All’origine della letteratura occidentale c’è un poema sulla guerra. Il narratore dell’Iliade è un uomo, una donna? O sono più autori coinvolti nella sua stesura? La cosiddetta questione omerica che riguarda la paternità e la genesi dell’opera, probabilmente non troverà mai una risposta definitiva: ma è proprio l’enigmaticità che l’avvolge ad elevarla al rango di un mito. La leggendaria guerra di Troia, apparentemente così lontana dal nostro presente, è l’archetipo della guerra.
Di tutte le guerre.
Il tema dell’Iliade è la guerra stessa: i meccanismi secondo i quali funziona e i motivi che in ogni epoca portano persone e nazioni a farsi trascinare dall’abissale fascino di violenza e distruzione. Il manifesto fondativo della letteratura occidentale è un libro sulla guerra: esso è l’ombra che oscura le nostre conquiste culturali. Senza chiederci cosa ha a che fare con noi – carnefici, vittime, spettatori e indifferenti – l’immagine dell’uomo ideale che le scienze umanistiche hanno creato nel corso dei secoli, è immancabilmente falsa.
All’inizio degli anni Quaranta, due filosofe di lingua francese, Rachel Bespaloff (1895-1949) e Simone Weil (1909-1943), dedicano, senza sapere una dell’altra, un saggio all’Iliade. Nessuna delle due opere si intende come contributo alla filologia, l’interesse delle autrici riguarda, invece, le comuni radici di tutte le guerre.
Da una situazione quotidiana – l’aiuto allo studio della figlia adolescente – Bespaloff inizia a leggere l’Iliade. È una filosofa autodidatta che, tuttavia, ha già alle spalle diverse pubblicazioni in riviste rinomate dell’epoca, tra queste il primo approccio dedicato a Essere e tempo in lingua francese. Proveniente da una colta famiglia ebrea, Bespaloff nasce in Bulgaria. Vive e studia a Kiev, Ginevra e Parigi. Nel 1942 fugge insieme alla famiglia negli Stati Uniti, ma, profondamente radicata nella cultura europea, non riesce a trovare il suo posto nel nuovo mondo. Nel 1949, all’età di 54 anni, insieme alla madre gravemente ammalata, si toglie la vita.
Sullo sfondo della propria esperienza, Bespaloff legge l’Iliade come un compendio di concatenazioni archetipiche. Senza una domanda precisa, si abbandona completamente al flusso della narrazione. Il focus del suo interesse sono i personaggi e la dinamica delle loro relazioni in tutta la complessità e contraddittorietà che dimostrano. Infatti, nella sua interpretazione, Ettore e Achille non sono l’incarnazione del bene e del male assoluto – semplicemente, la struttura del poema epico che si basa sul rapporto dialettico tra protagonista e antagonista, ha bisogno di antipodi per sviluppare la trama. I ruoli loro assegnati dagli dei non rappresentano di per sé alcuna qualità morale.
Nella lettura di Bespaloff, l’Iliade non è né un poema eroico, né una denuncia della guerra. La sua verità sta nella fredda constatazione che le guerre accadono, e accadranno sempre, essendo l’impulso alla violenza segnato sulla mappa interiore dell’uomo. Del resto, non è un caso che la trama si sviluppi nella fase finale della guerra e non in quella iniziale. A dieci anni dal suo scoppio, nessuno ricorda più la causa scatenante: il rapimento di Elena. Gli effetti devastanti della guerra hanno da tempo smorzato l’iniziale entusiasmo. Più a lungo la guerra dura, più irrazionali e incomprensibili appaiano i suoi motivi. Nessun messaggio, nessuna consolazione e nessun appello morale può essere tratto dall’assoluta insensatezza dell’omicidio di massa istituzionalizzato che è la guerra, che sono le guerre di tutti i tempi:
“Omero non si stupisce, né è indignato e nemmeno spera in una risposta. Dove sono, nell’Iliade, i buoni? Dove sono i cattivi? Non si vedono che uomini in affanno, guerrieri in lotta che trionfano o soccombono. La passione per la giustizia non si esprime che nel lutto della giustizia, e nella confessione del silenzio. Condannare o assolvere la forza vorrebbe dire condannare o assolvere la vita stessa”.
A differenza di Rachel Bespaloff che esplora il testo simile a una viaggiatrice, Simone Weil analizza la stessa opera in relazione a una questione: quella della violenza. Nelle prime righe del suo saggio espone la sua tesi:
“Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. La forza usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti la quale la carne degli uomini si ritrae. L’anima umana vi appare di continuo alterata dai suoi rapporti con la forza: trascinata, accecata dalla forza di cui crede di disporre, curva sotto il giogo della forza che subisce. La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa in senso letterale del termine, poiché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno. È questa l’immagine che l’Iliade non si stanca di presentarci”.
Simone Weil è una delle figure più stravaganti della filosofia del XX secolo. Nata anche lei figlia di una famiglia ebrea dell’alta borghesia, si laurea in filosofia a Parigi. Lavora come insegnante in una scuola superiore e contemporaneamente comincia a pubblicare saggi su tematiche politiche e sociali. Convinta della necessità di passare all’azione politica, nel 1938, si arruola nelle Brigate internazionali e parte per la guerra civile in Spagna. Dopo il ritorno in Francia, delusa dalla violenza esercitata da entrambe le parti belliche, cerca lavoro in fabbrica, impegnandosi a migliorare le condizioni sociali degli operai a livello sindacale. Negli ultimi anni di vita si ritira sempre di più dalla vita pubblica dedicandosi allo studio delle grandi tradizioni mistiche. Costretta a lasciare la Francia occupata dai tedeschi, si stabilisce in Inghilterra dove nel 1943 muore all’età di 34 anni.
