19 Settembre 2023

“Sei l’anima della mia anima, l’ultima forza che mi resta, l’ultima mia poesia”. Le lettere di Ungaretti a Bruna

Trecentosettantasette missive, dopo cinquant’anni dalla loro stesura, riattraversano l’oceano: dal Brasile ritornano in Italia. A contenerle è una cassapanca preziosamente custodita dalla destinataria. 

Non sono lettere qualsiasi: sono epistole poetiche, dal grande valore lirico e umano, cui accostarsi con rispetto, ammirazione e gratitudine. Sono scritte in verde: il colore della speranza. Vergate nel fuoco della passione e di un amore rarissimo per la parola scritta, alcune contano anche dieci, quindici fogli manoscritti, cesellati con cura, con aggiunte a latere, postume; parole cancellate, scritte, riscritte, riformulate nella tensione lirica della perfezione. 

Non è semplice riaprire quella cassapanca che si è dovuta tenere fisicamente ‘tra parentesi’ per cinquant’anni. Ritrovare e ritoccare ‘il corpo’ di quelle lettere – mai dimenticate, mai sopite, sempre eternamente vive – significa ardere: rivivere, riamare, risoffrire. Rileggerle è come ritornare a vivere un film che si conosce a memoria… ma ritornare, sempre e di nuovo, sulle orme di un grande poeta non è (solo) rivedere un film personale, significa rientrare nei regni universali di Orfeo e Euridice. 

La cassapanca e i fogli sono il ‘corpo meccanico’; il contenuto delle lettere, quello ‘mistico’. Tutto è rimasto intatto. Tutti i pezzi di ciò che si è vissuto – e gelosamente custodito, per dieci lustri, in quel frammento dell’anima che niente può cancellare – sono interamente lì: immutati e immutabili. 

Bisogna trascriverle, quelle lettere?  Ripercorrere tutto? Rigioire, ripiangere o Dio solo sa cosa? Bisogna mettersi a video e, foglio dopo foglio, ricopiarle tutte? Riscrivere un tomo di oltre seicento pagine dattiloscritte? 

Nel buio della notte, pare di udire una chiamata ed Euridice ripetere il suo “sì”, l’identico “sì” pronunciato cinquant’anni prima quando, ventiseienne, si accostava timidamente ad un grande poeta del Novecento di settantotto anni. Ma nulla rileva qui il tempo degli orologi. Un dettaglio anagrafico non è che inutile orpello nel ‘paese dell’anima’: la bellezza del genio non invecchia mai – semmai, l’età la intensifica. Lui è Giuseppe Ungaretti, lei Bruna Bianco.

Il primo abbraccio, a margine di una conferenza che il poeta ha tenuto in Brasile, dove lei si è trasferita anni addietro con la famiglia di origini italiane, è folgorante: in quel settembre del 1966, due vite sono attraversate da un reciproco sentimento disarmante, costellato da diverse difficoltà contingenti, ma che viaggia inarrestabile da una parte all’altra dell’oceano. Sono le lettere a portarlo ed eternizzarlo: ed è così che un patrimonio inestimabile, che avrebbe potuto permanere nella sfera della riservatezza e del pudore, giunge fino a noi, grazie al coraggio indomito e alla grande generosità di Bruna Bianco: le Lettere a Bruna di Giuseppe Ungaretti vedono la luce per Mondadori nel 2017.

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È stato grazie alla biblioteca di Pietra Ligure che ho incontrato Bruna. Fin da subito il nostro è stato un dialogo già in corso, spontaneo ed immediato, sul suo Ungà – come lo chiamavano gli amici parigini (Ungà in russo significa gioia) – sul suo essere stata giurista nella vita dei giorni ma poeta nel cuore.

Posso ben comprendere la forza che ha attraversato Ungaretti e la nuova vena creativa che si è riaccesa in lui dopo aver incontrato Bruna: il suo calore è fuoco vivo, tale da aver ispirato, tra le tante, parole di questo calibro, in una delle primissime lettere:

“Bruna cara,

sono precisamente le sette secondo l’ora italiana, ma a San Paolo devono essere le sei e trenta appena. Devi dormire ancora, e Ti ha disturbato il sonno il mio pensare a Te così mattutino? Se il mio pensare a Te dovesse disturbarTi, non avresti un minuto di pace.

Sento sempre la Tua voce, quella Tua di quella mattina al telefono, mentre stavo per partire. E cerco con gli occhi il Tuo viso, e a volte non riescono a rivederlo com’è, e allora mi stringo con le due mani il viso, e l’accarezzo, e nel mio viso mi rinasce il Tuo nelle mie mani, la più cara cosa, la sola che amo su tutte, l’anima della mia anima, sei l’anima della mia anima, l’ultima forza che mi resta, l’ultima mia poesia, la vera, l’unica vera.

Sono qui al mio scrittoio, in una cabina grande come una piazza. Era per due persone, ma pensano che sono un personaggio tale da meritare d’occupare da solo due letti. Tutto invece, credo, per ricordarmi piuttosto che alla mia età ho il dovere d’essere solo, e anche per rinfacciarmi, forse, con la necessaria ironia, questo mio assurdo atto di scriverTi.

