RACHEL
Rachel è sola con la vecchia madre malata, nella sua casa di South Hadley, nel cuore del Massachusetts. La figlia è a Harvard, il marito è morto da poco, il suo più caro amico è tornato in Francia. L’esilio americano, che dura da sette anni – da quando, cioè, l’occupazione nazista della Francia l’ha costretta a lasciare Parigi per sfuggire alle persecuzioni antisemite – le pesa sempre di più, nonostante al Mount Holyoke College, dove insegna letteratura francese, sia stimata da tutti, docenti e allievi. Così, si chiude nella sua stanza, sigilla le finestre, e apre i rubinetti del gas. È il 6 aprile 1949.
Rachel ha da poco terminato di scrivere un saggio su Montaigne, L’istante e la libertà, dove ha annotato, tra l’altro, questa frase del grande francese:
«Non prendo mai le distanze dall’essere morto come quando entro in confidenza con il morire».
Lo avrà fatto anche lei in quei momenti finali? Commentando quel passo dei Saggi, Rachel ha scritto qualcosa che forse ci dice più su di lei, sulla sua vita, il suo disagio, che su Montaigne:
«Montaigne non conosce la “nausea” di fronte alla contingenza assurda del suo essere. Ignora la rivelazione della sesta ora di cui parla Kafka nella Colonia penale, quella sentenza scritta con l’ago dello strumento di tortura sulla carne stessa del condannato. Non descrive da nessuna parte l’esperienza del capovolgimento interiore dove, all’improvviso, l’esistenza si svuota di ogni significato, e non è da lui che Pascal riprende la sua fenomenologia della noia. Tutto l’impegno di Montaigne tende a inglobare la necessità nella vita per non congelare la vita in fatalità. Si sente esistere come libero mortale, non come condannato a morte, e condannato alla libertà».
Tutto ciò che Montaigne non conosce, ignora, non descrive appartiene invece profondamente al territorio mentale ed emotivo di questa donna che si è sempre sentita condannata a morte e condannata alla libertà, da sempre marchiata a fuoco da questa sentenza sulla sua carne. Montaigne è, in tal senso, tutto ciò che lei non è riuscita a essere: qualcuno che, con la sua saggezza «mediana», non è disceso agli inferi, ma «insegna modestamente a non trasformare la vita in un inferno». Compito molto difficile, come lei stessa annota. Compito improvvisamente divenuto, per Rachel, insostenibile.
Nel biglietto scritto prima di uccidersi al direttore di dipartimento del Mount Holyoke College – lo stesso college dove aveva studiato Emily Dickinson – Rachel spiega il motivo del suo gesto:
«Non cerchi nel mio suicidio altre ragioni che la mia estrema stanchezza».
In che cosa consisteva questa stanchezza, questa «fatigue»? La vita di Rachel Pasmanik (poi Bespaloff), consumata tra le due guerre mondiali, è segnata da due elementi, in parte tra loro collegati: la sua origine ebraica e il suo nomadismo. Nata il 14 maggio 1895 a Nova Zagora, in Bulgaria, dove i genitori erano solo di passaggio, diretti a Kiev (il padre e la madre sono entrambi raffinati intellettuali ebrei ucraini), Rachel trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Ginevra, dove studia danza e musica, rivelando subito un eccezionale talento, e si diploma in pianoforte e composizione al Conservatorio. Dopo il diploma si iscrive all’Istituto di Émile Jacques-Dalcroze, seguendo i corsi di euritmia e contemporaneamente insegna letteratura francese al liceo, a soli vent’anni. Poi, la svolta: le viene offerta una cattedra d’insegnamento di musica ed euritmica all’Opéra di Parigi. Qui, dove arriva nel 1915, si sente subito a casa. Parigi è la sua città, la sua patria ritrovata, la sua Sion. Qui incontra Shraga Nissim Bespaloff, detto «Nicia», un uomo d’affari ucraino, socio del padre, che sposa nel 1922 e dal quale nel ’27 ha una figlia, l’amata Naomi, da lei chiamata Miette.
