16 Novembre 2023

Gadda contro tutti. Virtuosismo linguistico vs. “lingua dell’uso piccolo-borghese”

In un secolo folto di grandi scrittori come il Novecento italiano l’opera di Carlo Emilio Gadda giganteggia forse tra tutte le altre e si pone fra le poche esperienze letterarie nostrane di portata veramente europea e mondiale. Difficile aggiungere qualcosa di non detto su un autore che è stato in ogni direzione scandagliato e sezionato sino all’ossessività, al punto da creare una vera e propria compagine di ‘gaddologi’ del tutto dimentichi dell’introiezione e dell’interpretazione dei testi in nome di raccolte di varianti fini a loro stesse e non diacronicamente ragionate.

Purtroppo si è assistito in questi casi alla prepotenza della temuta ‘critica degli scartafacci’ sull’ermeneutica, del filologismo sulla filologia. Comunque, raccoglitori entomologici di varianti a parte, esegeti come Contini e Isella, Roscioni e Arbasino, per citare solo i maggiori, hanno in lungo e in largo investigato la straordinaria macchina espressiva della prosa gaddiana mettendone a nudo le ascendenze, le implicazioni, gli ordigni terminologici, l’eccezionale portata artistica che fanno svettare l’“ingegnere in blu” (titolo di un bel libro-testimonianza del suddetto Arbasino) sopra qualsiasi altro scrittore del nostro Novecento. 

Le pagine sul dolore della madre nella Cognizione e l’architettura del Pasticciaccio, libro geniale e faticosissimo, metafora attraverso la struttura di un giallo irrisolto (e forse irrisolvibile) dell’opacità stessa del mondo, sono fra gli esiti più alti di tutta la prosa d’invenzione del secolo scorso. 

Dicevamo, faticosissimo. Sì, Gadda è scrittore quasi sempre faticosissimo e antipodale rispetto alla ‘leggerezza’ calviniana, eppure, anche nell’arduità della sua scrittura, a essa fa da basso continuo un ininterrotto incanto poetico che non hanno altri grandi giocolieri della parola come Giorgio Manganelli o Antonio Pizzuto. Manganelli fu soprattutto un grande alchimista verbale, un eccellente saggista che trasfuse proprio in tale modalità il precipitato della sua padronanza somma della nostra lingua ma, nelle prose di invenzione, il logos e l’analiticità mi sembra prevalgano in larga misura sulla poesia. Tale impressione si acuisce al cubo provando a cimentarsi con i tortuosissimi libri del Pizzuto più estremo, scrittore battezzato da Contini come “il Joyce italiano” e in cui lo scardinamento del linguaggio e della sintassi è genetico più che programmatico ma che vive più per l’intelligenza dell’assunto che per l’effettiva liricità del risultato. 

Gadda stesso dice che il sentimento non è coartabile e non è fingibile e proprio la genuinità del referto emotivo e la strabiliante capacità di incanalarlo nel linguaggio senza che questo suoni mai pianificato e artificioso pone “il Gran Lombardo” spanne al di sopra degli altri scrittori intenzionalmente sperimentali. 

Si prenda il romanesco di Gadda del Pasticciaccio: greve, affannoso, defatigante, ma sempre intriso di una intima sostanza poetica che manca quasi sempre al romanesco di Pasolini, esperimento linguistico condotto troppo in laboratorio, ‘in vitro’, come fosse la registrazione sonora compiuta da un eventuale antropologo fra i “ragazzi di vita” delle borgate romane. 

La casa editrice Adelphi ripubblica ora, per le attentissime cure di Mariarosa Bricchi, le prose critiche de I Viaggi, la Morte, una sorta di sguardo dentro l’officina di Gadda compiuto dall’autore stesso, una travagliata endoscopia dei meccanismi che presiedevano alla sua creazione di testi e alla creazione tout court. Gadda si pone in essi coscientemente come un nevrotico, un “dissociato noetico” (di “disarmonia prestabilita” parlò esemplarmente Roscioni). Nella sua opera si riversano i grandi corsi fluviali del Gargantua e Pantagruel e delle maccaronee folenghiane e l’enciclopedismo linguistico e conoscitivo pare incrinarsi, rispetto a tali sommi modelli, per assumere connotazioni nuove e modernissime. In altri termini, l’io indiviso, la totalità dell’autocoscienza che scompone e metabolizza linguisticamente il mondo in Rabelais e Folengo finisce in Gadda per scindersi, per dare vita a un’anima frammentata e nevrotizzata, che quella totalità non può più ricomporre perché scardinata dalla modernità.

