25 Aprile 2019

È ora di celebrare l’“anarcronismo” di Rodolfo Quadrelli, il genio anticonformista che faceva paura ai baroni della cultura, e che preferì rifiutare il potere e il proprio tempo

Qualche istante di ricreazione. In memoriam R. Q.

La tua scoperta devo a un amico
Poeta di solitaria compagnia:
Svelata semplicità e senso antico
D’idee e di corpi; e poi l’ironia:

Ironia, Commedia, parole e cose,
E La fine del tempo a dir del regno
Di viali e cascine, infanzia e spose,
Nostro comune, ricerca di un segno

Che tutto contenga, celata sfera
In cui si muove, attorno all’immoto
Attivo, ogni creatura che spera,

Ricreando la vita, suo unico gioco
Giocato di notte e mattina e sera
E poi altre ancora. E già non è poco.

*

25 aprile. Liberazione. Da cosa?

Ogni festa importante dovrebbe avere un senso sempre uguale e nuovo, per cui ecco una piccola proposta un po’ partigiana che ricordi e faccia onore a uno scrittore di cui lo scorso 3 marzo ricorreva l’ottantesimo anniversario della nascita, rimosso perfino dagli stessi conservatori (?) per non dir dei reazionari (?) presi dal centenario D’Annunzio, l’iperliberale, in quel di Pflaum, o Reka, o Fiume, o Rijeka, o Szentvit.

Rodolfo Quadrelli era infatti nato il 3 marzo 1939, nella sua Milano, dove insegnerà nei licei e morirà poco più che quarantenne, nella eternamente sua Milano, Lombardia, punto d’osservazione “privilegiato” sulle mille derive del suo paese, sociali, culturali, psicologiche, ecologiche, antropologiche, rispetto alle quali prese sempre posizioni forti in ragione delle quali fu in parte tenuto a margini della cultura italica.

Proposta. Liberazione dalla pseudo cultura pseudo italiana seguendo la lezione di Quadrelli.

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“L’elemento estetico sarà l’attrazione del museo all’aperto, dell’Italia come museo all’aperto, dell’Italia da cartolina”, scriveva Quadrelli nel suo denso saggio Il paese umiliato. Era la metà degli anni Settanta e l’autore lombardo e non era certo in errore a proposito della condizione e del destino di un paese il cui unico merito già allora gli sembra esser quello di poter sopravvivere in un futuro piuttosto cupo e scialbo vendendosi – come un luna-park (più “cosy”, non sia mai!) per turisti en masse – possibilmente in braghe corte come gli autoctoni e rigorosamente ricolmi di cliché tra l’altro spesso non per forza falsi –, come un fast-food (più “slow”, non sia mai!) per ghiotti à la page – come una sfilata di moda per essenza effimera e superficiale in pose farsesche d’inaccessibilità per celare il suo orrore –, come arena per il teatro d’opera più stantio –, o per l’appunto come un “museo all’aperto” –, e vale a dire come sfondo romano, medievale, rinascimentale, barocco, in cui si trascina una stridente umanità che s’identifica per lo più, volente, nolente, con una nazione che in oltre un secolo e mezzo non è stata in grado di concepire una singola bellezza architettonica e urbanistica (ambiti in cui l’individualità e il genio di un artista non bastano perché si scontrano con l’inettitudine dei committenti rappresentanti di un popolo; sicché i Carrà, i Casorati, i Morandi, i Nathan possono finire sotto lo sguardo di pochi; mentre i “capolavori” dei Calatrava e Fuksas sono sotto gli occhi di tutti in una vita quotidiana resa ancor più misera da tanta insipienza e assenza di grazia). Niente insomma di paragonabile alle bellezze da tutte le possibili entità geografiche, amministrative, politiche, costituzionali che precedettero “l’Italia” che le ha poi inglobate. E che a stento si è trascinata per oltre un secolo e mezzo dietro a un mito, impolverato e di sicuro alieno alla realtà quotidiana quanto la sfilata degli scrittori nelle aule di scuola.

Se non si può seguire il suggerimento di una delle menti più vivaci della prima metà del secolo, quasi completamente escluso da programmi scolastici, Giovanni Papini, l’autore di Un uomo finito, fece i conti con tutto, e chiudere finalmente le scuole risorgimentali, si potrebbe se non altro ridurre il programma di quinta liceo una manciata di pagine che da sole basterebbero non solo per la letteratura del Novecento ma anche come sintesi della storia e della filosofia, realizzando un inno alla sintesi, non priva di complessità, e che tutto il resto possa esser vita vissuta, lettura viva e vera conoscenza, dunque esperienza, che trasuda dalle poche parole indicate da questa modestissima proposta: Fratelli di Ungaretti; le due versioni in friulano e italiano di Saluto e augurio di Pasolini; il primo frammento de La giornata di un nevrastenico di Campana (e magari spingersi finanche al punto di avventurarsi nel terzo – e farsi dire dal poeta toscano che in attesa degli studenti c’è il “corteo pallido e interessante delle grazie moderne […] che vanno a lezione” – delle studentesse sotto i portici bolognesi sul cui viso appare “raro un sorriso e […] intento e masticato, di prognosi riservata, le scienziate” – propedeutico a chi si accinge a iscriversi a qualche università); e una dozzina di versi rispettivamente dal Belli e dal Porta – o da un altro sommo poeta lombardo, Bonvesin de la Riva.

