19 Febbraio 2018

Eco due anni dopo, ovvero: l’eco inconsistente del nulla. Quando ‘Umbertone’ si scagliava contro il sistema scolastico e paragonava Fellini a Proust

Come una specie di venerabile taumaturgo della cultura. Tra San Tommaso l’Aquinate e Topolino, quello di Disney. Le memorie intorno a Umberto Eco sono tante, una specie di ecolalia intellettuale. Io ne porto in dote due. La prima è di Mario Guaraldi, l’editore. Siamo nel 1983, Guaraldi ha creato l’evento per la presentazione ‘mondiale’ di E la nave va… di Federico Fellini. “Rivivo la serata al Grand Hotel, nel settembre 1983, quando seduto al tavolo assieme a Umberto Eco, dopo qualche secondo di finto black-out, apparve il Rex in tutta la sua gigantesca magnificenza, sulle note di Nino Rota. Avevamo lavorato ininterrottamente tre giorni per l’‘effetto speciale’ Rex , oscurando le finestre del Grand Hotel e montando il gran pavese fra due pennoni, sulla terrazza dell’albergo…”. Intorno a quella giornata uscì un libro davvero mitico, edito da La Casa Usher, Fellini della memoria, dove Umberto Eco si lancia in un pezzo di astrologica mirabilia – l’arte mirabile dello svaccar qua e là – dal titolo Theut, Fellini e il Faraone, dove mette insieme, poligamia bibliografica, il mito di Theut narrato da Platone, Marcel Proust e Federico Fellini. Guaraldi, in effetti, è uno degli editori più misconosciuti di Eco: nel 1972, con l’intro di Umbertone, pubblicò come I pampini bugiardi una interessantissima – non è un presa per il culo – “indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari”, che meriterebbe degno recupero. Eco, che all’epoca non era ancora ‘ah, certo, Eco’, cioè lo scrittore del Nome della rosa, opera una critica salutare – e attuale – del sistema scolastico vigente, analizzando i libri propinati ai nostri baby. Esito: “Si deve ritenere che, per accontentare la maggioranza media, per non suscitare dissensi, per non urtare suscettibilità, per piacere a tutti, si cerchi di mantenere il testo al livello dell’ovvietà, del qualunquismo, della acriticità, della idiozia rispettabile”. E parla, Eco, espressamente, di “squallida, nequizia giorno per giorno perpetrata alle spalle dei nostri bambini”. Il secondo aneddoto lo ricorda, tra i tanti, l’esimio semiologo Paolo Fabbri, collega di Eco e ‘comparsa’ nel Nome della rosa (“sotto lo mentite spoglie di Paolo da Rimini, doctor agraphicus”). Nel 1983, a Rimini, con Fellini, Umberto Eco è già ‘ah, già, Eco, lo scrittore del Nome della rosa”. Dopo i convenevoli intellettualistici, Eco s’involava sui colli riminesi, al ‘Paradiso’, storico locale notturno gestito da Gianni Fabbri, fratello dell’esimio semiologo Fabbri. Dai balconi del ‘Paradiso’, ammirando la Rimini tumefatta di luci, di notte, Eco sussurra, ‘pare Los Angeles…’. Infine, sappiamo che alla fine Eco ha piazzato dimora a Monte Cerignone, borgo medioevale nella provincia di Pesaro-Urbino, dove coltivò parte della sua biblioteca – all’incirca 20mila volumi; l’altra stava a Milano – inseguendo, forse, nella noia marchigiana, l’ombra di Guglielmo da Baskerville. Il succo della storia ve la dico così. Oggi, 19 febbraio, sono dieci anni dacché Fidel Castro annuncia il ritiro dalla vita politica attiva e due anni da quando è morto Eco. Di Castro restano le T-shirt del ‘Che’. E di Eco? L’eco inconsistente del nulla. Esempio. Classe quarta di un liceo classico riminese. Ragazzi maggiorenni o quasi. La prof vuole leggere Il nome della rosa. Domanda fatale. ‘Sapete chi è Eco, vero?’. L’eco del nulla e delle nullità. Uno alza timidamente la manina. Prego. ‘Uno che è vissuto negli anni Trenta, un regista…’. Più o meno. Un altro ha sentito nominare Il nome della rosa. ‘Non è un film in bianco e nero?’. Ovvio. La giovinezza furibonda fa sembrare un fatto dell’altro ieri geologicamente millenario. Ma ci sono due fatti pazzeschi. Liceo classico. Ragazzi maggiorenni. Mentre l’intelligenza nostrana riempie le pagine dei quotidiani ragionando masturbatoriamente sull’eredità di Eco, i ragazzi di un liceo classico di Rimini – mica Corleone – non sanno chi sia Eco. Presumo che anche degli altri Umberto nazionali (da Saba a Tozzi passando per Bossi) sappiano nulla. Ora. Umberto Eco è stato il guru della cultura nazionale degli ultimi quarant’anni almeno. Uno degli autori italiani più letti nel resto del mondo. Un liceale di diciotto anni non sa chi è. Morto da due anni, pare scomparso da due secoli. Annientato. Tesi: i liceali – figuriamoci gli altri – non leggono. Non leggono gli autori viventi. Tra dieci anni i liceali di oggi, magari, sapranno tutto di Eschilo o di un ignoto chiosatore del Quattrocento – così vanno i ghiribizzi dell’accademia – ignorando del tutto le sorti della letteratura italiana di ieri e di oggi, quella vivente, che balza sulla scrivania come un pesce appena pescato. Eco è l’eco dell’inconsistenza culturale di oggi. Colpa di chi? Editori che pubblicano stronzate, scrittori incapaci a scrivere il capolavoro, insegnati mediocri, scuole preistoriche, politica miope, italiani che se vedono un libro girano gli occhi altrove, manco fosse un assassinio? Colpa di tutti. Bisognerebbe creare una università dedicata alle leccornie letterarie italiane, alla poesia e al buon senso bibliografico. Onore e gloria a Eco. I posteri hanno già espresso l’ardua sentenza. (d.b.)

