre il nostro tenore di vita, smettere di giocare a carte e provare a lavorare sarebbe come insultarlo. Sono convinta che a un siffatto “declino” preferirebbe la morte.
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Mourad ha detto a mio padre che dovrò essere la donna meglio vestita di Baku. Pertanto, Madame X…, la nostra amica, mi trascina tutto il giorno da sarte, modiste, stiliste che vedendomi si gettano su di me come avvoltoi, mi rigirano, mi manipolano, mi molestano, mi assordano con le loro opinioni. L’importanza che possono attribuire al colore di un vestito o alla qualità di un tessuto è patetica. «Ci pensi bene, signorina», mi ha detto ieri una commessa con tono minaccioso, «prima di scegliere questa stoffa». Per non turbarla dandole a vedere che il suo mondo di tessuti per un altro essere umano potrebbe essere polvere, ho sfoderato un’espressione accigliata, fingendo di riflettere intensamente, mentre la commessa, trattenendo il respiro, assisteva con rispetto alla gestazione della mia scelta. È tutto così ridicolo e deprimente, e solo una somma dose di ironia può aiutare a sopportare la povertà di questi interessi. Certo, non è la prima volta che mi reco in un atelier o che scelgo un cappello (mio padre mi ha abituata da tempo) ma prima lo facevo con naturalezza, con un approccio da ragazzina che non si lascia ipnotizzare dai dilemmi sull’abbigliamento. Mentre ora tutto avviene su così larga scala che le mie giornate sono appena sufficienti a contenere gli schiaccianti impegni di scelte e prove d’abito.
Inoltre, e soprattutto, poiché questo sforzo ha lo scopo principale di ammaliare la Famiglia, mi sembra ancor più ridicolo ed esecrabile. A proposito della Famiglia: oggi sono arrivati da Baku, per partecipare al nostro matrimonio, Ali, l’unico fratello di Mourad, e Zobeida, la mia figliastra maggiore, la preferita di suo padre. Che choc! Mourad mi aveva parlato di lei come di una bambina, visto che in effetti ha solo sedici anni. Mi aspettavo quindi una ragazzina educata e giudiziosa (è stata cresciuta insieme alle due sorelle e il fratellino da tre governanti, inglese, francese e tedesca). E invece chi mi ritrovo? Una giovane donna che potrebbe tranquillamente essere madre, almeno a giudicare dal suo seno. È in netto sovrappeso e ha degli sgradevoli baffi. L’atteggiamento della “bambina” (come la chiama teneramente Mourad) è di un’intensità sconcertante; urla, gesticola, ride e piange simultaneamente e senza sosta. Appena entrata nella mia stanza, si è impossessata del mio pettine, si è rovesciata sulla poltrona con un tonfo, ha aperto il mio taccuino sul comodino. Dov’è finita l’educazione delle governanti? Presumo che questa esuberanza, che appare del tutto ingestibile, abbia finito per neutralizzarle o farle impazzire.
Stamattina, dopo aver trascorso un’ora con lei, ero talmente esausta e sfiancata che le avrei dato qualsiasi cosa pur di stare un po’ da sola. Mourad la adora. La trova bella ed è vero (purtroppo è così grassa che ci vuole un po’ per rinvenire questa bellezza nascosta sotto mille pieghe), vivace (ahimè!), dotata di senso musicale. La incoraggia a suonare. E lei lo fa, ma ad una velocità assurda e senza alcuna delicatezza né ritmo, ha un tocco “di legno”. Io, chiaramente, non elargisco che complimenti. E qui mi fermo tristemente a riflettere sul fatto che mi sto addentrando in una fase di menzogne e ipocrisie. Per evitare di offendere, ma soprattutto per quieto vivere, sarò costantemente costretta a nascondere i miei sentimenti, a ingannare, a mentire. Nel frattempo, davanti a un pubblico ammirato, mio padre tirerà fuori le sue battute di spirito con i membri della Famiglia che gli daranno spazio per esercitare la sua verve.
Mourad mi ha appena regalato una cascata di diamanti degni d’una regina del petrolio. Ed è giusto, dato che d’ora in poi sarà il mio lavoro. Invece di rallegrarmene, penso all’improvviso e senza il minimo nesso tra le due cose, alla sofferenza e alla morte di tanti uomini che da due anni combattono sulla soglia della loro patria. E sono talmente turbata che il bagliore di queste pietre mi si è spento davanti agli occhi. (Tema banale, quello delle miserie da un lato, del frivolo lusso dall’altro).
Mourad è gentile con me e spero che con un po’ di buona volontà possa affezionarmi a lui. Dovrei. Ma di lui conosco solo, più o meno, quel che vedo, ovvero il suo aspetto esteriore, la postura, i gesti. Che tipo di pensieri, quali desideri giacciono sotto la superficie? Non lo so ancora. L’involucro è bruno, e piuttosto villoso; il volto invaso da grandi occhi neri, adamantini, un naso dritto e pronunciato, la bocca carnosa e sensuale. È alto e slanciato e sulla quarantina. Ma non ho ancora indizi su cosa vi sia dietro. Mourad non parla molto di affari o denaro; mi ricopre di attenzioni e sembra essere molto tollerante, cosa insolita per un uomo del suo milieu e di quella famiglia. Ah! La Famiglia. Alcune cose di cui sono venuta a conoscenza mi fanno pensare che manca solo che siano cannibali. Gli vengono perfino attribuiti dei casi di omicidio.
Ieri Ali ha raccontato, contorcendosi dalla gioia, che uno dei suoi zii, per divertire la famiglia, ha strappato a morsi delle teste di topi vivi. Devo essere impallidita, o quantomeno avere espresso tutt’altro che divertimento per questa storiella, perché Mourad ha prontamente cercato di cambiare discorso. Ma Ali, senza accorgersi dei suoi tentativi, ha continuato con veemenza a raccontarci le gesta di zio Assad, uno dei membri più brillanti e in vista della Famiglia.
Da quanto ho capito finora, è quello che a Baku viene chiamato un Kotchi, cioè un capobanda. Queste bande si occupano sia di difendere che di abbreviare l’esistenza dei re del petrolio. Nel primo caso li proteggono, in cambio di una pesante ricompensa, dai loro nemici (che sono anche avversari di se stessi perché semplicemente bande rivali); nella seconda rapiscono i poveri magnati, per poi chiedere un lauto riscatto, il cui rifiuto può causare la morte del prigioniero. Capita spesso che un petroliere faccia buon uso dei Kotchi, lasciando che questi ultimi favoriscano una comunicazione segreta tra le proprie condutture e quelle confinanti; escamotage piuttosto redditizio che spesso viene scoperto solo dopo diversi mesi. Può anche capitare che in un distretto petrolifero un Kotchi “imprudente” lanci la sua sigaretta accesa, provocando lo scoppio di un incendio in cui vengono bruciati petrolio e milioni. La polizia nel frattempo sonnecchia. Non abbastanza, però, da non accorgersi di nulla quando qualcosa gli viene infilata qualcosa fra le mani. E quando parte alla caccia del colpevole, lo fa con tutta calma, perché la ricerca stessa potrebbe infaustamente metterla sulla pista giusta, quella che deve essere scansata. Ciò nonostante, le figlie dello zio Assad, il coraggioso Kotchi, non portano il velo, hanno una governante e suonano musica classica. Il capobanda che ascolta una fuga di Bach… (Tema: la musica non sempre ammorbidisce la morale).
La traduzione del presente estratto è di Fabrizia Sabbatini