04 Ottobre 2022

“Era un poeta. Impassibile e vertiginoso”. In devozione alla parola precaria

Prima della parola, c’è la possibilità infinita.

Prima di qualsiasi rappresentazione, alle sue spalle, c’è un cosmo primitivo, scuro di pienezza, tacito eppure gremito, risonante. A perpendicolo nel tempo e divaricato nello spazio fino a combaciare con l’assoluto: spaventosa totalità, indeterminata potenza, eppure in minuta precisione di ogni particella. Una «santità» del minimo particolare, che, come in William Blake, è atto di presenza univoca e perfetta, concorde a prescrizione divina.

Perché tale essenza venga espressa da riflessione o rielaborazione umana, deve passare attraverso la cruna d’ago di un linguaggio (letterario, figurativo, musicale), facendosi inevitabilmente cosa parziale, che trattiene sul dorso il marchio di finitezza del suo artefice, e diviene essa stessa oggetto delimitato, inidoneo a farsi notizia e riverbero della propria fonte.

Se ogni emanazione della sensibilità e dell’intelletto umano è soggetta a tale rastremazione e tonsura, la poesia, per la sua presunzione di narrare l’incommensurabile, ne è la vittima più evidente e predestinata: deliberato tentativo di imitare il Logos primordiale, inteso come gesto creativo totale del Verbo, la poesia è un reiterato, inconfessabile desiderio di avvicinare la presenza dalle sue distanze siderali, per renderla in parola.

Anche quando è bassa o dura, cinica, recriminatoria, la poesia è il grido di solitudine che bestemmia l’assenza, e invoca con disperazione su di sé l’ombra di una primigenia, perduta presenza.

Perché, se dire per indicare è fiducia nel linguaggio, nella sua corrispondenza agli oggetti esistenti, dire per significare, per evocare, è parola che vibra di un vivo legame ontologico con le cose, e sa chiamare per nome la realtà con responsabilità e corrispondenza, con quella stessa identità tra parola e mondo che c’è stata nell’attimo della creazione

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto
di tutto ciò che esiste

(Gv 1, 1-18)

L’uomo è qui sulla Terra, ipotesi d’infinità, spirito insufflato in corpo, parziale proiezione di un’entità madre che fa dell’inesauribile dubbio il seme della propria innegabilità; impalpabile e smisurata, la divinità è l’azzardo supremo che, mancando, non può non essere e, negandosi nel reale, si afferma in spirito: la matrice possibile in cui ogni istanza è compresente e anteriore, in sogno pervasivo di compiutezza che è congettura di realizzazione piena, ma antecedente a ogni corporeità.

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Novalis ben sapeva dell’uomo, «splendido intruso con gli occhi colmi di sensi, il passo leggero, le labbra dolcemente socchiuse, ricche di suoni»; creatura straniera alla materia, visitatore del «mondo immane delle costellazioni senza quiete», creatura perduta e sovrana che «nuota danzando» nel «frutto azzurro» della luce come la «pietra scintillante», la «pianta sensitiva», il «multiforme animale istintivo». Plasmato di fango, dato in sorte alla cenere, se pur attratto dalla luce l’uomo si volge per vocazione al segreto che gli somiglia, alle «plaghe remote» della «sacra, impalpabile, arcana notte», sotto il cui «manto» hanno patria «presagi», il «delizioso balsamo» che solleva porgendo all’animo «fasci di papaveri» e il «lieto spavento» di veder dischiusi su di sé «occhi infiniti» (Novalis, Inni alla notte).

Una verità elusiva, intraducibile popola il silenzio. L’uomo analitico divora sé stesso e sposta sempre più avanti una torcia che non illumina, se non quella mezza luna di cammino rischiarato che lo asseconda, non dicendogli null’altro. Heisenberg dimostra matematicamente che l’osservazione ravvicinata disperde e annuvola gli elementi, spazientisce il senso profondo che anima le cose, inducendole a opacizzarsi. La scienza consegue i suoi traguardi, ma vi sono confini oltre i quali il territorio è inesplorato, inesplorabile.

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La fiducia nella corrispondenza tra coscienza (e parola) umana ed essenza del cosmo ha attraversato la storia, dall’idealismo platonico coi suoi archetipi di pura forma, fino alle meditazioni sul pensiero verbale di Descartes. Il postulato di identità sostanziale e di unità dinamica e integrata dell’umano nel divino è antichissimo; Anassimandro lo chiama ápeiron: «da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo» (Simplicio, Commentario alla fisica di Aristotele, 24, 13; Diels-Kranz fr. 12, B 1).

Per Hegel lo Spirito deve frammentarsi e concretarsi nella realtà per farsi consapevolezza che via via si riconosce. La sua Fenomenologia va per asserzioni e negazioni, verso un assoluto che è risultato, pienezza in movimento, che integra e include ogni contraddizione. Dimora dello Spirito in questo processo è la coscienza dell’uomo, che può arrivare a comprendere ontologicamente il mondo e sé stesso attraverso stadi progressivi di concettualizzazione, in cui l’ideazione non può che far perno sul linguaggio.

Tali sistematizzate certezze, tali presunte corrispondenze tra reale e codice linguistico in epoca recente sono state smentite da una progressiva decostruzione, esitata nello sconforto della non dicibilità, intellettuale prima ancora che poetica, dell’universo. Il fiore di Mallarmé, la frammentazione dell’io di Rimbaud (Je est un autre), lo stesso Hofmannsthal della Lettera di Lord Chandos preludono a un’epoca di ingravescente scetticismo filosofico sulla congruenza ontologica tra parola e realtà, che è proiezione inconscia della reiterata negazione di un’entità creatrice, che sia stata in grado di nominare il mondo.

Ma la poesia?

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Di fronte all’intraducibile, materia lirica di elezione, il poeta che continua ad aver fiducia nella parola è uno splendido paradosso, perché, non temendo la decostruzione dell’inferenza razionale, sceglie di lasciar fluire il linguaggio col proprio enigma, e oltrepassa l’ostacolo. L’alchimia tra parola detta e parola taciuta eleva l’arcano dalla piana del silenzio, facendo balenare agli occhi, anche se solo un istante, l’intuizione dell’altro, dell’inconosciuto altrove:

«Sentii dire che nell’acqua
vi era una pietra ed un cerchio
e sopra l’acqua una parola
che dispone il cerchio attorno alla pietra.

Vidi il mio pioppo calare nell’acqua,
ne vidi il braccio tastar giù nel profondo,
e, protese al cielo, le radici ad implorar notte.

Io non gli tenni dietro,
soltanto colsi da terra quella briciola,
che ha del tuo occhio la nobile forma,
dal collo ti tolsi la collana dei motti
e ne orlai la tavola, ove adesso stava la briciola.

Ed il pioppo sparì alla mia vista»

(Paul Celan, Sentii dire, in: Di soglia in soglia)

Da lande brune, senza memoria, il poeta è guardiano alle chiuse, cura la trasparenza del tempo e la precarietà di ogni soffio di senso, stretto nella pena del petto quando l’universo, come un volo d’uccello, nelle nostre parole s’informa di sé stesso, breve, in labile colpo d’ala, e poi si ritira, sublime in riserbo.

Far accadere, pianificare, dominare l’andamento delle cose è valida, luminosa funzione dell’umano nelle aree di concretezza; ma in certe sfere è illusione la permanenza, e utopia l’efficacia: voli di rondine, volubili, a dire la tenerezza inerme del nostro essere qui.

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Nel linguaggio, e nella parola in arte, non negare lo spirito significa entrare sotto la palpebra del dio. Solo gli accorti respiri si ritmano alla risacca, al fiato di Oceano, ed elevano il sollievo a pensiero; con lo sterno intarsiato a polena, ritmarsi in svolta del respiro, celaniano conato d’armonia, che si inscrive nel creato inspirando firmamenti aurei e bui, ed espirando annunci in poesia; nel migrare di stormi alati, ogni nuovo canto s’indora e si azzurra. Senza attaccamento, esperire la bellezza, la vorace e rapida, la sanguinaria.

Dire.

È così, certo del fallimento, che il poeta conserva fede al proferire: nel tepore dello stento, nel distillare incerto che s’avvicina ma non è: il centro del senso è imprendibile, ha sempre un resto, uno scarto, e tuttavia chiede, irredento, di essere nominato; a chi risponde, in dono il pellegrinaggio, e l’interminato dannarsi nel patire – delizioso – della ricerca:

«Lì reca anche tu, ora,
ciò che albeggiando vuol crescere
insieme ai giorni: reca
la parola sorvolata dagli astri,
sommersa dai mari.

A ciascuno la sua parola.
A ciascuno la parola che gli si fece canto,
allorché la muta lo giunse alle spalle,
a ciascuno la parola che si fece canto e impietrì»

(Paul Celan, Argumentum e silentio, in: Di soglia in soglia)

Sporgersi in parola, «storta, nel beccuccio di ferro, / la scheggia fumigante», sapendo della barriera tra chi pronuncia e chi ascolta, delle «due / pozzanghere grigio-cuore»: due / bocconi di silenzio»; è quella Sprachgitter, grata di parole, che Nelly Sachs paragona, in una lettera indirizzata a Celan, al Sēfer ha-zōhar, il Libro dello splendore: tomo mistico ebraico, che è insieme midrāsh, esegesi: la grata è confine e filtro, setaccio che unisce e divide, lasciando sospese le parole al proprio suono e significato.

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Risalire allora, della parola, gli arti distali, andare agli etimi in prossimità dell’onomatopea, affacciarsi allo sterminato buio dei suoni primigenî, delle anime che vibrano nei sepolcri, delle acque che si ricongiungono nelle falde, negli antri profondi, coltivando la sacralità del pronunciare; facendosi eco di ciò che vuole esser detto, labile e inciso, perpetuo, come fiato su stele di ardesia.

Il linguaggio è il dono – le labbra dolcemente socchiuse, ricche di suoni – che è stato fatto all’uomo per dare espressione agli occhi colmi di senso, ma con passo leggero: «spiegare con parole di questo mondo / che partì da me una nave portandomi» (Alejandra Pizarnik, La figlia dell’insonnia).

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Solo insincera o avventata può essere quella mano critica che disseziona i testi, li piega e giudica secondo scale numeriche di valore, burocratizzando ciò che non è coercibile; o ancor peggio quella pedagogia che vuole instradare all’autorialità, ingenua didattica che rivolge a pensiero e scrittura improbabili catechesi di lessico, ritmo e stile, da articolare in preconfezionate sintassi; che diano ampia fruibilità al testo, secondo canoni di mercificazione del gesto artistico, cioè – nei suoi versanti più puri – dell’atto spirituale: «Era un poeta. Impassibile e vertiginoso, futuro come la gioia e più remoto di una pietra tombale» (Cristina Campo, Gli imperdonabili).

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Siamo entrati nel tempio vociando, con mani lorde, nella desolazione della supponenza di riproducibilità, di una messa a frutto dell’espressione. Addomesticare la parola per renderla attraente e profittevole, svago e orrore, l’ipocrisia dello stendardo. Ancora Pizarnik:

«È un chiudere gli occhi e giurare di non aprirli. Che fuori intanto si nutrano di orologi e di fiori nati dall’astuzia. Ma con gli occhi chiusi e una sofferenza davvero troppo grande tastiamo gli specchi finché le parole dimenticate suonino magicamente».

(Alejandra Pizarnik, La figlia dell’insonnia)

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Sofferente e privo d’appiglio, l’uomo cerca, pur senza saperlo, l’unica parola necessaria, che sa stillare dolendosi di quel vero attento che è ombra del sacro. La poesia è celaniana, campiana, geroglifica per essenza, «professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile», che geme o gode di tensione al cielo, ed è incantevole per coraggio, in quel tentativo di enunciare l’inesprimibile, che le dà splendore per soprammercato: «Come il gigante dalla bottiglia, dall’immagine l’attenzione libera l’idea, poi di nuovo raccoglie l’idea dentro l’immagine: a somiglianza, ancora una volta, degli alchimisti che prima scioglievano il sale in un liquido e poi studiavano in quale modo si riaddensasse in figure» (Cristina Campo, Gli Imperdonabili).

Chiunque sia dotato di senso frequenta il calcolabile, e in esso crede, come unica possibilità di organizzare al meglio i commerci terrestri. Ma l’incalcolabile chiede riguardo, piede lieve, occhi lucenti. E la scrittura poetica fa parte di questo universo: se bellezza vi abita, essa si pesa da sola, secondo metri imponderabili.

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Dissezionarla estraendone valori e utilità, emettendo sentenze significa renderla un involucro vuoto, pacchiano e negletto, come una delirante città chiassosa e disabitata: «Ma che il poeta tremi un solo momento – poiché è facile tentare un’anima retta con la doppia menzogna del «rinnovamento dei suoi mezzi» e dei suoi «doveri verso il sociale» (quasi che, dall’intimo, la giusta crescita delle forze spirituali non modifichi incessantemente il profilo; quasi che il cenobita non giunga più lontano che non l’uomo socievole, «poiché l’esempio è eterno e i cerchi del suo influsso si allargano all’infinito») cessi un solo momento quel poeta di sedere contro la parete, di leggere Giobbe e Geremia; quale strazio allora, e come il minimo di quegli effimeri confratelli lo batterà al primo verso sul terreno dell’ideologia colloquiale, della scioltezza mondana» (Cristina Campo, Gli imperdonabili).