Qui, soprattutto, conosce il filosofo Lev Šestov, transfuga a Parigi a causa della repressione bolscevica. È l’incontro che cambia la sua vita: grazie a lui sboccia il genio filosofico di questa giovane donna, come dal nulla. Senza titoli accademici, senza una formazione specifica, la sconosciuta ebrea di origini slave e di una «principesca bellezza» inizia a pubblicare sulle più qualificate riviste dell’epoca articoli dedicati a Heidegger (tra i primi studi in Francia sul filosofo tedesco), su Husserl (osando opporglisi), su Julien Green, André Malraux, Gabriel Marcel e Šestov stesso, conquistando tutti con la sua raffinatezza speculativa.
Abbandonata la carriera musicale, Bespaloff si dedica così al suo «risveglio filosofico», rivelandosi tra le più originali pensatrici del secolo scorso. Ma il nomadismo incombe come una condanna per lei: nel 1930 muore il padre e il marito decide di trasferirsi con la famiglia a Saint-Raphaël, in Provenza. La vita di provincia però non fa per lei: villa Madonna, la sua casa, è come una prigione, e Rachel si sente minacciata dal «bovarismo», come lei stessa dice, rimpiange le frequentazioni di Parigi, i suoi legami con gli intellettuali ebrei e gli esuli della Russia sovietica. Ha l’impressione di essere lontana da tutto. Iniziano i primi segni del suo «male di vivere».
Durante il 1938 trascorre un periodo in una clinica psichiatrica svizzera, a Montana, per curare la depressione. Dalla clinica scrive una lettera a Jean Wahl, il suo amico fraterno, anche lui ebreo, confessandogli tutta l’angoscia per quel che sta accadendo quell’anno: l’annessione nazista dei Sudeti e i pogrom iniziati in Germania, con la Kristallnacht.
Poi, altri due traslochi: prima in una località presso Tolone e successivamente a Hyères. Da qui, ancora in una lettera a Wahl, nel 1941, chiamerà la depressione di cui soffre il suo «cafard», un termine francese usato per indicare la malinconia che prende chi è lontano dalla propria patria. Come la saudade dei portoghesi. Di nostalgia ci si può ammalare, certo, ma qual è la patria di Rachel? Lei si sente ed è, in fondo, una déraciné, un sentimento che l’accompagnerà per sempre, e che anzi si acuirà terribilmente quando sarà costretta a lasciare la Francia, per sfuggire alle deportazioni naziste, dopo l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica di Vichy. Nel giugno del 1942, dunque, s’imbarca dal porto di Marsiglia per New York.
Negli Stati Uniti vive da «sonnambula»: non ama il conformismo americano e seguire da lontano le sorti dell’Europa in guerra e del suo popolo la rende sempre più vulnerabile, sempre più stanca, soprattutto quando si trasferisce (ancora un trasloco!) da New York a South Hadley, per tenere le sue lezioni al Mount Holyoke, mentre si prende cura della madre malata, della figlia, del marito, tra sempre più incombenti ristrettezze economiche. «Mi ricordo di esistere solo per la mia stanchezza» dirà in una lettera del 1945. Già, la «fatigue», che sempre l’assedia. Fino alla decisione più estrema, al suo «finale di partita». Nonostante la sconfitta di Hitler e la nascita dello stato di Israele, che saluta con gioia, come una giusta «risposta a sei milioni di morti», nonostante lei sia tra i «salvati», sopravvissuta alla Shoah, Bespaloff cede al suo «cafard», alla malinconia della vita. Forse al senso di colpa per quella stessa sopravvivenza.