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A questi testi e ad altri eventuali, meriterebbe poi d’essere aggiunto La mia Milano, l’assai meno noto frammento di Quadrelli assente dalle antologie vergate degli storici ufficiali ma presente in due piccoli gioielli di valore: La fine del tempo, curato da Quirino Principe per la collana “All’insegna del pesce d’oro” di Scheiwiller Milano, e Lo studio della letteratura europea da Dante a Solženicyn, curato da Andrea Sciffo per Il Cerchio di Rimini. Due raccolte di un pregio e di un peso inversamente proporzionale alla loro mole, nonché, nelle quali sono incastonate come un diamante due semplici paginette solo in apparenza marginali e certo estemporanee. Eppure non solo centrali ma anche apicali non solo nella poetica di Quadrelli bensì nel quadro della moderna letteratura italofona, perché l’effettiva estemporaneità corrisponde a una vertiginosa, antimoderna atemporalità. Non per caso e anzi assai giustamente lo stesso Principe ha scritto nella sua breve prefazione che questo è “[i]l più bel testo di ‘ricordi presenti’ in tutta la letteratura italiana del Novecento, cinque pagine tutte collocate nel la zona sublime della scrittura”. E se la letteratura è anche e soprattutto e forse più d’ogni altra cosa l’eternazione, la trasmissione per iscritto di una serie di memorie “istantanee” destinate all’eterno, i conti sul loro valore sono presto fatti, bisogna necessariamente farli con le loro visioni. Ma per farlo bisogna prescindere dai programmi ministeriali che dopo aver forse un poco solleticato i liceali, con Dante e Leopardi, Dossi e gli Scapigliati, ne estenuano la noia e ne suscitano le risate istintive, viscerali, sublimi, con D’Annunzio e con Marinetti… Perché Quadrelli è fuori dalle tristi aule sempre più deserte della scuola italica per il semplice motivo che fu una delle voci meno allineate a qualsivoglia ideologia, e per questo tra le più osteggiate negli anni delle diatribe tra apocalittici e integrati, quando per l’autore milanese l’“integrato per eccellenza” era Alberto Moravia.

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I galloni, con grado di capofila e comandante della gestapo, se li sarebbe presto appuntati il professore, Umberto Eco, il nulla giocoso eretto a genio, le cui pseudo idee ancora oggi si trascinano come spettri nelle menti obnubilate da un trademark che – tra falso progresso e falsa reazione (la quale per salvarsi dalle aporie del progressismo va di solito a parare sulla più moderna e sedicente progressista delle costruzioni quale è la moderna nazione italiana) – si diede non poco da fare per distruggere Quadrelli, forse tra tutte la voce più pura, che Principe, nella sua introduzione dal titolo senz’appello – senz’appello per i suoi osteggiatori – quale è Il poeta colpevole e il tribunale della mediocrità, lo rende fratello, benché in un contesto e con modalità certo più morbidi, come si confà a una fase il cui gran maestro fu Eco, di Pound, di Mandel’stam e di Pasternak – certo non con lo spettro del gulag bensì in un esilio in casa – una casa che intanto si stava facendo sempre più invivibile – l’Italia, da cui la sua Lombardia fu assoggettata.

Ma bisogna intendersi bene sulle parole puntellandosi su quelle scelte con cura da Principe.

Quadrelli, poco noto oggi e ai tempi, non fu affatto un autore misconosciuto nei suoi anni, ma anzi molto ben conosciuto dalla cosiddetta intellighentzia, e proprio per questo osteggiato, perché riconosciuto e capito dai maneggiatori delle italiche lettere, dalle sentinelle gramsciane e conformiste appostate nelle “casematte” del potere più o meno esplicitamente in vigore a partire dalla fine della guerra nella cultura italiana con la connivenza dei potentati cattolici più ipocriti e istituzionali, che criticava apertamente. I potenti nemici cui si riferisce Principe, a cominciare dal postmoderno Eco, esemplare d’intellettuale organico, antitesi altrettanto puntuale di un totale apocalittico quale fu Quadrelli, che li identificava quali cattivi maestri – cattivi necessariamente poiché in fin dei conti “nessuno è buono” (Mc 10,18; Lc 18,19) – e falsi perché tanto per cominciare di maestro “n’esiste solo uno” (Mc 13,32; Gv 17,23) – non essendo però ostile solo ai falsi progressisti e ai veri postmoderni ma a tutto il detestato arco costituzionale.

