Preliminare elogio smodato dell’editoria francese. Beh, sì, a chi non stanno sulle scatole i francesi, che fanno sempre i galletti e credono di essere i migliori? Avete ragione. Però, editorialmente parlando, lasciamoli stare. Pensano di avere i più bravi scrittori del lato occidentale del mondo – concetto vero per metà – e li trattano come dèi, come titani, come mostri sacri. Fanno bene. Esempio. Dove stanno tutte le lettere di Giovanni Verga, e quelle di Eugenio Montale e quelle di ‘Gigi’ Pirandello e quelle di Grazia Deledda e quelle di Salvatore Quasimodo e quelle di Giuseppe Ungaretti? Appunto. Sparute, spaiate, qua e là. I francesi, invece, dritti come fusi al cospetto dello scrittore della patria, si comportano in altro modo. Esempio. Nella totemica collana de la Pléiade edita da Gallimard è appena stato stampato il terzo – e ultimo – tomo della Correspondance di Balzac, un bel mucchio (1424 pagine per 59 euro) di lettere, assemblate da Roger Pierrot e da Hervé Yon, che coprono gli ultimi anni di vita dell’instancabile romanziere della ‘Commedia umana’, dal 1842 al 1850. Quelli, per intenderci, che pigliano Illusioni perdute, La cugina Bette, Il cugino Pons, Splendori e miserie delle cortigiane. Mirabilia per lo studioso, strepitosa lettura per chi abbia voglia di un divertimento più sano dell’ultima sciocchezza di Fabio Volo. La penna dell’“umile scrittore di prosa per cui 24 ore di lavoro al giorno non sono sufficienti e che non potrebbe mai ingrossare la corte dei vostri molti amici” (così a Marceline Desbordes-Valmore), infatti, è debordante anche nelle epistole. Di queste lettere colpiscono alcuni acuminati acuti. Su Stendhal, ad esempio. “Una delle menti più notevoli del nostro tempo, ma non gli importava abbastanza della forma, scriveva come cantano gli uccelli, e la nostra lingua è una specie di Madama Onestà che non ama nulla se non ciò che è irreprensibile, cesellato, laccato”, scrive a Romain Colomb, nel gennaio del 1846. Formidabile quanto scrive nel 1843 riguardo ai rapporti tra arte e potere, scrittore e politica. “C’è una forza superiore negli eventi umani che rende le pubbliche discussioni, le opinioni, gli interventi, completamente inutili. L’uomo può annodare, non può disfare. Questo riguarda i drammi politici. L’uomo politico è davvero poco rispetto al poeta e allo scrittore. I libri sono più influenti delle battaglie. Rousseau ha influito sui costumi francesi ben più di Napoleone. La battaglia di Austerliz è un accidente, un trionfo momentaneo, Paul e Virginia, per dire, vincono per la Francia, sull’Europa, la battaglia ogni giorno”. Al di là del riferimento incomprensibile a orecchio italico (il romanzo di Bernardin de Saint-Pierre, non certo il genio proteiforme di Rousseau), il concetto sarebbe da stampare in faccia a Montecitorio. Vitalista totale (“il mio temperamento da toro dà del filo da torcere alla tirannia dell’umanità: io faccio parte dell’opposizione che si chiama Vita”), Balzac morì, nel 1850, dettando le ultime lettere a Théophile Gautier, “non so più leggere, né scrivere”, indomabile, infinito.