Il cambiamento climatico & la filosofia occidentale. Quando il freddo accoppò Bacone e Cartesio
Filosofia
Vincenzo Liguori
“Povera e nuda vai, Filosofia”, cantava il Petrarca nel sonetto settimo del Canzoniere, con un verso divenuto proverbiale e perfino troppo citato e abusato. Tuttavia, davvero dovremmo riecheggiare la lamentazione del poeta di fronte allo stato miserando in cui versa la filosofia italiana corrente.
È materia di lungo dibattito se sia esistita o meno una vera e propria tradizione filosofica italiana, querelle su cui sono stati versati fiumi di inchiostro e che non intendiamo qui riaprire. A titolo di notazione del tutto rapsodica viene da dire soltanto che una tradizione filosofica nostrana a tutti gli effetti non è forse mai esistita e che, semmai, si sono configurati di tanto in tanto, nel firmamento del pensiero italico, alcuni astri più radiosi degli altri che hanno segnato il corso della speculazione filosofica: Bruno e Campanella nel Rinascimento, Vico a cavallo tra Seicento e Settecento, Croce e Gentile nella prima metà del ’900 (e ometto tanti nomi pur notevolissimi, limitandomi solo a quelli che mi paiono avere respiro europeo).
Il comune denominatore dei nostri massimi filosofi è di essere stati grandi figure isolate, personaggi in un modo o nell’altro irregolari, e, di quelli citati, solo Gentile, per il coincidere a un certo punto della sua parabola con quella del fascismo, finì per rivestire il ruolo di filosofo organico. Detto questo, esiste un trait d’union continuativo del pensiero italiano nei secoli o esso vive piuttosto all’insegna delle fratture e della discontinuità? A me parrebbe più vera la seconda ipotesi e, se davvero mai è esistita un’effettiva tradizione speculativa italiana, nella situazione comatosa del presente tutto si è ulteriormente sfilacciato e smarrito, senza più la possibilità di una corrente unitaria, del confluire dei vari stimoli del pensiero in una direzione definita.
Il brodo del postmodernismo ha sommerso tutto e ha compiuto un umiliante livellamento di ogni cosa, conducendo all’impossibilità di una gerarchizzazione qualitativa dei piani del sapere. Forse, se vogliamo considerarla filosofia e non, quale invece è, esempio di divulgazione facilona, l’indirizzo unico e predominante oggi è quello della ormai inflazionatissima “pop filosofia”.
Anche la “pop filosofia” svolge un ufficio e ha potenzialmente un senso. Come reazione a un pensiero imbalsamato e affidato solo a conventicole di baroni universitari e di “professionisti” del pensiero la “pop filosofia” gode del vantaggio di una collocazione potenzialmente antiaccademica, anche se spesso è svolta proprio da accademici sotto mentite spoglie. Mascheramento, quando ha luogo, ancora più pericoloso e difficile da contrastare di un accademismo conclamato.
Se essa serve a divulgare e rendere familiari concetti e tematizzazioni astruse, quasi sempre elaborate nelle terminologie più ispide e urticanti, ben venga la “pop filosofia”.
Il guaio è che un esercizio potenzialmente legittimo e sanamente ludico si è tramutato nel suo opposto, in divulgazione facilona, nell’illusione corrivamente contrabbandata di un accesso facile e immediato ai grandi filosofi, in cortocircuiti furbeschi e disinvolti tra cultura “popolare” e speculazione. La ricetta è facile, si mettono nel titolo termini altisonanti ormai divenuti passe-partout come “ontologia” o “fenomenologia” e, eradicandoli dal loro humus linguistico e concettuale, li si adattano nel letto di Procuste di un tema o di un fenomeno “pop”: nascono così l’“Ontologia del telefono cellulare”, “Matrix e la filosofia”, “Sex and the City e la filosofia”, “Lost e la filosofia”, ecc., per citare solo alcuni titoli di un filone da allora divenuto fecondissimo.
Curioso come il primo a vagheggiare l’idea della “pop filosofia” sia stato proprio uno dei più ermetici ed incomprensibili pensatori del ’900, quel Gilles Deleuze le cui pagine sono quanto di più remoto possa esserci rispetto ad una cultura “popolare”. Magari il vagheggiamento di Deleuze e del suo sodale dell’“Anti-Edipo”, Guattari, era sincero nelle intenzioni ma non si tradusse mai nel benché minimo tentativo di costruire qualcosa di concreto in tale direzione. E in pochi filosofi come Deleuze, per paradosso, si assiste a una scollatura così macroscopica tra il lessico filosofico (da lui usato in maniera paludata ma quantomai fluida e sottratta a definizioni univoche) e una possibile utenza popolare.
Altroché il propagarsi del pensiero alla stregua della musica pop!
Paradosso nel paradosso, la pop filosofia si è invece costituita come un’accademia rovesciata, mutata nel suo preteso oggetto, immutata nel suo frasario sclerotizzato.
Il grande pensiero filosofico in realtà non conosce scorciatoie e facili vie di fuga; esso è un sentiero erto, scosceso, che richiede ascensioni faticose e non sempre gratificanti. Mi viene da dire che un altro antenato della “pop filosofia” sia stato, in Italia, Umberto Eco. Eco iniziò tale operazione col suo giovanile libretto di barzellette e caricature sui filosofi, Filosofi in libertà, libretto firmato con lo pseudonimo joyciano “Dedalus” e oggi divenuto quasi di culto, ma che si riduce tuttavia a una serie di freddure di superficialità disarmante.
