11 Novembre 2018

“C’è una felicità sempre possibile entro il battere d’ogni nostra ora”: compie 100 anni Luigi Santucci, lo scrittore della Brianza cattolica e velenosa, tra la Gioconda e le motociclette

Nel Commentario delle più notabili et monstruose cose d’Italia, testo del secolo XVI a firma di un umanista piacentino, Ortensio Lando, si legge della “Vrianza detta da questo verbo vrio, che vuol dir in lingua greca scatorisco: imperoché in ogni bene alla vita humana utile, vi sorge e scatorisce abondevolmente”, dunque di una terra d’abbondanza il cui nome verrebbe da “scaturire”, “venir fuori”, “emergere”…

Ebbene, la Vrianza altro non era che l’area lombarda detta Brianza, e questo frammento appare in esergo a un libro del milanese Luigi Santucci (1918-1999), romanziere, poeta e commediografo che alla regione, o sotto-regione, compresa tra Monza e Lecco, tra i piccoli laghi a sud di Como e l’inizio della pianura padana ha dedicato un gioiellino letterario, Brianza e altri amori, edito da Rusconi nel lontano 1981.

E se per più o meno tutti gli studiosi che vi ci sono cimentati dubbia è l’etimologia del nome, per alcuni e anzi per molti, tale è lo stesso territorio brianteo, dai confini inesistenti o quantomeno sfumati, e tale tra gli altri per Mario de Biasi e Piero Gadda Conti, i quali, nel 1966, in una guida, scrivevano che: “La Brianza è un’idea. Un’idea sfrangiata e opinabile che un tempo evocava filande, balli e ville patrizie”.

L’etimologia ha però quasi certamente origine nella lingua dei Galli-Celti, e le sue alternative sono le radici brig o bri e i suffissi aan o an, da cui una serie di combinazioni, brigann, “luogo abitato munito di fortificazioni”, briann, “luogo abitato sui monti”, e brian, “monticello”, o, secondo certi altri studiosi del caso, brigant, “che emerge, che sovrasta, che domina”, e persino il latino brisare, ovvero pigiare l’uva…

Santucci“Il Mito o il Segreto – o la Favola se preferite – di questo scaleno triangolo inscritto fra Lecco, Monza e Como, di questo ‘mirabile giardino naturale’”, come scrive Carlo Linati, è celato nella sua stessa idea, che è ancor più complicata del suo etimo e dei suoi confini, e che corrisponde a quello che Santucci chiama Regnum Brianteum, rispetto al quale modestamente ammette: “Non so tutto sulla Brianza. Magari! So quel tot che basta (e ignoro quel tot che basta) per amoreggiarla e pettegolarne al di là del suo obiettivo esistere geografico e storico”.

La Brianza è Mito e Segreto per lo scrittore di Milano, che ne è innamorato come di una femmina.

Brianza cliché, fin troppo conosciuta, ma assai sconosciuta, e anche Brianza fatta di tante Brianze.

Brianza terra di imprenditori, di fabbrichette, di mobilifici, di ferrovie, automobili e motociclette (il suo denso traffico quotidiano, e l’evento del Gran Premio di Formula 1; ad Arcore la Gilera e, poco lontano, in quel di Mondello, la Moto Guzzi) ma anche del parco cintato ancora più grande d’Europa (quello della Villa Reale di Monza, creato dai francesi, reso florido dagli austriaci, abbandonato dai piemontesi, e poi mero deposito per gli “alleati”) ma anche di un fiume a lungo il più inquinato d’Europa (il Lambro che a sud di Milano ispirò i più celebri versi del Petrarca, che valsero alla Vaucluse d’esser monumento nazionale e conservarsi cristallina), corso che in una terra d’acque ai tempi: “A l’era ol Papà, el lavurava per tücc…”, era come un padre, e lavorava per tutti.

Brianza della città dalla corona col chiodo della Croce e di un re ammazzato, Umberto I di Savoia.

Brianza di sublimi pittori, da Marco d’Oggiono, Leonardo da Vinci e Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì, allievo e modello del toscano che qui non solo dipinse ma progettò molte delle sue opere d’ingegneria, agli impressionisti lombardi a Salvatore Fiume, a Tino Stefanoni, lariano toscanofilo morto recentemente.

Brianza che come la Lombardia tutta vive di un forte contrasto con la Toscana, non solo nelle arti.

