23 Febbraio 2024

“Era lui il terribile che si annidava nell’oscurità”. Il racconto-prodigio di Hofmannsthal, amato da Cristina Campo

Quando confessa ad Alejandra Pizarnik di non avere amici a Roma – “No, nessuno ha degli amici a Roma. È una città di una crudeltà incredibile, proprio perché è bonaria” – le scrive di trovare intima confidenza in Simone Weil e in Hugo von Hofmannsthal. È il 22 febbraio del 1963, l’Urbe, scrive, è un cumulo di “savane che ti inghiottono”: occorre vivere tra remoti, “in un ascetismo pressoché totale, per rimanere intatti”. Cristina Campo ha i toni, pur sempre cristallini, con le spine e i draghi sotto la superficie del lago, della dottrina. Vuole che l’amica – mai tanto distante, inghiottita da spettri e oscurità in serie – impari, si impratichisca con la nobiltà della letteratura. Nelle lettere – scoperte, curate e tradotte da Stefanie Golisch in un’edizione, Cara amica, la patria è la lingua. Lettere di Cristina Campo ad Alejandra Pizarnik (1963-1970), stampata dalle edizioni Magog come dono agli abbonati – impone Hugo von Hofmannsthal. Lo fa con ininterrotta costanza.

“Quanto a Hofmannsthal, non potevo più vivere senza averLe dato La lettera di Lord Chandos, I colori, Re e grandi signori in Shakespeare. Sono stata felicissima di trovare nella mia biblioteca questa eccellente traduzione francese”, le scrive, nell’ottobre del ’63. Del sommo scrittore austriaco amava la precoce severità (“Hofmannsthal, a diciassette anni, firmandosi Loris, lo si credeva un anziano ambasciatore”, scrive ad Alejandra, è il 5 ottobre del ’64), il dono della sprezzatura, l’implacabile innocenza con cui mirava gli abissi dell’uomo, il lirismo senza sedizioni estetizzanti. Hofmannsthal aveva raccontato – proprio nella Lettera di Lord Chandos – la fine del linguaggio, l’abulia letteraria, il verbo retrattile, divenuto, ormai, cobra o slogan.

Tra i rari lettori di Hofmannsthal in Italia – paese, per devianza d’estro, poco incline alla perfezione – Cristina Campo aveva tradotto alcune sue prose in un volume stampato nel 1958 da Cederna, per la cura di Leone Traverso, s’intitolava Viaggi e saggi. In uno di quei testi, dal titolo Figurazioni – meglio sarebbe: “illuminazioni” – Hofmannsthal scrive:

“Volentieri gli uomini cercano dietro una poesia ciò che essi chiamano ‘il particolare significato’. E sono simili alle scimmie, che sempre annaspano con le mani dietro lo specchio, quasi fosse là dietro il corpo da afferrare”.

Il volume raccoglie traduzioni di Giovanna Bemporad e Giorgio Zampa; Cristina Campo firmava Vittoria Guerrini. Quelle traduzioni sono state stampate recentemente a cura di Alessandro Tesauro come Hofmannsthal tradotto da Cristina Campo (Ripostes, 2001).

Un altro importante rapporto epistolare di Cristina Campo, quello intrattenuto con Alessandro Spina (in: C. Campo – A. Spina, Carteggio, Morcelliana, 2007), vive sotto il segno di Hofmannsthal. La Campo reagisce al genio di Spina, scrittore di impeccabile nitore, nel febbraio del 1961, dopo aver letto, su “Paragone”, la rivista diretta da Roberto Longhi e Anna Banti, il racconto Giugno ’40. Quel testo dalla “qualità molto rara, come da tempo non mi accadeva di leggere” le ricorda Der Rosenkavalier, il libretto di Hofmannsthal messo in musica da Richard Strauss. Anche Spina – eccelso narratore di origini siriane – ha in Hofmannsthal uno dei suoi rari maestri: “Ho letto Hofmannsthal in aereo. Tre volte la Lettera di Lord Chandos – bellissima”, le scrive, a fine gennaio, è il 1962. Lei risponde inviandogli alcune poesie dell’austriaco. Nell’ottobre del ’63 l’immaginazione scalpita: CC immagina un fatidico cenacolo di grandi ombre:

“Sogno a volte un salotto complicato, come quello della Zarina Alessandra (l’eroina di Elémir), con un angolo simile a quello dedicato alle icone. Vorrei riuniti là, sopra un qualche velluto azzurro, i più bei volti del mondo. Questo dagherrotipo; la fotografia di Simon Weil bambina, il collo e le spalle nudi; il ritrattino di Čechov che guarda giocare i cani… poi Hofmannsthal col mento in mano, simile a Yaya Barmkid, all’Emiro Musa; Pasternak con i suoi occhi di freccia; e nella stessa cornice di Chopin (come sulla tomba di due coniugi morti prestissimo) Emily Dickinson a 17 anni, il collo esile cinto da velluto, la vita snella, i grandissimi occhi divergenti… Poi altri che nessuno conosce”.