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Per gentile concessione pubblichiamo il testo di Umberto Eco, “Theut, Fellini e il Faraone”, pubblicato in origine in “Fellini della memoria”, a cura di Ester de Miro e Mario Guaraldi, La Casa Usher, 1983.

ecoImmaginiamo che le celebrazioni siano a Parigi, e si festeggi Proust (quando si prendono degli esempi, debbono essere o di infimo o di altissimo livello, altrimenti non vale la pena). Mi chiedo se farei il seguente ragionamento, per celebrare un autore che della memoria sapeva e diceva molte cose. Mi chiedo dunque se non tornerei, a costo di non apparir originale, a quel dibattito antico di cui dà notizia (leggendaria) Platone nel Fedro, quando il Faraone discute col dio Theut (che poi era Mercurio), il quale aveva inventato la scrittura, e gliela proponeva come un utile artificio per conservare la memoria delle cose. E il Faraone a dirgli che aveva inventato qualcosa di terribile, perché da quel momento in avanti, dispensati dal bisogno di ricordare (affidato agli scritti), gli uomini avrebbero perduto l’arte preziosa del ricordo, e l’esercizio, e il culto, del loro universo di privati regesti ed affetti…

L’obiezione al Faraone, parlando di Proust, è facile: ecco un bell’esempio, o figlio di Iside ed Osiride, di come l’arte della scrittura non solo non deprima, ma anzi potenzi ed esalti il nostro gusto del ricordo. Ma, parlando di Proust, rivolgeremmo ancora questa obiezione al Faraone? Credo di no, perché si tratta di questione superata, e già vi si poteva rispondere allegando Saffo o Catullo. Mi chiedo se argomenti analoghi non dovrebbero essere ripresi oggi, che so, per altre invenzioni di altri Ermeti, come per esempio il computer: per dire che, lui calcolando, non ci esimerà affatto dall’apprendere l’arte del calcolare, ma anzi ci renderà più attenti e sensibili ai calcoli più sublimi, e se dimenticheremo le tabelline diverremo però esperti in integrali. Cosa c’entra tutto questo con una celebrazione di Federico Fellini presentato (a giusto titolo) come Fellini della memoria (dove il titolo è giusto ma ambiguo, perché non si sa se celebri il Fellini che ricorda o il Fellini che viene ricordato) ? È che Fellini è uomo di cinema: e riguardo al cinema, ancora giovane quasi quanto la scrittura ai tempi del Faraone, ancora si dice, talora, che – pur essendo indubitabilmente Arte – è tra le arti la più legata ai vincoli della realtà esterna perché, bene lo si sa, per quanto l’autore inventi, deve pur sempre riprendere dalla realtà quello che la realtà offre, persone, paesaggi, colori e suoni. E se la realtà non è lì, il cinema, prima di raccontarla, deve pur sempre ricrearla ovvero ‘metterla in scena’. E se anche i paesaggi sono di cartapesta e i personaggi di alluminio (come accade ai robot di Guerre stellari), si tratta sempre di produrre qualcosa di pre-filmico, appartenente all’ordine del materiale, del fisico, del tridimensionale, prima di registrarlo (e sia pure, di deformarlo) nella ripresa e nel montaggio.

Non sto suggerendo che questi siano dubbi da laico ingenuo, perché del cinema come ‘semiologia della realtà’ hanno parlato, e con gran convinzione, anche chierici tra i più illustri, e si pensi alla fede con cui Pasolini ha sostenuto sino alla fine queste tesi… Ecco, direi che Fellini è qui, con tutti i suoi film, dal primo all’ultimo, coi suoi migliori e con quelli che meno ci son piaciuti, quando si inventa e quando si ripete, a dirci che il film (ambiguamente ancorato alla realtà esterna) è un’arte della memoria, con la quale si può raccontare solo e sempre i propri ricordi, le proprie fantasie, le proprie ossessioni. Possiamo dire questo di molti altri registi, certo, ma Fellini è qui per dirci quasi esclusivamente questo. E come se egli fosse vissuto per redimere il cinema da ciò che gli è esterno, dal pre-filmico, o a dimostrarci che il pre-filmico, con tutto ciò che prende a prestito dalla realtà fisica, vive e viene inventato per praticare un’arte che è ricostruzione di mondi interiori, per privati che siano. Per cui è naturale, amarcord non può essere il titolo di uno dei suoi film, bensì il titolo del suo Opus Magnum. Trismegisto, dunque: tre volte grandissimo come Ermete-Theut, con la sua nave Fellini va sempre al di là di quello che il mondo esterno vorrebbe imporre al suo mondo interiore, e alla voracità della sua nostalgia.

Umberto Eco

 

 

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