Come la sciacquatura, per alcuni infausta, da par te di Alessandro Manzoni de I promessi sposi, di cui Santucci scrive che “giustamente è stato detto che quell’intonazione lombarda che c’è nel romanzo, non sarebbe restrittivo scoprirla addirittura brianzola. La costante brianzola la c’è, eccome: e la si ritrova in quel dialogato chiaro, preciso, sostenuto dal sale di una piccola e sorniona ironia. Così c’insegna il Gianoli. E son d’accordo con lui che il lodato ‘realismo ma non troppo’ de I promessi sposi il Manzoni lo imparò in queste ville e borgate”…

Come il fatto che la Gioconda sia come la Vergine delle rocce un dipinto brianzolo, e non toscano.

Lo stesso Santucci parla infatti di un enigma della Brianza, il quale gli fa pensare a quella della Monna Lisa del “vinciano Leonardo, che di qui ci passò, sappiamo, ed ebbe a incantarsi […]. Forse è vero allora che proprio qui, ospite di Ludovico il Moro al castello di Trezzo d’Adda, lui avrebbe cominciato a dipingere il sibillino sorriso di Monna Lisa del Giocondo; e in tal caso hanno ragione coloro che, nello sfondo del quadro, riconoscono la veduta che si godeva da quel luogo. Scruto il capolavoro, ne spio con batticuore lo sfondo: quei monticini cretosi, la serpeggiante strada e il fiume a cascatelle (l’Adda?) attraversato dal ponte ad archi dietro le spalle della Bella; più oltre quelle frastagliature verdeggianti di selve. E guardo lei, la Gioconda: eccola, forse, la Brianza, incarnata, personificata”.

Brianza di cantanti e cantautori, autoctoni o qui residenti come Adriano Celentano, Antonella Ruggero e Lucio Battisti che a Molteno visse con Mogol e compose Una giornata uggiosa, canzone in cui è racchiusa l’indimenticabile strofa che recita: “Sogno il mio paese infine dignitoso / E un fiume con i pesci vivi a un’ora dalla casa / Di non sognare la Nuovissima Zelanda / Per fuggire via da te Brianza velenosa”.

“Un mio amico brianzofilo dice che la Brianza, con quella sua struggente elegia paesana, è tutta insieme un organetto di barberìa, di quelli che nelle aie e nelle osterie si sforzano di dare al sole il rimorso di tramontare. Io penso invece che la Brianza tutto il suo ‘melos’ lo rinchiude e lo riespande in quella musica senza contrappunto che sono le campane. Le quali hanno rintocchi, timbri e modulazioni così inconfondibili, impastati di malinconia e di speranza; così ”acquatili” – si direbbe, dai laghi e fiumi onde nascono – che le paragonerei alle sirene di Ulisse”. Brianza a parte poche eccezioni non molto musicale e però piena di campane, da quelle della “ghibellinissima torre”, il tozzo Campanone di Colle Brianza, con funzione laica e militare, e, ovvio, quelle delle chiese:

Brianza che divenne ricca già con quello che Santucci definisce “il mistico artigianato della trina”, ovvero i pizzi e i ricami, a partire dalla seta e dunque dai bachi da gelso che definirono tanto una straordinaria economia popolare quanto la dura vita delle filande, con relativi struggenti blues delle ragazze, dai bozzoli portati da Bisanzio e con un santo patrono tutto loro (san Rocco, protettore anche dalla peste – quella nera qui come a Milano non ci fu), che sono parte della vecchia, fondamentale triade santucciana di questa terra sempre operosa.

Uno: i bigatt, i bachi: “Il gran dono dei due monaci basiliani, quando cinquecent’anni dopo Cristo, dall’estremo Oriente recarono a Bisanzio, in un bastone di bambò, le ovicine di quelle sante bestiole”.

Due: i resegh, le seghe, da cui il nome del monte da cartolina, il Resegone, ma parte per un tutto che era fatto di pialle, di torni, di frese e di martelli, in quella che tra Cantù, Cabiate, Meda e Seveso era “la rande arzanà mobilieresca dei brianzoli” che produceva “mobili provincialotti o anzi dialettali, un po’ bastardi tra il quattordicesimo e il quindicesimo Luigi, il Settecento veneziano e il Seicento piemontese”.

Tre: i fusej, i fusi, lo strumento delle filerine che cantavano di queste strofe: “Mì sunt alegra, mì vô in filanda / e preghi intant ch’a vegna ol dì / che la Madonna lu: a cà la manda / che mì finissa da patì”.

Una triade cui andrebbe aggiunta la pan-padana “sdraiata e ignuda polenta – bionda puttana di quella collettiva goduria”, che fa pensare al miglior Gianni Brera, che Santucci cita a riguardo della “nazione brianzola nella nazione lombarda” della cui esistenza il pavese era più certo di quanto potesse dirsi “sicuro dell’esistenza d’una nazione italiana”, e che per Santucci era un Regnum, ma senza castelli e privo di bandiera, pur essendo stata un territorio libero, e insomma un regno “nel senso un po’ remoto e opalescente delle parabole […] e anche in quello feudalesco”, sotto l’egida Teodolinda, chiaro, “invernale a Pavia, ma estiva a Monza: la prima certo che fondò la moda di villeggiare”, ovviamente in Brianza.

Brianza di villeggiatura, infatti, e dunque di ville e villoni e villule gaddiane e poi villette a schiera.

SantucciMa anche Brianza tutta chiesine, basiliche, santuari e, per dirla con Santucci, “sacrariucci, abbaziette, cappelline, oratorini – alcuni poco più grossi d’una ghianda nel verde del fogliame”, tutti a raccontare una loro storia più o meno leggendaria legata a miracoli, apparizioni e grazie, i quali la rendono una terra davvero privilegiata per: “Andar per santuarî – come chi dicesse andar per funghi o per conchiglie…”.

Brianza terra anche del Cammino di Sant’Agostino, il quale qui si convertì dal manicheismo grazie ad Ambrogio e alla madre Monica, “santissima virago”, come la chiama Santucci, e scrisse anche, e di tanti altri santi e in particolare di san Miro, “il grande archimandrita brianzolo, gloria di Canzo dov’era nato e s’era fatto romito, rabdomante d’innumeri fonti d’acqua freschissima che faceva zampillare dalle rocce”.

Brianza terra di scrittori, anche loro locali (Alessandro Manzoni, Antonio Ghislanzoni, Carlo Linati, Eugenio Corti, ecc.), o qui sepolti (a Concorezzo riposa Elio Vittorini, che pure vi fu solo una volta, per amore), ma soprattutto villeggianti, Foscolo, Byron, Monti, Porta, Fogazzaro, Dossi, Brera Raboni, Testori, Castellaneta, Pontiggia, e ovviamente l’idilliaco Parini, che, come Santucci fa dire al suo amico e guida brianzola, ’ol Picch: “L’era un ruttamm. E de Brianza l’ha mai capii nagott”. Era un rottame, e della Brianza non ha mai capito nulla…

Forse meno di quanto ne capì Carlo Emilio Gadda col suo bilioso risentimento verso la famiglia e il padre in particolare (si legga il frammento edito da Adelphi, Villa in Brianza), Gadda che ne descrisse, come dice Santucci, “il progresso e i suoi orridi malgusti” che l’hanno stravolta, senza dimenticare che il Sud America de La cognizione del dolore è proprio la Brianza trasfigurata, che tuttavia, bianca com’era ed è, di fascismo, come poi di comunismo, non ne volle mai sapere granché (il Listone mussoliniano ebbe qui le percentuali più basse).

Brianza di scrittori villeggianti ma anche in viaggio, di passaggio, kerouachianamente on the road.

Come il teologo veronese-tedesco Romano Guardini, le cui Lettere dal lago di Como valgono più di Spengler e Heidegger, sulla decadenza europea, e che ha confessato d’aver capito Hölderlin in Brianza.

Come Stendhal, di cui Santucci si fa (giustamente) beffe: “Tutto perfetto, in Brianza, più quel tocco d’imperfezione (ma sfuggente, indefinibile) che rende questi luoghi, agli occhi e al cuore del grande francese, anche più degni di venir promossi (da lui che di mondo ne aveva girato), a ‘primo posto nel mondo’. Dormi Beyle, nel tuo sonno di gloria e d’illusione. Non riaprire gli occhi, dall’Olimpo dei poeti, sulla ”tua” Brianza […]. Ahimè, qualcosa ‘à blâmer’ ho l’impressione che sia apparsa – più ancor per te che per noi – da quando sei morto”.

Come Guido Piovene nel Viaggio in Italia in cui tratteggia svelto una terra di mezzo tra due antipodi, città e campagna, che a Lecco è condensata tra acqua dolce e aspra roccia, tra lungolago e industrie.

Brianza prossima a Milano. Brianza lontana da Milano.