Come hai fatto a entrare così a fondo nella mia vita? Sei d’una sicurezza in quello che fai incredibile, e sei venuta con quella poesia. A dirti la verità, quando sei andata via e l’ho letta, m’è parsa inutile. C’era un’enfasi, c’era un metro in disuso, non so cosa c’era che mi urtava. L’ho ripresa poi a leggere, e vi ho scoperto una grazia, un’onestà, il modo raro d’indovinare il peso, la qualità, la novità, qui e là dei vocaboli, e mi ha toccato, d’improvviso mi ha toccato il sentimento, il dono vero che offre solo la buona poesia, quel dono che illuminava l’ingenuità di quelle strofe un po’ antiquate, che illumina tutto quello che fai. […]

Non sono che un piccolo poeta di questo secolo, nel quale anche i maggiori non possono essere che piccoli poeti; ma anche oggi, nel trambusto, nell’inferno d’oggi,anche oggi la poesia ha bisogno di essere una persona che si scopre tra la gente – che infonde tanta carità, tanta fede, tanta speranza […]

Io sono ormai troppo vecchio, oltre misura vecchio, quasi un antenato, e non occorre che io sia ancora felice, e non mi pare che sia successo un giorno ch’io fossi felice. Ma l’augurio che Tu abbia lunghi anni felici si avvererà. Nessuno ha mai desiderato con più violenza, con più disperazione che sia felice una persona, e non è mai accaduto, se il desiderio era fortissimo, che non fosse esaudito […]”

(Giuseppe Ungaretti a Bruna Bianco, 15 settembre 1966)

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Nel viaggio di rientro dal Brasile all’Italia, in motonave, Ungaretti è solo di fronte ad un sentimento sconcertante che non esita – più volte con rimorso – a definire «demenza». Ha ripreso in mano le poesie che Bruna gli ha portato ed è anche questo a sconcertarlo «una grazia, un’onestà, un modo raro d’indovinare il peso, la qualità, la novità, qui e là dei vocaboli». Ungaretti vede in Bruna un comune destino di poesia e molte lettere (ed incontri) saranno incentrati su quel destino, di cui Ungaretti conosce bene le spine, le asperità, la ricchezza non disgiunta dalla povertà, dalla fame – in senso letterale. Nondimeno, esorta Bruna a proseguire nella scrittura poetica, nella direzione di una forma che sia la più essenziale possibile:

«Il grande segreto della poesia è nella semplicità della parola. Se la parola riesce a farsi semplice, come è un sentimento quando riesce a filtrarsi e a farsi trasparente per purezza, tanto da divenire uno specchio per l’ansia d’ogni anima – in quel momento una parola può credersi vicina alla poesia».

(15 settembre 1966)

Un epistolario essenzialmente d’amore, le Lettere a Bruna, ma anche dialogo da poeta a poeta, nonché journal intime, ove Ungaretti racconta i suoi incontri, i viaggi, le città ed i loro cieli; commenta quadri, mostre e letture; invia poesie e traduzioni; si alza in volo su motivi universali: il tempo, la giovinezza e la vecchiaia, il rapporto tra amore e morte. Notevolissime sono le pagine dedicate alla critica d’arte su Vermeer, Turner, Blake, Modigliani, Apollinaire, Picasso, tanto per citarne alcuni.

Lungo, assiduo e minuzioso il lavorio di cesellatura e politura di Ungaretti sulle poesie di Bruna; continuo il magistero sulla scultura della parola poetica, che – non si stanca di ripetere – è lungo e difficile esercizio di pazienza, un fare e rifare continuo, un «lapidare» le parole fino a restituirne un’impronta personale, unica, quella dell’anima che le ha lavorate e nutrite.

Ungaretti ama la scrittura e la prosa poetica di Bruna, le chiede notizie sul suo romanzo in via di gestazione: vorrebbe leggerlo, ma Bruna ha poco tempo per lavorarci. Da poco laureatesi in giurisprudenza, è impegnata nell’azienda di famiglia.

Tra i tanti doni, Ungaretti le spedisce la sua stilografica, così siglando il riconoscimento del suo talento ed anche l’augurio che quello strumento, con cui lui ha scritto molte delle sue migliori poesie, possa consentirle di fare altrettanto, giacché la penna «guidata dalla mano, trasmette il pensiero e gli affetti, e accompagna la ricerca di parole che li esprimono nel modo più vero» (3 novembre 1966).

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Dopo aver letto quelle lettere memorabili – dove la poesia cammina tra la gente per infondere carità, fede e speranza – vien da chiedersi: potremo mai leggere quelle di Bruna? «Le sto trascrivendo», mi dice «ma questo non è il momento di pubblicarle. Questo è il momento di Ungà. Nella trascrizione della grafia delle lettere alla dattilografia (durata tre anni), ho capito di essere stata uno strumento di Ungaretti per trasmettere questo messaggio di forza, di voglia di vivere, non solo per me, ma per tutti. Ho capito che quello che avevo in mano non apparteneva solo a me, apparteneva a tutti gli uomini del mondo, per superare la stanchezza, la tristezza, la sfiducia… vi dono questo libro meraviglioso: fatene tesoro prezioso».

Il suo messaggio non potrebbe essere più autentico: il dono di un amore immobile, un sentimento che ha vinto barriere di ogni tipo – finanche la morte.

Marilena Garis

Gruppo MAGOG