21 Giugno 2023

“Non dimenticare mai che ti odiano”. Il diario di Richard Millet, lettore spietato

Incanti, malumori, tristezze, note letterarie e musicali, disperazioni e piccole gioie, perfino preghiere: lo sterminato Journal di Richard Millet accompagna tutta la sua opera e gran parte della sua vita. Qualche mese fa l’editore Les provinciales ne ha dato alle stampe il quarto tomo, concernente i suoi anni di lavoro nel Comitato di lettura di Gallimard, dal 2003 al 2011, ovvero prima che il futuro premio Nobel Annie Ernaux lo attaccasse su Le Monde, provocando la sua cacciata dal Comitato medesimo e la messa al bando delle sue opere dai circuiti editoriali. In questi anni, dal 2003 al 2011, Richard Millet pubblica alcuni dei suoi libri maggiori, da Ma vie parmi les ombres (2003) a La confession négative (2009) a La Fiancée libanaise (2011), componendo quella che potrebbe essere definita la sua “trilogia libanese”. Nel diario, tuttavia, si sofferma perlopiù sul faticoso lavoro da Gallimard; la forma è spesso quella dell’appunto fugace, senza date, a differenza degli altri tomi del Journal. Ne traduco qui alcuni brani per i lettori italiani, sperando che le opere maggiori di Millet trovino prima o poi spazio nella nostra editoria.

(Edoardo Pisani)

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La forma del journal, costretta fra le date – il diario, dunque, tanto vicino alla parola diarrea che quasi me ne vergogno –, mi è divenuta insopportabile: è il recinto di una prigione ambulante. Tuttavia, continuerò ad annotare ciò che vedo, sento, penso, vivo, in particolare da Gallimard, in quella che Sollers chiama la Banca Centrale e che lo è sempre meno, dove sono diventato ciò che qui definiscono un “lettore esterno” – con la speranza di uno statuto migliore.

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Nell’ultimo Beethoven, il materiale tematico (eccetto gli adagi) si piega talvolta a una grazia e a una durezza quasi semplicistica; la bellezza è altrove: nell’organizzazione strutturale, ritmica, nella coscienza di Beethoven di non dover più sedurre.

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Come alla Table Ronde e da Balland, da Gallimard sono pagato per leggere e per trasformare (salvo rare eccezioni) delle quasi-bozze in romanzi mediocri che la critica stipendiata troverà commoventi, sconvolgenti, magistrali, sontuosi, talvolta “disturbanti”. Questa falsificazione ha un nome: post-letteratura.

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Mandarini, potentati letterari, giornalisti, magnati della moda, autori di “manoscritti diplomatici” (come si dice da Gallimard): sognano tutti di essere degli scrittori e sono pubblicati solo per favore, dico a Demanet, in realtà lo stesso favore che fa sì che si pubblichino degli “autori” che si credono scrittori.

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Ogni scrittore deve, dopo un certo tempo, inventarsi un’opera sognata, e segreta.

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È al caffè, a rue du Bac, che lavoriamo giorno per giorno, nei fine pomeriggio, Jonathan Littell e io. Lui blatera molto, che sia sulle frasi da riscrivere, sui paragrafi, su pagine intere da rimuovere. Certi passi sono meno mal scritti di altri: effetto di smarcamento dai suoi autori preferiti? A volte Littell si irrita; stanco dopo una giornata di lavoro tendo a essere troppo “direttivo”; oppure non dimostro abbastanza entusiasmo per questo testo, lasciando vedere che non saprei avere stima per uno scrittore di cui bisogna rilavorare il testo a tal punto. Domanda che alimenta i miei interrogativi, sempre più inquieti, sul destino di una letteratura romanzesca che passa attraverso un laboratorio di ripulitura e una forma di collettivismo.

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Finito il lavoro su Le Benevole. Estenuante. Demoralizzante. Artigianato letterario. Demanet, che ha pranzato con Littell, mi dice ridendo che questo libro ha due autori: il padre di Littell e io.

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La prosa di Tahar Ben Jelloun sa di peto di ippopotamo.

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Cosa distingue la preghiera da un testo letterario? Non è in fondo la stessa cosa? In cosa la letteratura non è, anche, il fallimento della preghiera, ma con la legittimità del fallimento?

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Destino parodistico del romanzo: Eco e Manganelli (o anche García Márquez e Bolaño): si incrociano senza incontrarsi; non c’è un solo punto di convergenza, se non un momento in cui la verità scoppia e l’uno cade nella parodia popolare mentre l’altro ne vince in profondità.

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Ricevo Mille anni che sto qui, di Mariolina Venezia, con questa dedica: “A Richard Millet, che tempo fa ha seminato la prima idea di questo romanzo”. Maria Venezia: ho avuto con lei una breve relazione nel 1985, quando traducevamo insieme una sua plaquette per le edizioni Une. Era una ragazza piccola piccola, incantevole, che usciva da una dolorosa storia con un poeta di cui non ricordo il nome. Andavo, io, come uno spettro stordito, abbandonato da Hélène, di donna in donna, l’una più accogliente dell’altra.

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La maggior parte dei romanzi sembrano essere scritti per i supplementi letterari dei giornali che poi li loderanno (perché l’editore vi avrà fatto della pubblicità e perché i romanzieri sono anche dei giornalisti) qualificandoli come “sontuosi” o “disturbanti” – sinonimi prostituzionali di “insignificanti”.

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Impossibile interessarmi a ciò che si pubblica, in generale. È poca roba. Letteratura inutile. Dei prodotti manifatturati che fanno girare la macchina. Gallimard e le grandi case editrici assomigliano a dei grandi ristoranti in cui noi, i cuochi, non mangiamo ciò che cuciniamo: dei piatti sopravvalutati. Preferiamo delle bistecche con purea.

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Robert Walser diceva di essere diventato uno scrittore per il gusto, da bambino, della più semplice calligrafia.

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Un episodio che non ho incluso ne La confession négative: il primo giorno al posto di combattimento, non lontano dalla strada di Damas, al crepuscolo, Nabal mi mette alla prova tendendomi la sua Beretta e domandandomi di uccidere ciò che voglio. Un gatto? Impossibile. Un cane randagio? Nemmeno. Un ratto – che non aveva ancora la taglia mostruosa che avrebbero preso a forza di mangiare cadaveri fra le rovine. Ho sparato sul corpo di un tipo abbattuto la veglia che aveva tentato di coprirsi la testa con una Kefiah prima di morire. “Mi prendi per il culo?” “Ma no: si muove ancora.” “No: sono i ratti che lo smuovono.”

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Non dimenticare mai che ti odiano per lo scrittore che sei.

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Non avrei mai pensato, trent’anni fa, che avrei fatto parte del Comitato di lettura di Gallimard, e che sarebbe stata poca cosa, in fin dei conti.

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Dio mio, datemi la forza di reggere ancora un po’ qui, per Béatrice e per le nostre figlie… 

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Non avendo niente da fare dopo aver finito un manoscritto che mi hanno assegnato, riapro Assalonne, Assalonne!, una riedizione che si trova sui miei scaffali. La pazza voglia di buttare dalla finestra tutti i manoscritti che si intasano davanti a me, e anche me stesso…

Richard Millet

*La scelta e la traduzione dei testi sono di Edoardo Pisani

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