Ufficialmente di tubercolosi, in verità, stanca di vivere, aveva smesso di nutrirsi.
Nel 1939, all’indomani dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Weil inizia la stesura del suo saggio L’Iliade o il poema della forza. Secondo la sua interpretazione non è l’uomo che usa la violenza, ma è la violenza stessa che si impossessa di lui diventando quindi il soggetto effettivo. Infatti, la sua analisi si concentra sui meccanismi della violenza strutturale che precedono le sue singole manifestazioni:
“In questo modo la violenza schiaccia chi la tocca e alla fine appare estranea a chi la usa e a chi la subisce. Nasce allora l’idea di un destino per il quale i carnefici sono altrettanto innocenti delle vittime, i vincitori e i vinti si ritrovano fratelli nella stessa miseria. Il vinto è causa di sventura per il vincitore come il vincitore lo è per il vinto”.
Per Weil, vittoria e sconfitta sono parole senza senso. Prima o poi, la guerra renderà vittime tutti quelli che sono coinvolti nelle sue azioni: questo è il messaggio del suo appassionato appello alla ragione umana, in cui lei stessa, però, non crede più.
Le letture delle due filosofe, così diverse nel loro modo di approcciarsi al testo, si incontrano nella prospettiva che l’Iliade propone quanto alla possibilità di interrompere la fatalità della violenza. Dopo che tutte le atrocità sono state commesse, dopo che tutti i protagonisti si sono reciprocamente privati dalla propria dignità umana, l’ultimo capitolo prende una svolta inaspettata: il padre di Ettore, il vecchio re Priamo, va da Achille, l’assassinio di suo figlio, per convincerlo a consegnargli la salma. Soltanto nel momento della catastrofe compiuta, i due uomini possono finalmente uscire dai ruoli prestabiliti per incontrarsi da uomini liberi: Achille riconosce in Priamo il proprio dolore per la perdita di una persona cara, mentre Priamo vede in Achille l’immagine della forza e della bellezza virile. Sebbene la guerra non sia ancora finita – l’equilibrio delle forze sarà ristabilito soltanto dopo la morte di Achille che, però, non è più oggetto dell’Iliade – il pasto che i due uomini consumeranno insieme, può essere letta come l’utopia reale della pacifica convivenza degli uomini sulla terra.
Questo momento di tregua è l’unica immagine consolatoria che l’Iliade concede al lettore. Già gli dei stanno aspettando la prossima occasione per attirare gli umani nelle trappole dei loro intrighi, e già sono pronti gli umani a caderci dentro per sfuggire alla noia quotidiana. Questa è la visione spassionata degli antichi sulle sorti del mondo che conoscerà una reinterpretazione radicale solo attraverso il motivo del perdono proclamato dal cristianesimo.
Il messaggio ideale del Nuovo Testamento è che la guerra e la violenza non sono l’ultima ratio. La storia fornisce una verità opposta: non c’è epoca senza guerra, non c’è giorno senza crimine, non c’è minuto senza che uomini e animali perdano la vita a causa di violenze subite. La contraddizione è eclatante. Non sembra, in questa prospettiva, il pasto di Priamo e Achille uno scherno?
È interessante che lo sguardo obiettivo del poema epico, che non promette nulla che la realtà non possa mantenere, corrisponda a un’osservazione messa in rilievo da recenti ricerche sociologiche sull’origine dei conflitti: si tratta, appunto, di quell’attimo di riflessione che sta nel minuscolo spazio di tempo tra l’impulso e l’azione e che permette di schierarsi per o contro la violenza. Attimi che nella futura era dell’intelligenza artificiale, com’è facilmente prevedibile, non ci saranno più.
Nella seconda metà del XX secolo le note ricerche di psicologia sociale hanno dimostrato l’esistenza di due spinte opposte nell’uomo. Da una parte la propensione alla violenza, dall’altra la capacità di mostrare compassione e solidarietà – reazioni che dipendono in gran parte dall’ambiente circostante. È indiscusso che laddove la violenza viene dichiarata mezzo legittimo per la risoluzione dei conflitti, il suo imperativo implicito non può più essere interrotto. Non intende altro Simone Weil quando afferma che in tempi di guerra la violenza stessa, immancabilmente, diventa protagonista e quindi soggetto della storia. Ieri come oggi.
La decisione di giustificare l’escalation continua della guerra in Ucraina con il diritto alla difesa dell’aggredito non fa altro che dichiarare la violenza e il commercio internazionale delle armi, indispensabile al suo esercizio, come una necessità morale davanti alla cui pretesa ogni altra valutazione dei fatti deve essere messa a tacere. L’innesco della guerra di Troia fu il rapimento della bella Elena da parte di Paride: una galanteria! Nel decimo anno di guerra e di fronte alle sofferenze che Greci e Troiani si sono inflitti a vicenda, nessuno si ricorda più del motivo. Ragioni e contro ragioni si sono da tempo rivelate ciò che erano e che tutt’ora sono: pretesti per la lotta per il potere delle rispettive élite politiche ed economiche, il cui prezzo è la morte.
I morti sono l’unica verità sulla guerra. Di ogni guerra.