Gentile nel confessionale perché ha commesso un “atto puro” o “Don Benedetto che vien dalla Campania” sono i massimi abissi filosofici toccabili nel gratuito libretto.
A parte questa accolta di facili barzellette, Eco tentò sempre, furbescamente e strizzando l’occhio a un pubblico “pop”, di compiere dei cortocircuiti fra i diversi piani dello scibile come della fruizione.
La furbesca operazione di Eco consistette nel non fare mai della filosofia “positiva” e costruttiva, ma di prendere la filosofia alla larga, tangenzialmente, giocando con essa e creando con abile prestidigitazione l’illusione di potervi accedere comodamente. La verità è che Eco filosofo non fu mai: fu semmai un tuttologo inclassificabile e incollocabile, un semiologo che si dilettò, fra mille oggetti di affezione catalogati come “segno”, anche con la disciplina filosofica. Tutto si omologava e si stemperava in un unico orizzonte e le porte del postmoderno erano già spalancate. Anche la sua più che cinquantennale ricognizione estetica, iniziata con la disamina delle idee sull’arte di San Tommaso e proseguita fino ai suoi ultimi anni, giunge alla disarmante constatazione sul non potere definire che cosa sia l’arte e si riduce a un’ammissione di afasia. Tanta estetica, nessuna estetica.
L’arte è semplicemente ciò che è ritenuto bello dalle varie epoche e dalle varie culture ed è negato al Bello proprio il carattere dell’assoluto e dell’immutabile in nome del sospetto verso qualsiasi teorizzazione che possa essere potenzialmente “romantica” e quindi nemica della “semiosi”.
A me pare proprio che i fautori della facilona “pop filosofia” siano tanti nipotini di Eco, di lui molto meno intelligenti e molto meno eruditi, ma a lui accomunati dalla tendenziosità dell’operazione che, volendo essere popolare, determina invece l’esito opposto.
È tutto, dunque, così buio e privo di riferimenti nel panorama filosofico dell’Italia di oggi?
Non diremmo. Anzi, come al solito il meglio sta nascosto e si sottrae al proscenio dei media e dei social.
Dopo la scomparsa di Emanuele Severino (si potrà discutere del suo pensiero, ma la radicalità dei suoi esiti e la genuinità della sua tensione speculativa sono innegabili) la maggiore figura filosofica dell’Italia di oggi è a giudizio di chi scrive incontrovertibilmente quella di Gennaro Sasso, pensatore e “ontologo” di profondità e difficoltà non inferiori a quelle di Severino.
Sasso non ha mai imboccato le scorciatoie della divulgazione facilona, non ha mai fatto politica e non è mai apparso in contesti televisivi, tutti fattori oggi determinanti anche nella costruzione delle icone culturali. Da qui la sua relativamente scarsa notorietà per il grande pubblico.
Sasso è partito da studi sull’idealismo italiano e da un serrato confronto con i suoi massimi esponenti che lo ha portato fra l’altro a sottrarre il pensiero di Croce (da lui conosciuto fuggevolmente nei suoi verdissimi anni) dalla matrice storicista in cui la manualistica lo ha ingabbiato, consegnandolo invece ad altre dimensioni di ben più largo respiro. E l’iniziale matrice idealista e storicista della sua formazione si è andata spostando in altre direzioni, finendo col farne, con il già nominato Severino, il massimo esponente di quello che è stato definito il “neo-parmenidismo” italiano.
L’oggetto della filosofia si indirizzava nuovamente all’Essere, faceva ritorno ai suoi temi originario.
L’“oblio dell’Essere” di cui discorreva Heidegger aveva riguardato anche la filosofia italiana ma ecco che, dopo tanti disparati indirizzi di pensiero spesso cozzanti tra di loro, a riaffacciarsi nel pensiero di Severino come di Sasso era proprio l’orizzonte principe della speculazione, la tematica prima e ineludibile di essa.
Non entreremo qui in un tema ispidissimo e che davvero fa tremare le vene e i polsi. Basti dire che in parallelo alla sua attività di filosofo originale, Sasso si è occupato in pagine magistrali e di assoluto riferimento di Lucrezio come di Dante, di Machiavelli e Guicciardini, sempre con una densità di pensiero e con una profondità che non hanno eguali nella prosa filosofica dell’Italia contemporanea.
Chi scrive ha avuto la ventura di fargli recentemente visita nella sua casa romana, nel silenzio dell’Aventino, non lontano dalla basilica paleocristiana di Santa Sabina e dal Giardino degli Aranci da cui si gode una delle più belle viste della Città Eterna. A colpire nel filosofo è la precisione e il rigore dell’eloquio, asciutto ma estremamente preciso, ancora implacabilmente analitico. Nella conversazione, pacata e aliena da ogni sussiego, si insinuano fra le pieghe i ricordi delle molte figure della cultura del ’900 da lui conosciute, con una commozione arginata e sapientemente filtrata proprio dall’ esercizio catartico del pensiero, dal velo che esso sa porre fra la parola e l’oggetto della sua evocazione.
In un’epoca di ineluttabile imbarbarimento della cultura e dei costumi, non è piccolo motivo di conforto pensare che un uomo e un pensatore della levatura del professor Sasso sia ancora prodigiosamente attivo, come se fosse ancora in qualche misura un custode vivente di tanti secoli di cultura e civiltà italiana.
Alessio Magaddino
*In copertina: Giorgio de Chirico, Canto d’amore, 1914, New York, Museum of Modern Art