Cristina Campo sacerdotessa delle anime andate: solo da morti si comunica; e noi, maliziosi ignavi, vorremmo conoscere quegli sconosciuti nati & defunti in un accenno.

Agnizione fisiognomica: Cristina Campo parla di “più bei volti”, non di opere eccellenti. Il viso, emblema dell’opera, sua cifra. Corpus-corpo.

Le letture di CC sono selvatiche: chi penetra nei suoi favori vi resta, leonino, per sempre, fino all’ossessione. Così, nei carteggi, difformi ma simili – amicizie per dettatura, sotto la dittatura delle diverse ore del giorno: ci sono quelli a cui si scrive all’alba, quelli che pretendono scritture tardive, da tensione serale – Hofmannsthal è ovunque. In particolare, ancora alla Pizarnik, all’ingresso del ’64, la Campo scrive di un “prodigioso frammento Dämmerung und nächtliches Gewitter (Crepuscolo e temporale notturno) che, come direbbe Borges, è scritto in un idioma che non esiste”.

Di quel racconto – a suo tempo, era il 1982, presentato da Adelphi in La mela d’oro e altri racconti, qui in nuova traduzione a cura di Tommaso Filippucci –, piccolo smeraldo che ci si conficca nel fianco sinistro, sorprende la statura d’enigma. L’assassinio dello sparviero, figura di fertilità solare, con cui si apre, coincide con la pubertà del ragazzo Euseb, esuberante indizio del bimbo che diventa re del mondo, del fanciullo che rompe le regole della fiaba per avanzare tra effimere evidenze. Se muore lo sparviero, chiave di volta del cielo, il cosmo non può che rovesciarsi in acquazzone: al contempo, furia di corde impazzite e rettilario. L’incontro con la bestia e quello con la donna, squassa – tutto si rivela, a patto che ci si nasconda. È futile appropriarsi di un’apparizione: il testo di Hofmannsthal pare inciso su selce, non è un responso ma un richiamo, l’entità visionaria non sfugge in mille canidi rivoli – pericolo sempre all’erta negli scrittori ‘immaginifici’ –, ma resta candida, ferrea. Ogni ombra è una preda illuminata dai lampi: il ragazzo – così scrive Hofmannsthal nei suoi appunti – “si getta sempre tra le cose” (per esserne rigettato); il suo dramma: “non riuscire ad avvicinarsi alla bontà del mondo”. Come fare, d’altronde, a mungere bontà se le bestie non parlano e i temporali non recano nomi – scrittura simpatica vergata sull’aria, statuaria, vertiginosa verbosità, innegabile e illeggibile – nel tempo in cui dio muta da agnello a percezione, da onnipotente a impermanente?

Il racconto scoscende tra i perigli del rivelato.

***

Crepuscolo e temporale notturno. La storia dei fanciulli

Raccapricciante si contorceva lo sparviero, inchiodato alla porta del fienile dai furfanti, mentre la notte calava su di lui. Euseb, il più grande tra coloro che avevano compiuto tale gesto, rimaneva in piedi nella penombra e fissava l’uccello, la cui furiosa pazzia sprizzava dai suoi accecanti occhi mentre si dimenava verso la morte inflitta dai chiodi di ferro che gli trafiggevano le ali. E così, dall’aria oscura, scese la femmina in picchiata, volando con un grido stridulo in minuscole orbite vertiginose, quasi insensatamente, e rimase appesa, rigida, con ali tese e occhi ardenti per poi librarsi repentina verso l’alto, all’indietro, contro il muro della montagna, scomparendo e riapparendo in folli e selvaggi svolazzi.

