In sintesi, Christian Bobin è uno dei rari ‘classici’ viventi. In Francia, per capirci, è una specie di anti-Houellebecq. Se questo – il torvo Michel – scava nella gora dell’orrore odierno, l’altro ne svela la magnificenza, il miracolo; uno bestemmia, l’altro onora: entrambi, pare, condividono analoghi estremismi. Ad ogni modo: Gallimard ha appena pubblicato un volume di “testi scelti” di Bobin; un migliaio di pagine pubblicate come Les différent régions du ciel, a prezzo di vaglia (26 euro). Poligrafo – ha pubblicato una sessantina di libri, più o meno lievi – è presentato come l’autore “di un’opera inclassificabile… un baluardo contro il disincanto e contro il proliferare del ‘pensiero unico’”. Esteta della solitudine – vive in un casolare, ai margini di un bosco, presso la nativa Creusot –, Bobin ha cominciato a scrivere da ragazzo, ispirato dalla lettura di Platone e Kierkegaard; ha pubblicato per gioco, dal 1977, facendo diversi lavori, è diventato, dagli anni Novanta, un autore ‘di culto’. L’appunto, il diario, la chiosa, ‘genere’ specifico della letteratura lirica francese – da René Char a Paul Léautaud, da Jean Grosjean a Edmond Jabès – scoprono in Bobin un’aura dolce, l’etimologia della speranza.
Prima di approdare in Gallimard, Bobin pubblicava i suoi libri, tra placca orfica e deltaplano, con Fata Morgana, editore raffinato, che stampa in rare copie. In Italia ha fatto una scelta simile: scoperto e diffuso da Servitium, la casa editrice dei frati Servi di Maria, legata a David Maria Turoldo, è ora custodito per lo più dalle piccole edizioni di AnimaMundi. L’ultimo libro di Bobin s’intitola Le muguet rouge – mughetto che sa di mugolio –, stampa come sempre Gallimard, ed è anticipato da questo brano:
“Mio padre, morto, mi mostra due rami di mughetto rosso. Mi dice che un ragazzo, su una montagna del Giura, ha inventato quel mughetto e intende diffonderlo nel mondo. Mi invita a cercarlo. L’uomo gestisce un rifugio vicino al lago. Mangio una frittata, bevo del vino passito. Quando gli racconto dei fiori, mi porta su un prato, è in pendenza: decine di mughetti rossi, appena sbocciati, incendiano la pianura. Torno da mio padre per chiedergli chi sia quell’uomo. Risponde che è un suo parente, uno della sua famiglia, di cui non mi aveva mai parlato prima. Incontrali, mi dice, impara a conoscerli”.
Intorno al libro, Bobin ha realizzato un’intervista, che qui pubblichiamo integralmente.
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Il testo si sviluppa tra due sogni…
Non dirò del sogno che chiude il libro, per il lettore sarà una sorpresa. Il primo mi ha permesso l’apertura del testo, il soggetto, la direzione, lo sviluppo. Al risveglio, ho scritto le parole che mi sono state dettate nel cuore della notte. Ho inseguito quel sogno con tracce d’inchiostro, e ben presto mi sono accorto che la piccola tribù del mughetto rosso è composta da persone e da poesie, da movimenti di luce tra le foglie, da una stirpe varia, pronta al mutamento. La sua caratteristica è quella di resistere a qualsiasi intrusione del mondo del mercato, del mondo della tecnologia moderna. Si tratta, in qualche modo, di una sorta di federazioni di resistenti.
Nel libro, convoca diversi scrittori, con una particolare tenerezza verso Nerval…
Finché osiamo vivere, tutto ciò che in noi è segreto, sottile, tenero, Nerval lo rivela, lo illumina. Non sopporta il mondo. Beh, chi lo sopporta? Nerval è il fratello dei giovani di oggi, ipersensibili, i cui slanci sono frenati da questo mondo, un mondo che corrompe l’anima. Se il dolore diventa volo, il volo spalanca, per noi, sulla carta, un solco di luce che consola, che sa chiarirci.
La sua scrittura pare in questo libro più libera.
Scrivere è come mettersi in viaggio. Una frase paradossale detta dal sedentario che sono, dall’uomo che soffre di agorafobia, eppure è così: scrivere per me è stare in uno spazio aperto, scontrarmi con lo sconosciuto. Il libro è una marcia dentro il sogno, un sogno che pervade la realtà. Preferisco una scrittura che, pur ingorda di gioia, non dimentichi nulla del dolore dell’uomo, del suo perpetuo soffrire; una scrittura non deve divertire, ma illuminare.
“Il mughetto rosso” parla anche di musica.
Come la scrittura, la musica è al servizio del silenzio. Più che le note, è ciò che accade tra di esse che ci mette all’erta, le velocità del loro incrocio; la vibrazione di silenzio tra due note, a cui sono sensibile. Tre accordi di Django Reinhardt rimettono il cuore in marcia, come una sonata per clavicembalo di Bach… o la pagina di una scrittura.
Negli stessi giorni, esce una collezione di alcuni suoi testi, “Les différentes régions du ciel”.
Queste “regioni del cielo” sono in moto. Il cielo è un puzzle i cui frammenti cominciano a incastrarsi pronunciando qualcosa che è al di là di me, oltre la mia consapevolezza. Gli abitanti di questo cielo non sono angeli, ma uomini compiuti.
Il libro contiene anche un suo inedito, “L’eau des miroirs”, un testo giovanile.
Quel testo, in fondo, parla di ciò che faccio, giorno e notte, da anni, ciò di cui non smetto mai di occuparmi: la scrittura. È costruito come la canzone di una perdita. In realtà, è l’immagine stessa della scrittura e del suo movimento, che nei momenti terribili va a caccia delle luci più forti, salvifiche.