“La bellezza ci dispensa dal vivere”. Cioran su una bicicletta da corsa
Filosofia
Livia Di Vona
Una voce di sussurri e lamenti. Quando Patrizia Valduga (in copertina nella fotografia di Dino Ignani) si avvicina al microfono, per una delle sue letture pubbliche, la sala è gremita, i posti a sedere esauriti e c’è persino gente seduta per terra – considerevole, vista la condizione di pauperismo a cui si è abituati nell’ambiente poetico. La folla presente la si potrebbe confondere con quella di un concerto, se non fosse per il silenzio che cala, quando lei recita. La situazione ha dell’incredibile, ancora di più perché simili successi di pubblico la nota poetessa non li ottiene unicamente nella sua Milano, ma persino nella provincia sperduta del capoluogo sardo, a Cagliari, durante il Festival “Pazza Idea”, lì dove l’abbiamo intercettata noi di Pangea. Approfittando della sua presenza, abbiamo chiesto e ottenuto la possibilità di un dialogo vis-à-vis con una delle autrici che maggiormente ha segnato gli ultimi decenni della poesia italiana, sia con la sua produzione sia fondando la rivista “Poesia” (Crocetti editore) e vivendo a stretto contatto, fino alla fine della sua esistenza, con Giovanni Raboni. Provate a immaginare l’emozione, la vertigine di trovarsi al cospetto di una delle ultime grandi poetesse.
Nella recensione alla sua ultima raccolta, Renato de Robertis dice testualmente che lei è “una reazionaria della parola, che nella sua carriera ha reagito alla sfibrata parola poetica di massa. Ci ha raccontato emblematicamente che la poesia è tecnica e sapienza. Il suo cuore ha generato fedeltà alla tradizione del sonetto e alla rima barocca”. Le piace questa descrizione della sua opera? Lei si sente davvero una “reazionaria”, quando si parla di poesia?
“Reazionaria” è una brutta parola… De Robertis mi dà troppa importanza, ma “fedeltà alla tradizione del sonetto e alla rima barocca” mi piace molto. Penso che il compito della poesia sia unicamente quello, come diceva Mallarmé, di “dare un senso più puro alle parole della tribù”. Non si tratta che di questo, di salvare la lingua dalle contaminazioni, dall’impoverimento, dall’imbarbarimento, dalla burocratizzazione, dall’americanizzazione, da tutto quello che subisce. Senza tenerla immobile però, senza imbalsamarla… sia in forma chiusa che in forma aperta.
Sul “Foglio”, Camillo Langone proclama la totale estraneità della sua poesia allo spirito che anima il movimento metoo. Lei viene identificata come la “superba mendicante dell’amore” che non cerca di far valere sé stessa e la sua individualità contro la potenza del maschile. Io personalmente non sarei d’accordo, però vorrei conoscere la sua posizione in merito. Le sue poesie non sono un modo attraverso cui la donna presenta la propria voce interiore alla scarsa attenzione del maschio?
Non lo so. Non penso che maschile e femminile siano cose così facilmente scindibili. I due sessi dello spirito, diceva Jules Michelet… Basti pensare a quanti scrittori hanno raccontato l’universo femminile, la mente femminile, eppure non erano donne. Come hanno fatto? Come ha potuto Flaubert descrivere così bene i processi mentali di Emma Bovary? O Proust, con tutti quei personaggi femminili così diversi tra loro? Credo che chi si dedica a quelle occupazioni inutili che sono definite artistiche, che la società blandisce o ignora a seconda delle mode e dei diversi momenti storici, sia una persona che ha, se è una donna, una parte maschile più sviluppata rispetto alle altre donne, e, se è un uomo, una parte femminile più sviluppata rispetto agli altri uomini. Paradossalmente, per esempio, io sono qui, in un contesto tutto femminile, a parlare di versi erotici, invitata proprio perché ho una parte maschile più sviluppata. E l’erotismo poi, non so più neanche cosa sia. Potrei forse trattare dell’autoerotismo, e con grande competenza, ma dell’erotismo… (ridiamo).
Una cosa mi ha colpito particolarmente leggendo svariate sue interviste: perché c’è l’ha tanto contro i poeti esordienti? Che le hanno fatto di male? Non lo è stata anche lei, del resto?
Il fatto è che quelli che mi capitano o mi somigliano troppo, e quindi mi danno fastidio, o non c’entrano niente con me e non c’entrano quasi niente con la poesia (ridiamo). Forse semplicemente non sono una scopritrice di talenti. Però, quando curavo la rivista “Poesia”, per un anno circa, alcuni giovani li ho scoperti e li ho pubblicati. Ma allora ero giovane anch’io, avevo trentacinque anni e tanta voglia di leggere cose nuove. Adesso questo desidero è svanito, perché mi sembra che il peggioramento della scuola, dell’università, delle pagine culturali dei giornali, di tutto ciò che è culturalmente mediatico, sia tale che i manufatti che mi capitano sottomano sono a un livello terribilmente inferiore rispetto a quelli di trent’anni fa. Poi io non ho istinti pedagogici, o materni, quindi non mi piace occuparmi dei giovani.