Le sue grida dovevano adescare il nero temporale notturno, disteso lì con il suo cauto fulmine che incendiava il suo stesso corpo, e farlo abbattere sul villaggio con magiche orbite. Il fanciullo Euseb riusciva a stento a reggersi in piedi e il terrore gli agguantava la nuca a tal punto che non osava volgere i bulbi oculari. Tuttavia, afferrò di nuovo il martello per trovare suo padre. Ma quando l’intero fienile impallidì sotto le grinfie di un lampo muto, disturbato da una folata di vento alla sua destra che fece sbucare il barbuto caprimulgo da una fessura nel muro per infilzare un coleottero, e alla sua sinistra il pipistrello che barcollava, lo prese e lo gettò nel villaggio digrignando i denti. Un nuovo lampo irradiò il camposanto davanti a lui con tutte le commettiture abitate dagli aselli; le croci parevano protendersi sotto il repentino chiarore e, su una delle fresche tombe dei bambini, l’arbusto, i cui fiori erano cuori scarlatti appesi a un filo, rabbrividiva. Ma nel momento in cui i lampi sussultarono e l’oscurità piombò pesante come un lenzuolo, un bagliore sgusciò dalla finestra posteriore di un casotto inclinato verso il camposanto. In questa cameretta dormiva la figlia del macellaio, la ragazza più bella del villaggio; e uno dei fanciulli più grandi, era risaputo, una volta vide l’ombra del suo seno sulle tende mentre si svestiva, finché ella non spense la luce.

E così Euseb si rannicchiò sotto una tettoia dove erano accatastate delle tegole; il suo cuore batteva in modo dissimile rispetto a prima. Davanti a lui, con la testa rivolta verso terra, penzolava il vitello che aveva visto pascolare nel pomeriggio; pareva ancora che dal suo morbido muso emergesse un caldo alito. Qui il fanciullo Euseb passò il tempo, in agguato, come se nulla fosse; non sentì i quarti d’ora che picchiavano sulla sua testa e che ronzavano nell’aria oppressa. Non prestò attenzione al lampo che accecante denudava la campana nel suo stallo; sentì solo il vitello, intuì solo che la ragazza era lì dentro e che poi si sarebbe accostata nella sua cameretta. Lei ora girava per il tinello, e due o tre persone sedevano mentre il macellaio stava servendo loro del vino di un anno.

Due cupe figure si avvicinarono all’esterno della casa; erano servitori dei villici che avevano delle dacie intorno al villaggio e sulle pendici delle montagne; uno era in livrea con i calzettoni, l’altro era vestito da cacciatore. Uno rimase indietro e l’altro proseguì entrando nel tinello. Poi una donna, da un angolo buio accanto a una scrosciante fontana, si avvicinò a colui che era rimasto addietro, alzò le mani versò l’uomo e tentò di afferrargli il braccio. La parte inferiore della sua figura era difformemente larga, Euseb capì subito che si trattava della domestica del locandiere, una giovane forestiera che lui e gli altri fanciulli guardavano segretamente mentre ella, con il suo pesante corpo, si inginocchiava alla gora per lavare il bucato; loro tutti sapevano fosse incinta. Il servitore scosse la supplicante che con una mano si appoggiava al bordo della fontana e con l’altra si contorceva spasmodicamente il ventre; le sue lacrime affogarono il rumore della fontana; allora l’altro servitore varcò la soglia con la bella figlia del macellaio, e l’uomo in livrea, voltatosi verso la domestica in piedi nell’oscurità, pronunciò il suo discorso con un alto e stranamente illustre tono: “Quello è stato l’anno scorso,” urlò, “ora scriveremo un nuovo anno. E con questo Selah!”. E quando ella si avvicinò nuovamente a lui con un “Joseph, Joseph” che le usciva pieno di paura dalla bocca spalancata, lui le rinfacciò, con parole taglienti capaci farla irrigidire, che una persona nelle sue condizioni si sarebbe dovuta vergognare di vagare per i vicoli delle locande, che rimpiangeva il tempo che aveva sprecato con lei nell’anno trascorso e che tuttora ne stava rimpiangendo ogni minuto poiché aveva meglio da fare che stare con lei.