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Così George Steiner:

«Quelli che professano e applicano ai poetici una “teoria della critica”, “un’ermeneutica teorica” sono oggi i padroni del mondo accademico e i modelli esemplari della chiacchiera alta sulle arti e le lettere […] In realtà, o ingannano se stessi, o si accaparrano uno strumento reso immensamente prestigioso e affidabile dalla scienza e dalla tecnologia, ma ontologicamente inapplicabile alla loro materia […] Di fronte a ciò che rimane incommensurabile e che non si può ridurre né all’analisi formale né alla parafrasi sistematica, nella poesia, nella musica, e nella pittura, l’impulso interpretativo e critico si spazientisce. Definirei la rivendicazione dello statuto teorico da parte delle discipline umanistiche come un’impazienza resa sistematica […] Oggi questa impazienza ha acquisito un’urgenza estrema, nichilista. Dubita dei concetti stessi di significato e di forma. Mette in forse la possibilità di qualsiasi relazione significativa tra la parola e il mondo. Esalta i miti della teoria al di sopra dei fatti del creato […] Ancora una volta, la posta in gioco è teologica».

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Come suggerisce lo stesso Steiner, se l’arte riesce a farsi interpretazione e rappresentazione, vera presenza, allora la critica sia dichiaratamente narrazione soggettiva, secondaria e intuitiva, come Barthes su Balzac, o Bloom su Yeats.

E ancora: se alle spalle della parola c’è un’ineffabile, allora al linguaggio artistico che non nega sé stesso come possibile soffio dell’essere è necessaria la cautela dell’intensità, la contrizione della brevità, l’ustione dell’enigma svelato in breve apparizione – un vibrare purpureo, di fiamma effimera, che insorge da protratta oscurità – l’umiltà dell’anonimato, il candore della figura naturale, che si staglia in simbolo: Friedrich Schlegel, nel Dialogo sulla poesia, prescriveva umiltà, anonimo servizio, e affermava che ogni bellezza «è allegoria, e le cose supreme, proprio perché inesprimibili, possono essere espresse solo allegoricamente»; ma anche diceva che «la poesia può essere criticata solo dalla poesia. Un giudizio che non sia un’opera d’arte non ha diritto di cittadinanza nel regno dell’arte».

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Anche il «critico» accorto, non trascuri l’ascolto attento e la resa in armonia, il tributo alla grazia ricevuta: poiché entrambi, poeta e interprete dimorano nella sequenza semiotica che chiede naturalità, vera presenza, e devozione alla parola che nomina il mondo: ascolto a quelle particole di senso che, riflesso infinitesimo del verbo divino, vivono nella parola in arte: tentata vera essenza, presente in «santità», in esattezza piena; come ogni corpuscolo cosmico ciò che, in lealtà d’essere, emana integro e spoglio dall’assoluto.

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«Con alberi protesi in canti verso terra
Navigano i relitti dei cieli.

Con i denti in solida presa ti afferri
A questo canto del legno.

Tu sei il vessillo
Fermo nel canto»

(Paul Celan, Cristallo di respiro)

Fermi nel canto, saldi alle ombre, esser grati persino del divario, dello stento: il supremo rispetto, nell’eterno tentare, incompiuti. Il poeta, rimanendo devoto nella parola precaria, fa esercizio di verità, rende omaggio alla «vuota mandorla, blu regale»: quel frutto arcano, ritroso, davanti al quale eternamente volteggiare, supponendolo, per trepidazione, vuoto; e pure sapendo che talora, per intensità, possa schiudersi alla parola vera e presente, di castità sovrana; nell’attimo, punto infinito, che tutto rivela e contiene:

«porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.

Due mondi – e io vengo dall’altro»

(Cristina Campo, Diario Bizantino, in: La Tigre assenza)

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Testi consultati:

George Steiner, Vere presenze, traduzione di Claude Béguin, Garzanti Editore 2019

Novalis, Inni alla notte Canti spirituali, traduzione di Roberto Fertonani, a cura di Virginia Cisotti, Arnoldo Mondadori Editore1982

Paul Celan, Di soglia in soglia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Giulio Einaudi editore 1996

Paul Celan, (Atemkristall, Cristallo di respiro, plaquette pubblicata nel 1965 a tiratura limitata (ottantacinque esemplari), presso l’editore Brunidor di Parigi, con otto incisioni di Gisèle Celan-Lestrange, poi ripubblicata nel ’67 in Atemewende, Suhrkamp, Frankfurt/M), ora in Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Meridiani Mondadori, 1998

Alejandra Pizarnik, La figlia dell’insonnia, a cura di Claudio Cinti, Crocetti editore 2020

Cristina Campo, Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti, Adelphi, 1987

Cristina Campo, La Tigre Assenza, Adelphi, 1991

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