Eppure, è proprio nell’annus horribilis – per lei, per gli ebrei, per l’intera civiltà occidentale –, il 1938, che pubblica il suo primo libro, una raccolta dei saggi filosofici già apparsi su varie riviste: Cheminements et carrefours. Ed è sempre nel 1938 che Rachel rilegge l’Iliade. Da questa rilettura, compiuta quasi per caso, per aiutare la figlia a fare i compiti, nascerà il suo capolavoro, Sull’Iliade, pubblicato nel ’43. Riprendendo il poema omerico Bespaloff vi scopre qualcosa di nuovo: la possibilità di far dialogare quel capolavoro classico con il presente, con il suo presente minacciato, incalzato dal nazismo, e farlo dialogare allo stesso tempo anche con la Bibbia ebraica. Sull’Iliade è un breve, intenso, imperdibile testo che legge l’orrore della Seconda guerra attraverso Omero. La guerra, per chi ci vive dentro, può diventare un’ossessione. È una realtà che sovrasta qualsiasi altra, perché porta alle estreme conseguenze le contraddizioni umane. Ecco perché non sorprende che l’Iliade diventi il libro di Rachel Bespaloff e, negli stessi giorni, anche di Simone Weil, pure lei una donna, ebrea, filosofa, pure lei in Francia e costretta, come Rachel, a espatriare a New York. Bespaloff e Weil scrivono sullo stesso libro senza sapere l’una dell’altra. Ma lo scrivono ciascuno secondo una prospettiva e una sensibilità diverse.
Se il fulcro della lettura omerica, per Weil, nel suo saggio L’Iliade o il poema della forza, è l’idea che nel poema si riveli in tutta la sua necessità la violenza brutale della forza («La forza è ciò che fa di chiunque le è sottomesso una cosa»), per Rachel non è tanto la forza il tema cardine dell’Iliade, ma piuttosto il duello fra Achille e Ettore, ovvero «il confronto tragico fra l’eroe della vendetta e l’eroe della resistenza». Non c’è, però, divisione manicheistica tra i due.
«Dove sono i buoni nell’Iliade? Dove sono i cattivi? Non ci sono che uomini in pena – guerrieri in lotta che trionfano o soccombono».
La guerra distrugge tutto ciò che tocca, ma è anche una drammatica metafora della vita. E la vita non si giudica né si assolve. Perché «la vita è essenzialmente ciò che non si lascia valutare, misurare, condannare o giustificare dal vivente. Essa giudica se stessa solo prendendo coscienza della propria ineffabilità». Una frase che contiene un tale valore sapienziale – come spesso accade negli scritti di Bespaloff – da rendere superflua ogni chiosa, ogni spiegazione.
«Ettore è il custode delle felicità periture» scrive ancora a proposito dell’eroe troiano. Che cosa vuol dire? Che Ettore è l’eroe della difesa, della resistenza, della conservazione, nel divampare della guerra, di ciò che l’uomo ha di più caro: il proprio spazio privato, intimo, ciò che tiene riparato tra le mura domestiche. Ma la guerra, si sa, abbatte ogni confine: in guerra tutto è pubblico, nel senso che tutto è violabile. Non è un caso, allora, che l’incontro tra Ettore e la moglie Andromaca con il figlio Astianatte avvenga nei pressi delle porte Scee, ai confini cioè tra la città protetta dalle mura di cinta e la pianura dove infuriano i combattimenti. In uno spazio fragile, cioè, ma ancora intatto, ancora difeso.
Andromaca supplica il marito di negarsi alla guerra, alla sua logica, ma non può esistere pacifismo nel cuore di Ettore, così come non può esistere pacifismo in un popolo assediato dal nemico. L’eroe troiano non può fare a meno di combattere, anche se sa che la sorte della sua patria è segnata. Eppure Omero gli regala pochi attimi di tregua domestica e coniugale: quando tende le braccia verso suo figlio e il bambino manda un grido di spavento per l’armatura e il pennacchio sull’elmo, il padre e la madre sorridono insieme. Ettore non è più il valoroso eroe, ma semplicemente un padre amorevole, che si toglie l’elmo e prende suo figlio in braccio. È solo un attimo, ma quanta umanità in questo gesto, in quel sorriso! È l’umanità che contraddistingue Ettore, il cui destino è quello di farsi «custode delle felicità periture». È l’umanità che resiste anche nel trionfo della guerra.