Lei avrà ben presente quella partecipazione televisiva di Raboni, a confronto con Carmelo Bene (che vedete qui), in cui quest’ultimo disse al poeta milanese di non aver cestinato le Canzonette mortali per non sporcare il cestino. Mi sono sempre chiesto il perché di una posizione così dura da parte di Bene, senza mai realmente comprenderlo. Lei che idea si è fatta in merito?
Raboni ha sempre scritto quello che pensava e si è fatto un grandissimo numero di nemici. Di Carmelo Bene ha parlato con qualche ammirazione, ma esprimendo al contempo molte riserve, a cominciare dai film. Raboni è stato anche critico cinematografico, per “L’Avvenire”, dalla fine del ’68 al ’71. Bene era purtroppo pompato dai suoi ammiratori mentecatti francesi che lo consideravano un Dio in terra e Raboni non sopportava un simile atteggiamento. Ma, a ogni modo, che importa l’opinione di Bene! Sa che cosa ha scritto Bertolucci, invece? Che le Canzonette mortali sono le più belle poesie d’amore del Novecento.
La sua poesia, con tutti i riferimenti alla dimensione erotica e personale, a suo avviso va inquadrata nell’alveo dell’intimismo, oppure della poesia sociale? Insomma, le sto chiedendo se il suo erotismo è politico.
Secondo me tutto quello che si scrive è politico, se lo si dà a un pubblico e se veicola un pensiero. Non è politico quello che non significa niente, che è vacuo e inutile, che aggiunge solo nebbia e fumo alla confusione presente, che ci insegna a essere ignoranti. Ma forse è politico anche quello, in senso reazionario… La letteratura deve invece aiutare a conoscere, a capire sé stessi e il mondo. Raboni diceva che le sue liriche più private erano quelle più politiche. Lei non sa quanto mi piacerebbe assomigliargli. Ma io non sono così grande, io sono un piccolissimo sasso ai piedi di una montagna di ottomila metri.
Eppure, vi saranno delle affinità con la poesia di quello che fu il suo compagno. Lei quali ha riscontrato?
Non si possono fare paragoni di questo tipo, perché io sono piccola piccola e lui è un genio. Se vado indietro nel tempo, l’unica persona che vedo così aperta al mondo, altrettanto capace di scrivere su qualsiasi tema, piena di interessi, dalla politica, all’arte, alla musica, mi viene in mente solo Goethe. La stessa serenità inquieta, inquietudine e serenità dell’intelligenza, serenità della sapienza… Ma l’inquietudine, quella ci deve essere sempre, altrimenti non si scrive.
Ma quindi, mi perdoni, è Raboni il più grande poeta italiano del Novecento?
Per me, sì. Però so che, leggendo queste parole, tutti penseranno “per forza lo dice”. La verità è che io non sono un critico, perché i critici credibili sono i conformisti. Potrei benissimo curare un’antologia della poesia italiana, ma toglierei tanti poeti che sono considerati grandi e importanti, per lasciarli tra i narratori, e ne aggiungerei molti che sono purtroppo quasi sconosciuti.
Chi toglierebbe e chi aggiungerebbe?
Toglierei, per esempio, o meglio, metterei in secondo piano, Foscolo, Manzoni e Leopardi, e metterei invece in primo piano Porta, Belli e Prati. Questi sono poeti che hanno una produzione vastissima. Gli altri cosa hanno scritto? Poco e perlopiù cose d’occasione, spesso faticosissime da leggere oggi.
Come pensa di venire ricordata nella storia della letteratura italiana?
Non posso neanche pensare di essere ricordata nella storia della letteratura italiana, si figuri se so come.
Non ci ha mai pensato a cosa diranno di lei?
Visto quello che hanno detto finora, mi risparmi di pensare a quello che diranno quando sarò morta (ride). Masochista va bene, ma non fino a questo punto.
Mi racconta cosa la spinse in prima istanza a scrivere versi, quale fu la scintilla?
Una volta ho risposto alla domanda “perché scrive?” dicendo testualmente: “per cavare un po’ di piacere dalle parole, quando non mi riesce di cavarlo altrove”.
D’accordo, ma quale fu la scintilla, l’occasione?
Il non riuscire a scopare con un professore di filosofia: per lui ho scritto un sonetto e così ci sono riuscita. Il sonetto mi ha dato un piacere enormemente più grande di quello provato con il professore, così ho smesso con lui e ho continuato coi sonetti.
Ma quando si è resa conto di aver scritto vera poesia e non grida dal cuore?
La differenza è sostanziale. Quando si scrive qualcosa di buono, si entra in quello stato meraviglioso che io chiamo “punto di sella”. Si tratta di una specie di estasi, un piacere enorme. Poi ci si trattiene, per un giorno, o due. Quando si rilegge, se si prova la stessa euforia, lo stesso godimento, è la prova che vale qualcosa.
Lei ha tradotto diversi autori. Ma, dal suo punto di vista, è necessario essere poeti per trasporre in versi un altro poeta?
Certamente! Una poesia si traduce con un’altra poesia. Bisogna dare vita a degli altri versi, altrimenti è una traduzione di servizio, una cosa che non ha niente a che fare con l’originale. Il guaio di certi poeti è infatti quello di leggere delle pessime traduzioni e non riuscire a confrontarsi con il testo originale. Anche io ho cominciato prendendo un abbaglio. A quattordici anni leggevo Dylan Thomas e lo amavo tantissimo, anche se non capivo quasi niente. Ero convinta di leggere proprio lui. Ma poi, quando ho potuto leggere l’originale, mi sono resa conto che avevo letto soltanto Roberto Sanesi.
Si sente mai stanca di parlare della sua poesia, oppure pensa che sia fondamentale discuterne? È necessario, insomma, secondo lei un discorso intorno alla poesia o i versi dovrebbero bastare a sé stessi?
Il fatto è che i lettori sono talmente pochi che, per fare propaganda, io non mi stancherei mai di parlare di poesia. Non della mia – cosa che mi annoierebbe –, ma di quella altrui. Io, per nevrosi, ho dovuto imparare a memoria moltissimi poeti, e recitarli mi dà un grande piacere. Mi sembra di far un’opera giusta, perché faccio sentire quella che per me è vera poesia, quella che dovrebbe dare piacere oltre che trasmettere pensieri e sentimenti.
Che cos’è la poesia, dal suo punto di vista?
Ho una definizione stupenda, che ho inserito nel piccolo saggio appena uscito per Il Mulino, Per sguardi e per parole. È di Tommaso Ceva, matematico e poeta didascalico, che all’inizio del Settecento scrive (legge da un minuscolo foglietto): “La poesia, massimamente la lirica, può quasi chiamarsi un sogno che si fa in presenza della ragione; ed ella vi sta sopra, con gli occhi aperti a rimirarlo e averne cura; o pure dir si può una pazzia di fantasmi stretti, a guisa dei furiosi, nei legami del verso e tenuti (per così dire) a scuola di morale, sotto la verga d’un severo giudicio e sotto gli occhi d’una perspicace intelligenza”. Ecco, i versi sono dei “furiosi” tenuti nella camicia di forza della forma. I furiosi sono i sentimenti. Stessa cosa dice Eliot (stesso foglietto): “La poesia non è uno scatenarsi delle emozioni, ma una fuga dalle emozioni. Non è l’espressione della personalità, ma una fuga dalla personalità. Naturalmente, però, soltanto coloro che possiedono personalità ed emozioni sanno cosa significa voler evadere da esse”. Tutti credono invece che la poesia sia quasi una cosa che esiste in natura, che esiste in sé, che ognuno ha dentro, e proclamano “Scopri il poeta che è in te”. Ma chi crea scuole di scrittura poetica sarebbe da mettere in prigione. Ma riesce a immaginarselo, lei, Baudelaire che va a scuola di poesia? È impossibile! La poesia è un istinto profondo. D’Annunzio diceva “la lingua è il più potente dei miei istinti”, e io gli credo. Come credo che un pittore direbbe che lo sguardo è il più potente dei suoi istinti. Penso che questo istinto lo si abbia da subito. Se un bambino, per esempio, impara a memoria le filastrocche o vuole sentirsele rileggere continuamente, già dimostra una sensibilità dell’udito più sviluppata…
Questo per ciò che concerne l’artista in generale, ma per quel che riguarda il fruitore invece? Cosa forma il suo gusto?
Credo sia, prima di tutto, l’educazione. E che a monte del bisogno di arte ci sia una ferita, come dice Raboni. Se chi ha questa ferita vive tra delle valli sperdute, probabilmente finirà con l’accoppare qualcuno; invece, se ha una biblioteca in casa, un padre che gli legge Manzoni e Porta, una madre che suona il pianoforte – sto descrivendo l’infanzia di Raboni – si aggrappa a queste cose e le vede come una salvezza. Così nasce il fruitore. È chiaro, comunque, che bisogna essere stati fruitori prima per diventare creatori. Invece, adesso, vanno a scuola di scrittura, sono ignoranti, e scrivono a vanvera. “Rimasi solo tu”, ha scritto un aspirante poeta che ho letto recentemente… Ecco, non sanno neanche coniugare i verbi e scrivono.
Matteo Fais