A fianco della politica, l’università, altra “casamatta” del potere, fondata, quasi dittatorialmente, sullo storicismo, l’antitesi dalla vera tradizione. Non per caso uno dei pochi ad averlo ricordato assieme a Principe e Sciffo sia stato Marcello Veneziani, altra avvocatura purtroppo solo postuma. In un processo forse perduto per la storia di un paese ormai alla fine, ma non per il regno dei grandi poeti e dei veri cristiani, cioè l’anarcronismo. Il rigetto: del potere e del tempo; e del potere del tempo; per stare fuori di essi, nella Realtà e nella Verità.

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Principe parla di un “processo silenzioso”. Ma quali sono state le colpe di Quadrelli? Principe stesso ne indica tre fondamentali: 1) una sua vocazione a vedere – il fatto che egli accantonasse concetti e concezioni per tornare alla visione, all’idea, che sta all’origine delle parole, che ne è la fonte stessa, per rivendicare così una “perentoria verità di quel che si vede”; 2) un’insanabile indipendenza – dalla quale scaturisce la moralità di ciò che ha scritto, in un linguaggio che è tanto popolare “quanto comunicabile e riconoscibile”, ma non innocuo, perché la poesia, precisa Principe, “è innocua solo quando non è poesia”, mentre quella vera è “una tremenda minaccia per il linguaggio su cui si fonda il potere”, come ha bene insegnato Pasolini; 3) la sua vocazione realizzata – di poeta, vocazione non riducibile e compiuta in modo integrale, scrive Principe, messa in atto senza pensare al giudizio esteriore, ma pronta giudicare l’esterno, senz’assoggettarvi nulla allo scopo di ottenere un posto, un ruolo, nella cultura ufficiale al potere e subordinarsi cioè a un sistema che, lungi da qualsivoglia esclusivismo, è aperto a tutti; tale sistema è infatti, come spiega Principe, per vie più politiche che letterarie, è accogliente come una grande meretrice, pronto a offrire consenso a chiunque mostri la necessaria mediocrità e si renda servile nei confronti dello Stato, della sfera pubblica e del falso progresso, della rivoluzione e dello scientismo, tra i mille “-ismi” scandagliati, smontati e denunciati dal poeta. Una lista: americanismo, consumismo, ecologismo, fanatismo, filisteismo, giacobinismo, gnosticismo, gramscismo, illuminismo, industrialismo, irrealismo, liberalismo, manicheismo, marxismo, massonismo, materialismo, modernismo, perfettismo, pragmatismo, progressismo, protestantismo, psicologismo, puritanismo, radicalismo, razionalismo, scientismo, settarismo, spiritualismo, storicismo, strutturalismo, utilitarismo.

Sulla scorta di Guido Ceronetti, Alberto Arbasino e Camillo Langone, si potrebbero oggi aggiungere, sempre in rigoroso ordine alfabetico: ambientalismo, animalismo, antispecismo, femminismo, immigrazionismo, minimalismo, multiculturalismo, nichilismo omosessualismo, postmodernismo, terzomondismo, veganismo, vegetarianismo. Con due importanti annotazioni riguardanti l’una il filisteismo (Quadrelli ne Il paese umiliato parla esplicitamente di una “mezzacultura filistea” mentre altrove si scaglia contro “il cretinetti borghese […] decisamente illuminista e variamente progressista”) e l’altra l’ecologismo (Quadrelli attacca quello privo di cultura, tutto “materialista” o tutto “spiritualista” in stile New Age, distinti dalla vera ecologia umana che è religione, nesso tra corpo, anima, o psiche, e spirito). E una terza che riguarda la differenza tra il vero Cristianesimo, il vero Cattolicesimo, e “le mediocri versioni del cattolicesimo ufficiale” da un lato e dall’altro le derive letterarie atee e gnostiche sempre più di moda.

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Il tutto lo si potrebbe riassumere più ancora che con la locuzione anch’essa molto alla moda di radical-chic, con un neologismo forse più forte ed efficace, quello di radical-nich, un radicalismo nichilista che si è sempre più impossessato dei modi pensandi et operandi delle masse novecentesche, per non dire di quelle del terzo millennio, riguardo alle quali vale più che mai la frase, di uno dei cinque grandi riferimenti anglofoni di Quadrelli (assieme a Shakespeare e Shelley, a Belloc e Lewis, e a Eliot e Pound), e vale a dire G. K. Chesterton (ma che in realtà risale a Il genio del Cristianesimo di Chateaubriand), stando alla quale una volta che si smette di credere in Dio è più facile credere a tutto, se non che, a fronte di una simile condizione di “crisi d’identità”, di fronte a un simile “umanesimo sconsacrato”, come recita una semplice ma puntuale strofa quadrelliana…“Rifare tutto è impresa assai imponente / ed è possibile che l’uomo si spaventi: / ma più arduo assai è credere nel niente / e darsi e perdersi al vento e ai venti.”

Questo è risultato di un intervento esterno, di un qualcosa d’alieno alla cultura dei luoghi, lampante in Lombardia, imposto da fuori e che ha causato una lenta crisi per via di una forma di colonialismo – l’Italia, esito risorgimentale prima e poi fascista.

Marco Settimini

(prima parte)

*In copertina: Rembrandt, “Autoritratto”, 1640

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