La parola «tregua», nel testo di Bespaloff sull’Iliade, ha per questo un valore cruciale. Non a caso è accompagnata dall’aggettivo «sacra». Come quando il re Priamo si reca nell’accampamento nemico, nella tenda di Achille, l’assassino del figlio, per supplicarlo di riconsegnargli il corpo. A questa scena, la più potente, solenne, commovente di tutta la storia della letteratura, Bespaloff dedica pagine indimenticabili. Tutta la maestà di Priamo, sovrano di Troia, consiste nel tramutare la forza in debolezza. Priamo si piega di fronte ad Achille, ma la sua debolezza è contagiosa e rivelatrice. Achille, l’eroe spietato, vendicativo, viene preso, infatti, dal «desiderio di piangere per suo padre». Scrive Bespaloff che la supplica di Priamo apre gli occhi ad Achille:
«L’Uccisore ridiventa un uomo carico di infanzia e di morte».
Ecco, allora, che Achille prende la mano di Priamo e la scosta da sé dolcemente. È un istante di silenzio, quegli istanti fecondi di vita, anche nell’infuriare della guerra, che per Bespaloff sono rivelatori. In quel silenzio vittima e carnefice si riconoscono uguali nella perdita, nella sconfitta. Achille scopre, attraverso Priamo il perdente, che la forza è serva della morte. Scopre che in guerra non esistono né vincitori né vinti, perché «hanno stabilito gli dei che gli infelici mortali vivano nel dolore, mentre loro non conoscono affanni». È, questo, l’unico momento di vicinanza tra i nemici. L’unico momento in cui aggressore e aggredito, l’uno di fronte all’altro, riconoscono dentro di loro una scintilla di umanità in un comune destino.
«Gli uomini vivono tutti nell’infelicità – scrive Bespaloff – questo è l’unico fondamento della vera uguaglianza. Omero ha voluto che fosse proprio il vincitore a ricordarlo al vinto».
I due si ammirano a vicenda, cenano insieme, dormono perfino insieme.
«Il prestigio della debolezza trionfa per un istante sul prestigio della forza».
È l’istante fecondo, in cui la bellezza si rispecchia nella verità, dove
«l’odio si smonta e si stempera, gli avversari possono guardarsi senza più essere l’uno per l’altro un bersaglio, una cosa da distruggere».
Non c’è perdono per l’offesa, precisa Bespaloff, ma piuttosto «l’oblio dell’offesa nella contemplazione dell’eternità». Se per Weil l’Iliade è il poema della forza, per Bespaloff è il poema dell’infelicità, dell’amarezza. Ma è anche il poema in cui è possibile ancora la «tregua», la custodia delle «felicità periture». Mentre per Weil la vita degli eroi omerici – e di tutti noi – si svolge «lontano dai bagni caldi», per Rachel esiste sempre una «una deroga eccezionale alle leggi che regolano il meccanismo della violenza». La sofferenza resta, non c’è redenzione, ma
«vi è, e sempre vi sarà, un certo modo di dire la verità, di proclamare la giustizia, di cercare Dio, di onorare l’uomo».
Bespaloff tentò fino alla fine di tenere accesa questa luce della speranza, nella notte del Novecento, da contrapporre alla «cecità della storia». Finché, il 6 aprile 1949, nella casa di South Hadley, tutto si spense – la luce, la voce, la ricerca della verità – e non restò che il buio, la discesa agli inferi.
Poco prima, Rachel aveva scritto a Gabriel Marcel, in un momento di accorata fiducia:
«Eppure, la vita può ancora, in certi minuti, essere incredibilmente bella – come un tema che riappare verso la fine con qualche nota in meno, una sincope, un ritardo…».
Fabrizio Coscia
Bibliografia di riferimento:
Rachel Bespaloff, L’istante e la libertà, Einaudi, 2021 – Sull’Iliade, Adelphi, 2018 – L’eternità nell’istante. Gli anni francesi (1932-1942). Opere,vol. 1, Castelvecchi, 2022 – La sfida della libertà. Gli anni americani (1943-1949). Opere,vol. 2, Castelvecchi, 2024.
Rachel Bespaloff, La verità che noi siamo. Lettere a Lev Šestov e Benjamin Fondane, De Piante, 2022.
Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, in La rivelazione greca, Adelphi, 2014.
Omero, Iliade, Marsilio, 2018.