E a Milano Santucci è nato e morto, vi si è laureato in lettere, presso l’Università Cattolica, e nel suo centro viveva, in una dimora che già allora cominciava ad apparire fuori dal tempo, odorosa com’era di legno e di tabacco della pipa che fumava tanto costantemente quanto continue erano le sue visite in terra brianzola.

Tra le altre cose, negli ultimi anni della sua vita aveva in mente un ambizioso progetto dedicato agli artigiani, agli artisti e ai letterati della zona, che non riuscì mai a portare a termine, se non, assai ridimensionato, nella prefazione a un volume edito appena un anno prima della morte, Brianza, un mondo che cambia

Perché il mondo che Santucci racconta stava davvero cambiando, e molto profondamente, eppure ne restituisce ancora la “semplicità delle piccole cose, quiete e costanti epifanie divine della gioia”, come ha scritto il suo amico cardinal Gianfranco Ravasi, meratese, e vale a dire le rivelazioni nelle cose legate alla tradizione paesana e cattolica, su cui Santucci fonda quella che chiama una vera e propria “teologia degli oggetti”, sulla quale a sua volta si basa la sua persona le adesione a tutti gli altri dogmi della Chiesa e la sua stessa fede in Dio, e nel Paradiso, luogo del quale si è per giunta avventurato a scrivere, in Éschaton. Traguardo di un’anima, piccolo volume edito postumo, nel 1999, una sorta di testamento, oltre che riscrittura della Divina Commedia di Dante…

Una riscrittura con tanto di Virgilio, nella figura di Funditus, demone della propria personale autocoscienza, che accompagna l’autore nella sofferenza del Nulla prima, l’Inferno, e poi nella vergogna, nel rimorso per gli errori commessi, il Purgatorio, nel quale, più di tutto, è pentito di ogni volta in cui fece degli altri i personaggi di una commedia egocentrica, e infine in Paradiso dove l’accompagna una creatura…

Verde speranza. Verde Brianza? “I’ non so ben ridir com’io v’entrai”, così recita l’Inferno di Dante (canto I, verso 8)… E lo scrittore milanese non sembra essere in grado di far meglio del maestro toscano. Sonno? Sogno?

“Conseguenze certo del troppo bagordo con gli amici. Dalle man poggiate fuor dei lenzuoli mi salivano i profumi di carni femminili brancicate”, dalle quali l’autore passa allo sprofondamento “in un orrido concerto” di macchine, satelliti, computer, scissioni atomiche, e ingranaggi stridenti, per cui annuncia: “Ancora qualche anno, e quegli ingranaggi polverizzeranno la statua a cui vi inginocchiate da millenni”.

Questa è l’infera minaccia che Santucci intravede, ed egli spera di tutto cuore che la Verità non sia il Nulla che avanza, bensì il Padre misericordioso, il vero Dio che è Gesù Cristo, e l’orrore che prova è necessario poiché lo rende “immune dalla più mortale delle eresie: che dopo la vita l’uomo sia destinato al Nulla.”

Segue lo “scandaloso spurgo” che è l’espiazione, e “il vento d’un immenso perdono”, passando per due fiumi, il Letè, in cui si cancella il male fatto e patito, e l’Eunoè, che restituisce ogni cosa vissuta “nel Bene, nel Bello, nel Felice”, in cui si possono vedere il Lambro purgato e l’Adda gioiosa, fino a giungere presso la Vergine giovanissima come a quel punto è anche lui, che rivede, a loro volta bimbi, i parenti.

E la Signora, Maria, gli bisbiglia allora una nènia che dice di Monticello, paesello in cui l’anima trova giocattoli e pupazzetti, ma anche la felicità, che: “È capillare […]. Anche tu, come me, hai sbagliato pretendendola dalle cose grandi. […] Quella è eresia. […] C’è una felicità sempre possibile […] entro il battere d’ogni nostra ora. Anche se dura per un tempuscolo […]. Dipende solo da te, dal tuo imparare a vivere in quella capillarità”. La felicità è un corpuscolo, è un tempuscolo del cuore, come la linfa delle piante e come il grano di senape…

E nella felicità la “teologia degli oggetti” di Santucci è parte di una mistica molto concreta che si è costruito tanto con la realtà quanto con libri, da Manzoni a C. K. Chesterton, da Léon Bloy e Paul Claudel a François Mauriac, tutti cattolici come lui che ha attraversato tutte le correnti del Dopoguerra resistenzialista, strutturalista e sperimentalista e così via di -ista in -ista, senza esserne influenzato, né nel saggio che dedicò a Collodi, né nella saga famigliare de Il velocifero, né in un libro orfico d’ambientazione milanese come l’Orfeo in paradiso.

