Perché parlare solo ora di Transparent, la serie tv andata in onda dal 2015 al 2019 che racconta la storia di Maura Pfefferman e della sua famiglia disfunzionale di ebrei americani di Los Angeles alle prese con la loro fluida identità sessuale o di genere, e con la loro perenne ricerca di punti di riferimento in un mondo che non ne offre nessuno? Un po’ perché mi ci sono imbattuto con colpevole ritardo, e quasi per caso, incuriosito (o forse infastidito) dalla compulsività con cui Linda, la mia compagna, lo ha divorato in pochi giorni, isolandosi con cuffiette e Ipad dal resto del mondo. Ma anche perché ho scoperto che questa serie, pluripremiata e ideata da Jill Soloway, autrice femminista statunitense, offre alcuni spunti di riflessione che credo valga ancora la pena approfondire. A colpirmi subito (oltre alla superba interpretazione di tutti gli attori), è stata soprattutto la qualità della scrittura, di una densità che non esiterei a definire romanzesca. Che cosa voglio dire con questo? Che fin da subito, seguendo le vicende del settantenne professore universitario in pensione che decide di rivelare alla sua famiglia di essere una donna trans e quelle dei suoi tre figli, in maniera diversa instabili, immaturi, sessodipendenti, mi è venuto da pensare a un romanzo.
I temi, i personaggi, la struttura, la complessità stessa della realtà rappresentata sono, infatti, romanzeschi: una storia così, ancora vent’anni fa, sarebbe stata un romanzo ambizioso, scritto magari da un Jonathan Franzen o un Jeffrey Eugenides (o da entrambi insieme), una via di mezzo tra Le correzioni e Middlesex, per intenderci. E già questa impressione immediata, ma poi via via sempre più rafforzata, mi ha confermato un’idea su cui vado riflettendo da molto tempo ormai: l’idea di quanto la «narrazione» si sia allontanata dal genere romanzo, da quello «specchio» che per Stendhal era capace di riprodurre la realtà in cui viviamo e che con la splendida agonia del modernismo era andato in frantumi, pur continuando a riflettere con i suoi frammenti un’immagine del mondo. Dopo, quello stesso specchio è stato riassemblato in maniera posticcia, per dare l’illusione di un restauro, come se quella frantumazione non fosse mai avvenuta, ma intanto la forza rappresentativa originaria – realistica e mitopoietica insieme – era andata già perduta e lo specchio, prima capace di riflettere la complessità del mondo e dell’individuo, è rimasto opaco (con le dovute eccezioni, naturalmente, che ancora perdurano come frantumi residui di quello specchio).
Già Giacomo Debenedetti, del resto, nel suo saggio sul «personaggio-uomo» passava da Svevo, Tozzi, Proust e Joyce a Michelangelo Antonioni, lasciando intendere che la narrazione alla fine del Novecento era trasmigrata nel cinema, così come quattrocento anni prima era trasmigrata dall’epica al romanzo. Adesso il testimone della narrazione è passato alle tv/web series, che sono un’industria, certo, ma non diversamente dal cinema, che pure ha prodotto capolavori artistici. Così come un’industria era il romanzo d’appendice ottocentesco, da cui sono nati, in mezzo a tanta spazzatura commerciale, i capolavori di Dickens, Tolstoj, Dostoevskij e Flaubert, e da cui le serie tv hanno ereditato il concetto, appunto, di serialità. I generi, in definitiva, nascono, crescono, decadono e muoiono come tutte le cose, e neanche il romanzo, checché ne pensi l’editoria attuale, è una formula eterna.
Detto questo, però, mi preme tornare a Transparent, che ho visto (stavo per scrivere letto) come il vero Grande Romanzo Americano del nuovo millennio, come la narrazione, cioè, che meglio di qualsiasi novel di questi ultimi anni ci ha restituito l’immagine dello smarrimento epocale che stiamo vivendo: quello di un’umanità alla ricerca di se stessa, laddove il nomadismo identitario è diventato una condizione permanente. Ma che cosa narra, appunto, Transparent? Ci sono due modi di spiegarlo: il primo è quello più evidente, che pone al centro la questione del gender, nell’intento di affrontarla senza remore, con un’ottica progressista, senza nascondere i problemi e le difficoltà che certi percorsi di identità di genere presentano anche in una società aperta e «tollerante» (soprattutto per le implicazioni psicologiche e familiari che comportano). Ho parlato di «ottica progressista», ma a volte si può avere l’impressione del contrario, e cioè che l’ottica di fondo adottata sia invece quella conservatrice tipica di chi vuole mostrare le conseguenze negative (pagate in termini di solitudine, egoismo, insoddisfazione) di chi vive il proprio gender fluid o la propria polisessualità nella più totale libertà. E come giudicare, tra l’altro, il fatto che i singoli membri di questo anomalo clan riescano a trovare i loro pochi momenti di consolazione, di quiete, di tregua, solo in seno alla famiglia, per quanto sia una famiglia molto poco tradizionale? La verità è che termini come «progressista» e «conservatore» non hanno più molto senso di fronte alla complessità del reale che stiamo vivendo e che Transparent ha saputo rappresentare nelle sue sfumature e nelle sue contraddizioni. Così che la serie può apparirci, allo stesso tempo, un inno alla ideologia Lgtb e una sua critica (si veda, ad esempio, la parodia del dogmatismo femminista e la presa di distanza di Maura nell’episodio del raduno lesbico, dove perfino una trans può essere messa al bando solo perché ha il pene, simbolo di privilegio e di oppressione), e può apparirci, allo stesso tempo, l’apologia di una visione nichilista e perfino cinica («La vita fa schifo e poi si muore» esclama a un certo punto Maura, con una forza icastica degna di un personaggio di Philip Roth) e l’elogio della compassione come insospettata risorsa affettiva in qualche modo salvifica.
