Il primo amore non si scorda mai: Vasco Pratolini, uno sconfitto di genio
Letterature
Silvano Calzini
Ogni parabola artistica conosce momenti di rottura, pentimenti. Così pure quella di Camus, autore sempre in bilico tra la fiducia e il disincanto, ma che nondimeno ha mantenuto una lucida aderenza alle cose, all’esistenza finita, alla responsabilità etica del singolo (e della collettività in quanto insieme di singoli) in un mondo percepito, in sé stesso, come assurdo.
Riconoscere alcune evidenze non basta: l’artista ha il dovere di assumerle fino alle conseguenze più estreme, rinunciando a ogni pretesa di originalità. Bisogna avere, ci dice, la forza di non scansare il “finito”, tenerlo fermo davanti agli occhi senza cedere alle tentazioni della speranza, alle illusioni che rappresentano, in fondo, tentativi di ripiegamento, di evasione rispetto a verità viste come insostenibili.
La posizione esistenziale di Camus rifiuta le filosofie che, per sottrarsi al senso dell’assurdo, ricercano nuove vie “al di là dell’evidenza”, itinerari astratti – o peggio ancora – metafisici che sottendono un tradimento del reale. La libertà dell’artista non può in alcun modo prescindere dalla “fedeltà” verso ciò che è certo, imperativo, all’ordine singolare con cui si è sforzato di dare forma al caos: “Libertà difficile e che rassomiglia piuttosto a una disciplina ascetica? Quale artista lo negherebbe? Quale artista oserebbe proclamarsi all’altezza di questa impresa incessante? Questa libertà suppone una salute del corpo e del cuore, uno stile che sia forza dell’anima e paziente coraggio. È, come tutte le libertà, un rischio continuo, un’estenuante avventura, ed ecco perché si fugge oggi quel rischio come si fugge la libertà esigente per abbandonarsi a ogni sorta di schiavitù e ottenere almeno il conforto dell’anima […] L’artista libero è quello che, a gran fatica, crea da sé stesso il suo ordine. Più caotico è ciò che deve ordinare, più la sua regola sarà rigorosa e più avrà affermato la sua libertà”.
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Appare chiaro quanto Camus non sia solo l’intellettuale che medita intorno al concetto (diffuso nella coscienza europea del tempo) di assurdo, ma si presenti come una figura altamente morale, che respinge compromessi, equivocità e sofismi, molte volte a prezzo dell’isolamento e della disapprovazione degli altri. Per questo biasima la tendenza degli intellettuali che, affamati di potere e prestigio, si mostrano ciechi e insensibili di fronte alle brutalità del vero, inclini a una logica del dominio e dell’assoggettamento. E non a caso il suo impegno si esprime su più fronti: oltre alla letteratura, si occupa di giornalismo, di politica (si pensi, ad esempio, alla posizione presa nei confronti del problema algerino e la sua condanna del colonialismo francese), sempre animato da un desiderio di giustizia che non di rado lo espone ai pericoli e alle riprovazioni dell’establishment. “In mezzo a questo baccano lo scrittore non può sperare di tenersi in disparte per seguire le riflessioni e le immagini che gli sono care. Fino ad oggi, bene o male, l’astensione è stata sempre possibile nella storia: chi non approvava poteva spesso tacere o parlare d’altro. Oggi tutto è cambiato, lo stesso silenzio assume un significato pericoloso”.
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Incontentabile, affatto immobilizzato dal nonsenso, Camus non si limita alla negazione, bensì persevera, si batte per contrapporre al nichilismo i valori concreti della terra, della dignità e della solidarietà umana.
Pur affermando di non credere in Dio, non si definisce un ateo («Sarei anche d’accordo con Benjamin Constant nel trovare nell’irreligione qualcosa di volgare […] e di logoro»). Ciò che può sembrare contraddittorio, offre in effetti un’importante chiave di lettura della prospettiva camusiana. Il Dio cui si riferisce è quello indicato dalla cristianità come misericordioso, caritatevole e giusto, che consola gli oppressi e punisce gli oppressori; ma la realtà di fatto è diversa, e dimostra la sua inesistenza.
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Il male è inerente alle cose stesse: la sua presenza, che la ragione ritiene immotivata, produce lo scandalo, la collisione – alle radici dell’assurdo – tra le aspirazioni dell’uomo e le dolorose certezze del mondo. In tal senso Dio è il lontano, l’indifferente per eccellenza; e a lui si rivolge la polemica, la sfida dei personaggi di Camus. Essi rivelano un bisogno, una necessità di cogliere un principio metafisico che renda “ammissibile” il male. Questo è sufficiente all’individuazione di una certa aura di religiosità che esclude qualunque interpretazione del pensiero dello scrittore francese in chiave strettamente ateistica.
A differenza di Sartre, Camus non crede che l’uomo sia responsabile della totalità degli eventi, men che meno dell’assurdità dell’esistenza. La “rivolta” si configura, così, come la risposta umana al silenzio e all’inamovibilità di Dio.
C’è da dire, però, che la morale cristiana, propugnando l’impegno quotidiano verso il prossimo, si rivela affine all’etica laica della solidarietà (un dialogo possibile, quello tra il laico e il cristiano, messo in chiaro nel corso di una conferenza tenuta al convento domenicano di Latour-Maubourg).
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Non credere in Dio significa, in fin dei conti, rifiutarne il ruolo di garante della felicità umana, ma d’altra parte è necessario negare qualsiasi processo di deificazione dell’uomo e della storia.
A ben vedere, la riflessione camusiana, sebbene si ponga in assenza del divino, non può definirsi “irreligiosa”. Vi percepiamo infatti quella sete di sacro, di assoluto, quell’anelito alla pienezza, alla libertà e alla dignità che ogni vita ha il diritto di reclamare: “Spartisco con voi lo stesso orrore del male. Ma non spartisco la vostra speranza, pur continuando a lottare contro questo universo in cui dei bambini soffrono e muoiono […] Come essere santi senza Dio: è questo il solo problema concreto che io conosca”.
Sergio Bertolino