In queste pagine Gadda ci conduce per mano fornendoci uno sguardo interno su come egli lavorava, sui rapporti complessi fra psicanalisi e letteratura, fra tecnica e poesia, facendosi beffa di tutta una tradizione accettata per apodissi, come negli sberleffi contro i “bidelli del Walhalla” (termine con cui Wieland Wagner, nipote di Richard, dileggiava i wagneriani troppo ortodossi, ma che ben si presta a definire i troppo occhiuti custodi di qualsiasi culto). 

Gadda se la prende con la superstizione per cui la lingua nascerebbe solo dal popolo:

“Una nazione non può ridursi al brio ancheggiante delle sue fanti chiantine, o all’estasi delle madonnine di Valdarno”.

La lingua, al contrario, “specchio del totale essere, e del totale pensiero, viene da una cospirazione di forze, intellettive o spontanee, razionali o istintive, che promanano da tutta la universa vita della società”.

In tal senso il primo bersaglio polemico è la potatura unificante e codificante della lingua di Manzoni: “Non esistono il troppo né il vano, per una lingua”. A farne le spese non è tanto Manzoni, autore amatissimo dal nostro, che ancora nei suoi ultimi giorni si faceva leggere al capezzale I promessi sposi; a uscirne con le ossa rotte è il manzonismo, la pretesa asfittica di rendere la lingua un che di esangue, di liofilizzato, con la castrazione preventiva di qualsiasi apertura ad orizzonti più ampi. Il tripudio lessicale di Gadda fa piazza pulita di quella lingua ‘media’ che, sdoganata nell’Ottocento dal “manzonismo degli stenterelli”, impronterà di sé tanti altri scrittori italiani.

Ingegnere minerario per professione, Gadda incorpora a piè sospinto i tecnicismi nella sua scrittura, depurandoli proprio da quanto essi hanno di strettamente gergale e consegnandoli all’ecumene di un flusso espressivo che tutto incorpora e tutto tritura elevandolo a dignità d’arte. Gadda rivendica qui incessantemente la sua natura maccheronica e prende a pugni la

“lingua dell’uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie”.

Chissà che avrebbe detto il De Amicis dell’Idioma gentile, onesto e limitato alfiere di quel manzonismo da massaie, dinanzi alla violenza inaudita con cui Gadda terremotava il linguaggio! In queste pagine errabonde Gadda discorre di Genet e del Moravia di Agostino, del romanesco del Belli e della pittura di Ensor, delle ribalderie di Villon e del suo emulo ed epigono Rimbaud: tutti artisti che per violenza espressiva o emotiva sono materia congeniale all’Ingegnere.

Gadda non manca di strapazzare il Neorealismo e la “tremenda serietà del referto” delle sue produzioni. Lucidissimamente, in poche paginette Gadda mette a nudo i limiti insormontabili del Neorealismo e della sua mancanza di una “dimensione noumenica”: incapace di attingere il noumeno, il Neorealismo si limita a dibattersi nel mondo fenomenico, senza riuscire a trasfigurarlo. 

Facendo una postilla a Gadda, viene da dire che dove il Neorealismo, soprattutto nel cinema, ha raggiunto vette di altissima poesia, è stato proprio dove la Realtà non è stata più registrata meccanicamente ma rielaborata e trasfigurata in invenzione fantastica, sovvertendo in realtà proprio gli assunti progettuali della poetica neorealista. Gadda si pone al polo opposto ed è il punto d’arrivo, non più superabile, non solo di tutto quel filone preespressionista dei già citati Rabelais e Folengo, ma anche di quella “linea lombarda” di cui parlava Contini e che vede come più diretto progenitore del nostro quel geniaccio di Carlo Dossi.

Senza Dossi, autore la cui grandezza è stata tardivamente compresa, forse Gadda non sarebbe stato pienamente Gadda.

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG