24 Maggio 2023

Raymond Queneau vs. ChatGPT. Sia lode alla “macchina della poesia”

Un amico mi racconta i fasti di ChatGPT, il software ad alta intelligenza ‘umana’. È uno scrittore in attesa del capolavoro e mi fa capire una cosa. ChatGPT funziona a seconda della domanda che gli fai. Troppo facile sfottere l’intelligenza artificiale per eccesso di artificiosa deficienza. Naturalmente, il chatbot, in una conversazione qualsiasi, botta-e-risposta, risulta piatto, canonico, banale, compulsivamente corretto, stupidamente coerente a se stesso.

Il punto, appunto, sta nella qualità della domanda.

L’esempio lo fa il mio amico. Ha ricalcato un paio di paragrafi di Norwegian Wood, il libro di Haruki Murakami. Gli piace. Ha cambiato i nomi dei personaggi. Ha chiesto al robot di riscrivere quelle scene indicando alcune modifiche, orientandone lo stile (“come se fosse Hemingway”; “come se fosse Faulkner”). L’esito richiede un tot di editing, è ovvio; dopodiché il testo è, per la media, più bello di un testo che, nella media, trovate in libreria.

Non è questo il momento di interrogarsi sulle vaste vigne della creatività umana, sulla verità dell’uomo, sulla sua anima e trascendenze simili – restiamo alle calcagna della macchina.

Da assoluto profano – cioè da uno che scrive quel che deve scrivere sui taccuini, con la biro – penso due cose. Primo: se hanno permesso ChatGPT un po’ a tutti ciò significa che ci sono macchine analoghe, per pochi o pochissimi, infinitamente più accurate, più raffinate, più efficaci. Secondo: la grande editoria – una azienda che sforna libri come altri producono macchine, ad ogni ora del giorno – non ha più bisogno di scrittori ma di editor (non troppo complessi, purché complessati). I romanzi, secondo i dati forniti dall’algocrazia, li produrrà la macchina; l’editor raffina qua e là, ci mette il sentimento, alleggerisce, divaga. Probabilmente accade già così.

Lo strapotere della macchina ci fa ragionare sul potere dell’arte, sulla differenza tra creare e produrre, sulla beneamata autorevolezza, sullo sterminio dell’autorità dell’uomo in vece dell’autoritarismo della merce. Perché scrivo, a chi, come?

Che bello vivere in un’epoca in cui tutto è messo in discussione, perfino la verità della vita e della morte.

Tuttavia, anche riguardo alla macchina che partorisce arte l’uomo ha già fatto tutto. Mi riferisco a uno dei libri più folli di Raymond Queneau, icona della lirica combinatoria. Pubblicato da Gallimard nel 1961, Cent mille milliards de poèmes è una macchina astronomica che partorisce poemi, pressoché infiniti. Parola di Queneau:

“Questa opera minima permette a ciascuno di comporre a piacimento centomila miliardi di sonetti, ovviamente rigorosi. Insomma, è una specie di macchina che fabbrica poesie; benché il numero sia limitato è pur vero che fornisce materiale di lettura per quasi duecento milioni di anni (leggendo ventiquattro ore al giorno)”.

La formula è pitagorica. Queneau scrive 10 sonetti composti da 14 versi intercambiabili. La forma grafica del libro, studiata da Robert Massin, permette cioè di sostituire un verso qualsiasi – stampato su banda orizzontale, sfogliabile – con quello seguente, e via scorrendo, in modo da avere, potenzialmente, 1014 poesie. Il gioco, per essere tale, deve essere ‘giocato’, cioè chiede la complicità del lettore; Queneau riesce a rendere un limite – il sonetto, secondo norma metrica ABAB ABAB CCD EED – l’illimite, la potenzialità una forma di potere. Rompe il quadro letterario: la poesia, pur pensata dal poeta, richiede un gesto del lettore per esistere.

Una gabbia non è un impedimento: impone la fuga. L’artificio ha nitore d’arte; a ChatGPT, comunque, preferisco le sferzate lirico-algebriche di Queneau.

Tra l’altro, Queneau, l’esaltato patafisico, perfeziona all’ennesima l’etica barocca, l’estetica della forma, l’estasi del sonetto che diventa astrolabio, wunderkammer, fuoco di artifici. Che meraviglia i poeti aurei spagnoli, matador del verbo, che hanno fatto arena del proprio cuore, Francisco de Quevedo, Luis de Góngora, Fernando de Herrera, Lope de Vega. Sonetti chiaroscurali, i loro, con stilettate d’oro a segare la giugulare del buon senso: tesi tra il sangue e l’ornamento, tra la notte oscura e l’aurora cortigiana, tra il cuore messo a nudo e il sofisma di cristallo, da leggere mentre si ammira Zurbaran. Lungi dall’impoverire l’idolo dell’autenticità – a cui presta fede il cattivo artista – la forma chiusa, la formula perfetta, spiazzante, esalta il talento, dunque il cuore. Il marchingegno lirico non è una mera macchina, non inibisce le vette, le avvince: spirito trafilato in aspidi endecasillabi.

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Raymond Queneau: tre sonetti su centomila miliardi

Sonetto 1

Il re della pampa si toglie la giacca
e la mette ad asciugare sulle corna dei tori:
la carne in scatola puzza di cacca
fermentano così le pelli degli allevatori.

Ricorda ancora l’ora precisa
in cui i gauchos sventolavano le loro bandiere:
eravamo freddi, nudi, sulla banchisa
e abbiamo abbandonato le buone maniere.

Dal polo a Rosario fu una bella tratta
le avventure hanno segnato la nostra fronte di latta
d’altronde, solo quando bevi il mate diventi argentino.

L’America del Sud seduce con gli equivoci
esalta il barocco spagnolo, gli occhi univoci,
tace la campana, il suo tintinnio argentino.

*

Sonetto 3

Arroccato al fregio, il cavallo del Partenone se la prende
con Lord Elgin, che trascura le sue narici:
il critico è lucido, da nulla la sua intelligenza dipende,
ne ha diritto soltanto a una, nella domenica senza larici.

Ricorda ancora l’ora precisa
in cui preparammo la via a pensieri sepolcrali
i poveri sulle rive del Tamigi hanno l’anima incisa:
arrivò il pompiere con le acque letali.

Dal polo a Rosario fu una bella tratta
le avventure hanno segnato la nostra fronte di latta
se perde il suo sale celtico è un bene:

infine, rimpiangiamo le baracche e gli equivoci
esalta il barocco spagnolo, gli occhi univoci,
bere il Beaune e il Chianti non è forse un bene?

*

Sonetto 99.608.791.885.383

Quando tutto finisce, l’agonia ci disperde
mentre il marmista raffina tombe e onori
il critico è lucido, da nulla la sua intelligenza dipende
fermentano così le pelli degli allevatori.

L’uomo di Papua succhia l’ipotesi dal vicino:
il volgo vuole versi ostinati, belli
la morte ti innesta nell’orda del ricino
e la grandine di fine marzo martella i battelli.

Il lupo li ama in casseruola i suoi galli
il gatto fa scorpacciata di taralli
ma quando annusa il fango lo prende per letame:

finora non ha dovuto fare l’affascinante
gli spuntini sono un pasto sufficiente
il mammifero è re e noi siamo il suo mangime.

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