SantucciIl Cattolicesimo di Santucci mostra tutta la sua vitale freschezza tanto nel suo libro sulla Brianza quanto nei Misteri gaudiosi, ispirati dal Rosario, quanto nella raccolta Leggende cristiane e in Una vita in Cristo, sulla vita quotidiana di Gesù, e in una decisamente divertita scorribanda nel calendario, In taverna coi Santi.

Il sottotitolo è Il giro dell’anno attraverso i dodici mesi e la premessa annuncia appunto una “scorribanda entro il calendario e i suoi luoghi”, ma senza mancare di rispetto ai santi, i quali “si mescolano con cose, avvenimenti, consuetudini che siamo soliti considerare come ‘profani’. Ad esempio con le specialità mangerecce locali; con le feste, le baldorie, le cuccagne, le burle di questa o quella contrada”, dunque con detti, proverbi, racconti, rituali, oggetti, cibi e vini, tutti inquadrati in un almanacco di un tempo che era, allora, e in parte ancora è.

Analoghe a quelle nel calendario dei santi e nelle taverne che essi conservavano, erano le scorribande di Santucci in Brianza, terra che sentiva come lo specchio terrestre della sua anima, e per la quale vale ciò che diceva della propria esistenza: “Della mia vita per me ha senso il mito […]: là c’è la mia vera biografia”…

Lo scrittore milanese, come afferma in modo esplicito nel proemio del suo libro, allignandosi ai “brianzologi” del passato vuole insomma “essere (e non solo percorrere o mirare e descrivere) la Brianza”.

Santucci viaggia così tra abitudini, proverbi, scrittori, oggetti, mitologie, religione, agiografie, e anche leggende, come quella di Gesù in Brianza, narrata da ol Picch, che esprime un programma di vita: “Gesù – seppi – era nato, morto e risorto in Brianza. ‘Scià a Imberzagh, a l’è nassüü’ in una grotta dove poi han fabbricato il santuario della Madonna del Bosco. ‘Ol so pà a l’era legnamé’ nel canturino; ma il più della vita e dei miracoli il Salvatore li aveva fatti a Pusiano […]. E il Discorso della Montagna l’aveva pronunciato dai Corni di Canzo. E sulla Grigna era andato a trasfigurarsi. […] E il calvario, dove mi avevano imbubbolato che fosse? Ma lì, a Montaveggia, quella dura salita. E ad Appiano Gentile ‘a l’è turnà viv’, e a Montorfano, dal cocuzzolo, era salito al cielo”.

Certo, il suo amico ol Picch era un pochino sbronzo, e infatti la sua limpida schiettezza deborda, tra invocazioni e imprecazioni: “O Teodolinda, duve ta set? O Gesù Crist, turna in la tua Brianza, ’cudìo…”

Certo, bella la Brianza lo è sempre meno, come meno sfuggente è l’uomo che essa definisce, ormai anonimo, standardizzato.

Un uomo che di sicuro non è più definito dagli oggetti di un tempo, “bigatt, resegh e fuseij”, i bachi da seta, le seghe e i fusi.

Guardini ci aveva visto giusto, scorgendo i segni della decadenza della sua nobiltà.

Eppure la Brianza resta sempre operosissima, come l’ape “che si dà da fare, lavora e lavora sempre. E come l’ape fa solo un lieve, soddisfatto, ironico brusio”, per dirla con una bella metafora di Santucci…

Se “l’Innominato si è ben convertito ed è stato poi la salvezza e la benedizione di Lucia”, l’augurio di Santucci è limpido come un tempo il Lambro e come un passo del Manzoni e come ancora un cielo di maggio, ed è che allo stesso modo gli imprenditori, i costruttori, gli automobilisti (ossia i guidatori delle “Giacobine meccaniche”, come le definiva Russell Kirk) si convertano, e magari per primi gli scrittori, per i quali Santucci è uno dei possibili modelli, e neppure l’unico in una Brianza un po’ Vandea, in cui la tradizione non è del tutto perduta.

Ci vuole una letteratura à rebours… Controcorrente. Ergo cristiana. Ergo cattolica.

Marco Settimini

Gruppo MAGOG