Ma sarebbe un errore concepire Transparent semplicemente come una serie sul transgender (e vengo al secondo modo di spiegare che cosa narra la serie). La ricerca dell’identità sessuale va intesa qui, infatti, come una metafora della ricerca dell’identità tout court e della sofferenza che essa inevitabilmente comporta per ciascuno di noi. A offrirci questa doppia chiave di lettura è il titolo stesso: da un lato un gioco di parole («Genitore trans») che allude al protagonista, Morton “Mort” Pfefferman, ribattezzatosi Maura da quando decide di mostrarsi come una donna alla sua famiglia e a tutto il mondo (un immenso Jeffrey Tambor, che riesce a restituire tutta la dignità, il dolore, l’eleganza e perfino il candore di questo meraviglioso personaggio), dall’altro il concetto di «trasparenza», ovvero di nudità, di inermità, condizione che accomuna i tre figli di Maura: Sarah, la maggiore, che non esita a lasciare marito e figli per sposare una donna, salvo poi pentirsene il giorno stesso del matrimonio annullandolo, e continuando a vagare tra esperimenti S/M, amanti occasionali (maschi e femmine), fino a tornare dal marito e coinvolgerlo nelle sue inquiete ricerche sessuali; Josh, produttore musicale dalla personalità irrisolta e dalla vita sentimentale ed erotica immatura, edipico e incapace di legarsi e impegnarsi con qualsiasi donna, molestato da ragazzino dalla sua baby-sitter, con cui ha avuto una relazione e un figlio conosciuto solo da adulto; Ali, la più piccola e la più confusa, che scopre il suo lesbismo in ritardo ed è, forse, intenzionata a intraprendere lo stesso difficoltoso percorso della sua «mapa» (questo il nomignolo che lei stessa ha dato a Maura).
Non sono affatto dei personaggi «amabili», anzi, spesso risultano eccessivi, irritanti per il loro egoismo e infantilismo, per il loro modo di usare senza scrupolo le persone. Eppure è proprio nella «trasparenza» che li rivela in tutta la propria inadeguatezza la loro forza: sono nudi, deboli, fragili, sono, in breve, degli esseri umani (anche Shelly, la loro madre ed ex moglie di Maura, personaggio nient’affatto secondario, è una donna che non nasconde le sue fragilità). Esseri umani che vivono il disagio e l’enorme difficoltà di diventare se stessi, in un mondo senza padri (e dunque senza Legge), perché se ne sono andati o si sono trasformati in madri. Da questo punto di vista, la sottotrama che rievoca la storia dei Pfefferman nella Berlino degli anni Trenta offre una ulteriore possibilità di lettura: quella libertà per cui Maura e i suoi figli combattono con tutte le loro irresolutezze si confronta continuamente con un passato parentale che pesa, con l’ombra della Shoah, come un macigno. In fondo, Transparent racconta anche che cosa significa oggi essere ebrei americani, ebrei assimilati che pure trovano nei rituali religiosi un appiglio, per quanto provvisorio (è emblematico il fatto che la famiglia riesca a provare un senso di appartenenza oscillando tra i canti tradizionali ebraici e le canzoni di Jesus Christ Superstar).
Uno dei momenti più intensi della serie è per questo il finale della quarta stagione, con la gita in Israele (una gita, ancora una volta, alla ricerca di un Padre), dove la famiglia si scontra con la complessità di un Paese lacerato dalle contraddizioni, e fatica a comprenderla questa complessità, perché fatica a comprendere la complessità delle proprie origini. A patto di non prendere in considerazione il brutto finale musical di due ore, realizzato per dare una conclusione affrettata e piuttosto incongrua alla serie (dopo il licenziamento di Tambor avvenuto sull’onda del movimento Mee Too, per le accuse di molestie sessuali sul set), quale conclusione ci propone, dunque, Transparent? L’idea che la vita, per quanto faccia «schifo», o sia imperfetta, fallimentare, inconcludente, vada comunque vissuta, in una ostinata ricerca di se stessi, e che la libertà di questa ricerca vada difesa ad ogni costo, e che lo stare insieme agli altri, in un mondo così dominato dall’anomia, presupponga un continuo riposizionamento dei ruoli, e infine l’idea soprattutto che l’unica forma di amore cui non possiamo rinunciare, nella liquidità di una società dove il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza è l’unica certezza, sia quella di accettare la vulnerabilità dell’altro.
Fabrizio Coscia