Tali parole taglienti penetrarono nel nascondiglio del fanciullo Euseb con una sorte di crudele voluttà, e, per la destrezza con la quale il servitore pronunciò le sue parole, per poi sparire nell’osteria fischiettando tre note senza voltarsi indietro, egli si sentì come quando le vesti delle donne e delle ragazze del paese lo sfioravano: la loro essenza sussurrava un fine e anestetizzante profumo che lo colmava di un sentimento ambivalente, in cui, mentre lo assaporava, credeva dolce e umile di sprofondare, ma contemporaneamente qualcosa in lui si ribellava. Questo duplice sentimento lo colse di nuovo; era come se la segreta magnificenza dei cittadini e dei loro servitori si aprisse a lui come una porta nell’oscurità, spingendolo a seguire la domestica, gemente tra sé e sé, con la mano sulla bocca e il volto distorto per non farsi notare alle sue spalle e per giocare crudele con l’ignara. Lei avanzava in mezzo alla strada con un’ovattata disperazione; lui sgusciava di lato tra le siepi piegate dalla tempesta, sotto gli alberi scossi dalla bufera, accanto ai fienili dalle travi cigolanti. La tempesta notturna gettava polvere e pula nei suoi occhi spalancati; egli non se ne accorgeva: aveva perso coscienza della sua forma, per qualche minuto era piccolo come una donnola, come un rospo, come tutto ciò che frusciava e si annidava sulla terra tremante; l’istante dopo era mastodontico, si allungava tra gli alberi, ed era lui a ghermire le loro cime piegandole con un gemito; era lui il terribile che si annidava nell’oscurità e balzava al bivio, e in lui vi era il terrore di un capriolo spaventato, e percepiva ogni suo brivido attraversargli la colonna vertebrale. Colei che barcollava davanti ai suoi occhi, era completamente abbandonata a lui; egli era un signore della città e ne aveva parecchie simili a lei; in casa sua aveva rinchiuso due donne e ora vi conduceva questa; era il macellaio che catturava un animale fuggito per ucciderlo, ma quell’animale era stregato; era tale donna ai suoi piedi. Piegava il capo quando si placava il vento e balzava nuovamente in avanti quando tornava a soffiare; vi era un’intima connessione tra i respiri del vento e la sua selvaggia e segreta caccia; il vento era in combutta con lui e gli enormi lampi illuminavano il sentiero con le sue orme, proiettavano la propria luce lungo i muri calcarei delle case e tra le siepi, risplendevano nella foresta e spogliavano le radici degli alberi, tutto per mostrargli la sua preda ogni qual volta essa tentava di sfuggirgli nell’oscurità.

***

Dagli appunti di Hugo von Hofmannsthal

Il fanciullo, in questa notte, è stato trascinato al di sopra di sé stesso – suo padre si avvicina a lui come un brigante, un vagabondo che vuole sbarazzarsi di un cavallo – il sacro gli si avvicina tanto da poterlo toccare –.

Il suo destino lo ha toccato in tutto, lo ha incitato alla crudeltà e destato in lui qualcosa di molto più profondo.

Euseb e l’uccello: prima di tutto si desta la sua avidità di impressioni per soffocare ciò che è successo con l’uccello. (Uno shock improvviso quando si rende conto che gli altri non lo aiutano, che se ne stanno lì come budella gonfiate, accanto al vitello); tenta di intorpidirsi, si getta sulla coperta del cavallo, prono, con le braccia davanti al petto (come chi origlia alla porta); d’improvviso l’uccello è sotto di lui in una confusa forma umana. Deve uscire: deve riflettere attentamente. Questa presa di coscienza, questa decisione ha del fanciullesco coraggio: ora diventa un favoloso antagonismo – egli e l’uccello come avversari fiabeschi – la favola svanisce, egli si può assopire.

La peggiore tentazione per il fanciullo: viene assalito dal dubbio che ci possa essere qualcosa di vero nella faccenda – mette in dubbio la potenza del paesaggio e dell’umanità che ne deriva – e poi, con un impeto, è pronto a prendersi sulle spalle tutto questo e tutto ciò che ne potrebbe derivare, malvagio, mescolato, minaccioso: prenderlo con sé e sopportarlo, ovvero vivere.

Era stato sull’orlo di una confusione tale che gli era parso che una mano materna e assassina lo stesse afferrando, eppure stava afferrando un essere accanto a lui – ed egli non era in grado di farlo ma… –

Lo stato d’animo di Hebbel nel peggior periodo della sua vita.

La condizione del fanciullo Euseb: non riuscire ad avvicinarsi alla bontà del mondo – non riuscire a raggiungerlo – voler oscillare – tastare – anche l’assassinio dello sparviero è un’impazienza tormentosa di raggiungere l’altro. Il mistero di come tutto risulti diverso dall’esterno: guardare da una finestra – vedere da lontano una finestra. Egli è: si getta sempre tra le cose.

Egli cerca il padre – anche nei colpi di martello sui chiodi che hanno crocifisso il corpo dello sparviero sul legno, cercava il padre – e ha trovato sé stesso.

Anche lui è stato crocifisso dal padre, lo spregiatore della sua vita.

La predica del catecheta: il padre ha mostrato il disprezzo per la creatura da lui lasciata.

Hugo von Hofmannsthal

*La traduzione del testo è a cura di Tommaso Filippucci

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